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Lou Reed: l’altra parte della vita

di Graziella Balestrieri - 03/05/2011

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“Quella primavera i genitori lo mandarono dallo psichiatra, a cui chiesero di porre rimedio alle tendenze omosessuali e agli allarmanti sbalzi di umore del figlio. Il dottore prescrisse una terapia molto popolare. Là lo avrebbero sottoposto, tre volte alla settimana per otto settimane, a un trattamento di elettroshock. In seguito avrebbe avuto bisogno di un periodo di terapia intensiva post-shock. I suoi genitori non volevano farlo soffrire spiegò un amico di famiglia. Volevano che stesse bene. Cercavano di fare i genitori, e volevano che si comportasse bene ”. (Lou Reed, il lato selvaggio del Rock).
La scelta del titolo è avvenuta prima che io leggessi quanto scritto sopra, che ne leggessi la biografia di Lewis Alan Reed nato il 2 marzo del 1942 al Beth El Hospital di Brooklyn, New York, lo shock musicale fatto persona. E tengo a precisarlo perché vuol dire che le cose sono chiare, che la musica è un’altra cosa, che non tutto è uguale, che omologarsi equivale a distruggersi, che diventare e sentire ciò che gli altri ci dicono o pensano sia per il nostro bene è come chiedere un lavaggio a 40 gradi, delicati a freddo, ti dicono sì e poi ti ritrovi a 90 gradi e con l’anima scolorita. E se Lou Reed dice che dopo non ricordava più nulla, che aveva in mente solo quella luce bianca prima di chiudere gli occhi e lasciarsi andare, di arrivare alla pagina 17 di un libro e poi dimenticarlo, il fato ha voluto che qualche giorno fa, dopo un week-end passato a mettere insieme frammenti di ricordi, un sogno mi ha aiutato a ritornare e poi a ritrovare l’altra parte della vita. Quello che la musica di Lou Reed e dei suoi Velvet Underground hanno sempre rappresentato: il momento in cui chiudi gli occhi e ti lasci andare dall’altra parte, sentirsi morire per poter continuare a vivere.
“Tipica domenica estiva, paesino sul mare famiglia al mare. Nove anni, una corrente di acqua calda che si incontra con una fredda, gelida. Che la ricordava così perché il gelo, la sensazione del sangue fermo ha sempre un profumo particolare nei ricordi. Stava affogando. Per la verità la gente non si accorse di nulla, fu un tempo così breve che la vide solo un uomo che si era voltato da quel lato giusto per guardare altrove, dove il mare aveva formato un piccolissimo vortice. Aveva solo il braccio fuori e pareva quasi di aver incorniciato una poesia vecchia di cui non ricordava il titolo che lesse ai tempi del Liceo “non stavo salutando, stavo affogando”. Gli sollevò la testa, tipo gallina e la gettò fuori da dove era entrata. E si sentì tirare il corpo, un peso, nonostante il tennis aveva fatto di lei più un palo che un sacco. In quell’istante visse lo stacco fra corpo e anima, o la sensazione fu quella. Ma fu più importante ciò che accadde nel momento in cui andò giù. Se chiudi la porta la notte potrebbe durare un’eternità lascia fuori la luce del sole e dì addio al mai. Lascia fuori un bicchiere di vino e fai un brindisi al mai. Perchè se chiudi la porta non sarò più costretta a rivedere il giorno”(Afterhours, The Velvet Underground,1968). Si lasciò andare ad occhi chiusi. Guardare in faccia la morte non lo trovava divertente ed allora accompagnava l’ultimo istante di vita racchiudendolo come si fa con una foto. I suoi occhi chiusi erano il click, la sua mente la scatola. Tutto sarebbe stato un ricordo ma di luce. Aveva ripensato a questo evento perché due sere fa le era capitato di sognare il mare bellissimo, quello che amava di un mare d’inverno. La bellezza del mare e la sensazione del calore che quella foto le dava andava a scontrarsi con l’inverno, il gelo. Così la notte il suo inconscio aveva preso a lavorare. Sognai il mare di fronte casa, era piccola anche nel sogno ma ad un certo punto si alzò di colpo, con la paura che non si sarebbe più risvegliata. La paura questa volta di abbandonare la luce, non riuscendo oramai negli anni più a lasciarsi andare. Il continuare a dormire sarebbe stato un incubo. Raccontava Lou Reed di attraversare corridoi, di andare a testa bassa e di perdere i sensi seduto su quel lettino, chiudendo gli occhi si lasciava andare a quell’unica luce che gli avrebbe potuto restituire la vita, di avere poi negli anni paura di addormentarsi. Lo so il paragone è forte ma la sensazione di morire e di non svegliarsi più è quella.
