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La grandeur autarchica di Istanbul

di Stenio Solinas - 03/05/2011

Dal diciottesimo piano del Marmara Pera Hotel, Istanbul si stende sotto di te per 360 gradi. Mikla si chiama il ristorante tutto vetri che assicura questo panorama mozzafiato, lo chef è locale, Mehemed Gürs, la cucina è turco-mediterranea, la clientela turco-internazionale. Ci sono italiani, francesi, americani, arabi degli Emirati con consorti rigidamente velate, russi con splendide accompagnatrici. “Natascie” dice il mio anfitrione, che è come dire escort nel neo-inglese che da noi va per la maggiore... La cantina a vista è un profluvio di vini di marca, il bancone del bar una cornucopia di liquori. Io mo accontento di un bicchiere di aslan sütü, ovvero «latte di leone», ovvero raki, la bevanda preferita da Atatürk, il fondatore e/o inventore della Turchia moderna.
Mikla è un buon punto di osservazione, parziale eppure privilegiato, per cercare di capire dove stia andando la Turchia, che di qui a giugno vedrà nuove elezioni politiche e la pressoché certa vittoria del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, il leader astemio cui si deve lo straordinario successo del Paese in questo primo decennio del XXI secolo: crescita economica all’otto per cento (solo Cina e India hanno fatto di meglio), sedicesima economia mondiale, sesta economia europea.

E' un interrogativo che ci riguarda in quanto europei e anche e soprattutto in quanto italiani: siamo fra i primi cinque Paesi investitori, rappresentiamo un partner fondamentale in settori strategici quali quello bancario, dell’energia e delle infrastrutture. Non è un caso che in questo inizio del 2011 Einaudi e la Bocconi abbiano mandato in libreria due saggi sull’argomento pieni di timori e di speranze: Chi ha perduto la Turchia di Marco Ansaldo, giornalista de la Repubblica, e La Turchia bussa alla porta di Carlo Masili, nostro ambasciatore ad Ankara sino all’anno scorso. E non è un caso che Aspenia, la rivista dell’Aspen Institute Italia, abbia dedicato a «L’ora della Turchia» il suo dossier centrale. La sensazione che emerge da tutte queste letture è che dopo aver dato per scontato che la Turchia volesse entrare in Europa e che, disciplinatamente, ma all’infinito, avrebbe atteso il suo turno, non ci si è accorti che tutto stava cambiando e che lei stessa avrebbe cominciato a guardarsi intorno e a pensare di fare da sé...

È quello che sull’ultimo numero di Insight Turkey Omer Taspinar, professore al National War College e direttore del progetto Turchia del Brookings Institution, definisce «turco-gollismo», ovvero un rinnovato senso di fiducia e di grandezza, a petto delle performance dell’ultimo decennio, che porta a una visione geopolitica diversa, nazionale e non più necessariamente filoamericana o filoeuropea. L’Africa e il Medio Oriente potrebbero insomma vedere la Turchia giocare la carta di potenza regionale. Da qui i buoni rapporti con la Siria e con l’Iran e un ruolo-guida di modello politico ed economico per i Paesi arabi. Ciò non vuol dire, di per sé, voltare le spalle all’Occidente, ma, più semplicemente, che l’Occidente non può più permettersi di trattare la Turchia come un interlocutore di serie B.
Per molti versi, quello cui stiamo assistendo è un paradossale rovesciamento di prospettive date per certe, perché è dalla caduta dell’Impero ottomano, all’indomani della Grande guerra, che la Turchia guardava a Ovest piuttosto che a Est.
Cominciò tutto con il già citato Kemal Atatürk, lo statista che portò via il velo dalla testa delle donne, abolì il fez da quella degli uomini, creò le premesse per l’eliminazione della sfera religiosa dall’interno di quella politica. Da allora e sino all’altro ieri, la situazione non era mutata, anche se era andata nel tempo aggrovigliandosi, rischio tipico per una nazione costretta comunque a camminare sul filo di un rasoio geografico, etnico e culturale, in precario equilibrio tra due mondi, Oriente e Occidente, con un piede per parte, ma con il cuore e il cervello in nessuno dei due, o forse, se non è ancora peggio, in ambedue allo stesso tempo.
Uno degli errori fatti è stato quello di non aver saputo prendere le misure a un Paese che ha un fortissimo orgoglio nazionale, di cui noi europei abbiamo perso lo stampo nel tempo, e un’identità religiosa marcata, ma non cieca, un sapiente impasto di tradizione e di interpretazione che la rende per certi versi più comprensibile ai nostri occhi secolarizzati, e tuttavia non meno temibile, perché al servizio di un’identità che si sublima nella propria unicità. Un’unicità che la rende estranea al mondo che geograficamente la circonda e tuttavia diversa da quello cui vorrebbe appartenere.