“Cosa succede qui nella tua mente? Penso di stare cadendo, mi sembra di stare a testa in giù. Vado su e vado giù volerò da una parte all’altra, vedo le campane su in cielo, qualcuno ha tagliato in due la corda. Un minuto, un minuto, due, sii brava e fa quel che devi. Lo sai, tutto andrà bene” (What goes on, The Velvet Underground,1968). Sentirsi morire. O come quando bevi troppo butti la testa indietro trovi un pavimento o un letto e ti getti a peso già morto, chiudi gli occhi e speri sempre che non faccia male. O come incontrare lo sguardo di qualcuno che non avresti mai pensato. Insomma quella sottile linea che ti fa capire se sei contento di vivere o che forse avresti voluto un’altra vita e aspetti il cambio di biglietto per la prossima. “Quando sei in un sogno e pensi di aver capito tutti i tuoi problemi tutte le tessere del puzzle sembrano agitarsi su e giù e quando poi cominci a cadere e quelle orme cominciano a svanire beh allora sai che stai andando giù, sì stai crollando del tutto e sai che stai andando giù per l’ultima volta. Quando sei sospeso in aria e stai pensando di lasciarti andare allora sai che stai andando giù per l’ultima volta. Il tempo non è ciò che sembra è solo che sembra più lungo quando sei solo al mondo” (Going down. Lou Reed, 1972). Così con il tempo ha sempre rincontrato chi le ha salvato la vita, lo conosceva benissimo. Una persona che incontra sempre, ma che non ha mai salutato. Non ha mai avuto il coraggio di dirgli grazie. Eppure durante queste vacanze stava in macchina e faceva una cosa che non si dovrebbe fare… teneva l’mp3 alle orecchie perché non ha ancora lo stereo. Era una di quelle bruttissime giornate in cui la sensazione di soffocare è talmente elevata che devi cercare respiro alle origine del soffocamento. Così “Sunday morning” nelle orecchie alla ricerca del mare la strada, su in alto sopra le colline dove la confusione tra cielo e mare si confonde con la percezione della rottura tra anima e corpo. Lungo la strada incrociare l’uomo che le salvò la vita e suonare il clacson, così d’istinto. Lui si è voltato ma non ha capito chi, cosa e perché lo avessero suonato. In fondo non gli aveva mai detto grazie perché si sarebbe dovuta aspettare un saluto? Da una vita che lo vede e fa così. Il tempo non ti aiuta mai.
Non avere il coraggio di dire grazie di fondo gli ha pensare ad un secondo episodio della sua vita. Tredici anni un Thomos nel garage enorme di casa, lasciato là dal vicino che non aveva spazio. Da un lato all’altro dalla fine delle mura spazi immensi, così salì sul motorino accelerare e schiantarsi al muro. “Domenica mattina, fa entrare l’alba presto è solo un’inquietudine al mio fianco, albeggia presto la mattina sono solo gli anni sprecati che incalzano. Attento il mondo è alle tue spalle intorno ci sarà sempre qualcuno che ti chiama non è niente. Domenica mattina e sto cadendo ho una sensazione che non voglio sapere. Albeggia presto domenica mattina sono tutte quelle strade che hai attraversato non molto tempo fa, intorno ci sarà sempre qualcuno che ti chiama: non è niente”. (Sunday Morning, Velvet Underground). Non si fece nulla, ma la sensazione fu la stessa. Sentirsi morire e poi chiudere gli occhi. Lasciarsi andare. Era stesa a terra ma non si era fatta niente. E poi perché schiantarsi al muro? Come diceva Lou Reed , la noia ti porta a fare cose che non oseresti mai dire, la noia ti spinge nel bene e nel male ad attraversare quella porta dove ti hanno sempre detto di non entrare. Rimase a terra quel giorno, qualche istante in più, il tempo di sentire il vicino gridare parole tendenti alla disperazione. Ma non era morta aveva chiuso un attimo gli occhi aveva voluto conservare il ricordo bellissimo della velocità prima dell’impatto, si ricordava di lei libera su un motorino che tutti avevano detto “non toccare”. Proibire era come sentirsi dire “noi abbiamo fatto, ma tu non devi”. E la sensazione prima che venisse raccolta da terra era la stessa di quando stava affogando. Sempre quella luce che ti tiene sospesa. Smise poi con gli anni di trovare alternative alla noia, se non poi trovarla nella musica, smise di sentire al di là di ciò che le viene dato, di prendere non prese più niente. Non si schianta più al massimo quando vuole farsi del male e ha il mal di stomaco ci fuma sopra. Lo stomaco come il cervello si è abituato. Lou Reed era un drogato. Brutale affermazione ma non esiste un aggettivo migliore. Dicono di lui che si facesse di tutto, lo dice anche lui, Heroin canzone splendida ne è testimonianza migliore: “Io ho preso una grande decisione proverò annullare la mia vita perché quando il sangue comincia a scorrere quando sale il collo della siringa quando mi sto avvicinando alla morte… eroina che tu sia la mia morte, eroina è mia moglie… ah perché un ago perché un ago nella mia vena porta al centro del mio cervello e sto meglio che fossi morto. Perchè quando la roba entra in circolo non me ne frega più niente”. (Heroin). Descriveva l’amore per il nulla, il senso di morte più della morte, la non volontà di riconoscersi in mezzo agli altri, dagli altri scappare e stare solo. Annullarsi. Ha avuto fortuna alla fine è vivo e vegeto, ma sarebbero stati solo fatti suoi in caso di morte. Anche se comprensibile, un ragazzino portato a morire solo perché omosessuale che cosa avrebbe potuto desiderare se i suoi sogni e la sua memoria, il suo essere erano stati cancellati dall’elettroshock?
 
Fu così che piuttosto che schiantarsi al muro per sconfiggere la noia iniziò ad ascoltare i Velvet Underground perché di notte vide uno speciale di quelli soliti, di quando qualcuno di famoso muore e gente che da vivo gli sputava sopra ora piangeva a distanza di anni e ne parlava con orgoglio davanti alle telecamere “Andy era mio amico, prendeva il caffè qui tutte le mattine, persona squisita” dicevano in questo filmato. Ma vi immaginate Andy Warhol il produttore dei Velvet Underground, scultore, pittore regista colui che ha dato vita alla rivoluzione Pop uno che affermava che “il problema con i classicisti è che quando guardano un albero non vedono altro e disegnano un albero” in mezzo a quel cumulo di bigotti tristi omofobi?
Si incuriosì da allora. Lou Reed divenne l’altra parte della vita. Si getta sempre sopra un letto, a peso morto ma stavolta la sua musica le dà la sensazione dell’acqua, della luce e per quanto paradossale della purezza. La purezza che canta come ninna nanna a mio nipote, piccolo nemmeno un anno. Che ha della vita la dolcezza imperfetta, che se gli canta “Sunday Morning” ride e balla nella sua culla, guarda la zia che quando finisce lo guarda negli occhietti e gli dice in maniera stridula: Suuuuuuuuuuundaaaaaaaaay Mooooorning. Poi si avvicina e le dà un bacetto, e lui con la tenerezza di chi vuol conservare un ricordo chiude gli occhi e le si avvicina. Quel momento in cui chiude gli occhi e la bacia e poi li riapre di scatto è l’altra parte della vita, è la sensazione che la musica di Lou Reed riesce a dare. “Insegnate ai bambini dei modi degli uomini e degli animali, insegnate loro delle città, insegnate loro ad avere pietà. Insegnate loro i tramonti, insegnate loro come nasce la luna, insegnate loro la rabbia, il peccato che viene con l’alba. Insegnate loro i fiori e la bellezza dell’oblio. Benediteli e perdonateli, perché non sanno. La storia dei misteri i vizi e le virtù dei rami che si muovono nel vento, del prezzo dei loro peccati. Insegnate loro il perdono, insegnate loro la musica”. (Teach the giften children, Growing up in public).
“Che spreco di tempo se di tempo. Se ti proibiscono l’amore, allora passi la maggior parte del tempo a trastullarti con l’odio. Ma perché proibire l’amore”? (Lou Reed).
Sentirsi morire.
Dall’altra parte della strada aveva attraversato tempi e parole pur di vederla e si sarebbe voltato nel momento in cui lei avrebbe abbassato lo sguardo. “Il satellite dell’amore è salito su in cielo, queste cose mi fanno impazzire, l’ho guardato per un po’” (Satellite of love).
“Da est a ovest la gente, da Nord e Sud loro due. E lei non ebbe il tempo di chiudere gli occhi, non ebbe il tempo di sentirsi morire e rinascere che si era accorta che lui già era lontano, e più si avvicinava più tutte le parole di prima se ne andavano. Ad un sorriso e ad un gesto di lui poco alla volta si sarebbe sentita morire. Fu così che senza saluto se ne andò nel momento in cui lui girò le spalle davanti al volto di lei gelido, in fondo il saluto era come quando si erano visti per la prima volta: da perfetti sconosciuti. Della fine non conservarono nulla, non ci fu il chiudere gli occhi e il lasciarsi andare, sensazione che lei capì dal silenzio di lui. L’altra parte della vita non li avrebbe sfiorati, troppo poco inclini entrambi ad andare oltre, la noia oramai fatta abitudine aveva preso il sopravvento. Tornò a casa ed immaginando un passaggio di vita migliore, o un solo momento, provò a desiderare una giornata perfetta insieme a lui. Stesa sul letto con gli occhi chiusi si concentrò e trasformò la sua freddezza in un abile sole. Appena partì la musica lo avrebbe abbracciato, così. Non c’era niente da proibire e niente da vietare “Proprio una giornata perfetta, bere sangria e poi più tardi, quando fa buio, tornare a casa. Oh è una giornata perfetta sono contento di averla trascorsa con te, mi fai venire voglia di restare con te. Proprio una giornata perfetta mi hai fatto dimenticare me stesso ho pensato di essere una persona migliore. Raccoglierai ciò che hai seminato, raccoglierai ciò che hai seminato. Proprio una giornata perfetta”. (Perfect day, Transformer). Per poi svegliarsi e avere almeno un ricordo.
Si vive sempre di ricordi. Il ricordo migliore è la luce imparando a non avere paura del buio. Mai.
N d r: Se volete sapere la discografia di Lou Reed o leggere di interviste andate su Wikipedia o Google, io non tratto musicisti, non li conosco. Conosco solo la loro musica.