I turchi si considerano europei nella misura in cui non si ritengono arabi, noi europei li consideriamo arabi nella misura in cui li riteniamo musulmani, gli arabi li considerano un altro da sé, seducente e insieme pericoloso. La Turchia confina con due nazioni del Vecchio continente, la Grecia e la Bulgaria, ha settanta milioni di abitanti di cui la metà è sotto i trent’anni, è il maggior gruppo minoritario in Europa, oltre tre milioni di immigrati, metà della popolazione danese, tre quarti di quella irlandese. Fra Medio Oriente e Asia centrale sono quattro gli Stati con cui bordeggia e, eccezion fatta per l’Iran, per tutti rimanda a un passato di dominazione.
Una presenza inquietante, insomma, proprio per la sua unicità. La definizione migliore l’ha dato lo storico William Lewis quando ha parlato di «protestantesimo islamico», ovvero la variante musulmana di quello che fu, nella teorizzazione di Max Weber, l’abbinata capitalismo e calvinismo sul suolo europeo, la riforma come chiave di volta della modernità.
Discutibile o meno questa formula, il suo riprenderla sotto un’altra religione e in un altro contesto storico e politico, illumina la questione sul tappeto. Non è un processo nato ieri, non appartiene soltanto alla modernizzazione da elettrochoc che Atatürk somministrò al neonato Stato turco a partire dagli anni Venti. Come ha scritto Philip Mansel, l'autore di Costantinopoli, «le riforme di Atatürk si rivelarono efficaci perché si innestarono su un secolo di modernizzazione ottomana».

Fra la Turchia che è entrata nel Duemila sull'onda della liberalizzazione economica e della corruzione politica degli anni Ottanta e Novanta, e quella attuale, c’è la stessa differenza che si poteva cogliere fra la Spagna socialista all'indomani del franchismo e il successivo nuovo corso di Aznar: una nazione più matura, più consapevole delle proprie potenzialità, più fiduciosa nella propria classe dirigente, più smaniosa, per certi versi, di ritagliarsi il proprio posto di potenza che non di accontentarsi di un benessere economico limitato alla sfera strettamente individuale.
Il cambiamento sociale del Paese, l’entrata massiccia delle donne sui luoghi pubblici di lavoro ha, di fatto, scardinato un sistema ancestrale che vedeva nella differenziazione dei ruoli e nella separazione dei sessi il modo migliore per configurare la società. Questo ha però comportato un fenomeno di riadattamento e di autodifesa che si è concretizzato nel cercare di compensare gli elementi tradizionali identitari a petto delle nuove esigenze che una società in movimento porta con sé. È curioso come nella polemica sulle «radici» con cui una cospicua componente europea ha di fatto bloccato l’ingresso della Turchia, si accusi quest’ultima del peccato di religiosità, che agli occhi di chi lo stigmatizza è tuttavia una virtù. Si critica cioè ciò che a noi manca e che però si vorrebbe avere. Contemporaneamente, nel denunciare ogni intromissione religiosa nella sfera pubblica, nel vedere l’integralismo come il nemico principale, si vorrebbe una Comunità europea che tornasse a far valere la prima nei confronti della seconda, un di più di giudeo-cristianesimo come antidoto a una secolarizzazione che tuttavia si pretende totale dalla controparte.

I recenti scossoni mediorientali e sull’altra sponda del Mediterraneo ci obbligano ormai a considerare la Turchia come l’elemento cardine di ogni alleanza politico-economica che voglia vedere un’Europa non arroccata, ma desiderosa di giocare le proprie carte. Se fossimo lungimiranti dovremmo cercare di farla sedere comunque al nostro fianco, accettandola come eguale a noi. Pur sapendo che è diversa. «Biz bize benzeriz» rispose Atatürk a chi gli chiedeva dove classificare i Turchi: fra gli Europei o fra gli Asiatici? «Assomigliamo a noi stessi».