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Qualche riflessione senza ipocrisie a proposito della «donna oggetto»

di Francesco Lamendola - 04/05/2011





La cultura femminista e post-femminista ci ha lasciato in eredità l’idea che la riduzione della donna a oggetto sia una bieca manovra maschilista, nata nel cervello malato di alcuni uomini stupidi e immaturi, spiritualmente evoluti quanto possono esserlo dei perfetti cavernicoli.
Dal momento che, negli anni Sessanta e Settanta, la parola di quelle signore era legge per tutti gli intellettuali progressisti, vale a dire per qualunque intellettuale degno di questo nome (chi non era di comprovata fede progressista non meritava altro che disprezzo, in quanto fascista e reazionario), nessuno ha mai osato mettere in discussione un tale punto di vista, assurto immediatamente alla dignità di dogma incontrovertibile.
Naturalmente, si trattava di una sciocchezza. La riduzione della donna a oggetto è sempre stata indice di una mentalità arrogante e fondamentalmente insicura da parte di certi maschi (il maschio normale non sente affatto un simile bisogno, anzi cerca un rapporto paritario con la donna), molto prima che le femministe si svegliassero, un mattino, per proclamare dai tetti la scoperta dell’acqua calda; tuttavia, la vera assurdità di quella operazione non risiedeva tanto nelle cose che venivano proclamate, ma nella prospettiva da cui si partiva.
Il punto, infatti, non è se trattare la donna come un oggetto sia moralmente e socialmente accettabile, o meno, da parte degli uomini; il punto è capire se sia proprio vero che le donne, in quanto tali, detestano di recitare un simile ruolo; e, secondariamente, quale parte svolgano, in tutto questo, i meccanismi e le logiche della mercificazione consumista.
Per quanto riguarda il primo aspetto, siamo spiacenti di dare una fiera smentita alla teoria che vorrebbe le donne profondamente indignate di vedersi relegate nel ruolo di oggetti di piacere a disposizione dell’uomo o, quanto meno, del suo immaginario erotico; sosteniamo anzi, apertamente, che moltissime donne si riconoscono pienamente in tale ruolo, lo desiderano e se ne sentono profondamente appagate.
Nn solo: disprezzano in cuor loro gli uomini che non si rapportano a loro secondo uno schema di quel tipo e ne sono profondamente deluse, per non dire ferite e umiliate.
Ecco, questo è il fatto: nella natura femminile vi è un bisogno di esibirsi, di essere ammirata, di concentrare su di sé l’attenzione altrui, non per le doti interiori, ma per gli attributi fisici; di suscitare il desiderio erotico del maschio e l’invidia impotente delle altre donne, ossia delle potenziali rivali, madri, figlie e sorelle in prima fila, e poi tutte le altre.
È ben certo che  non tutte le donne rientrano in questa generalizzazione: quelle del tipo superiore non vi rientrano affatto; ma si tratta di casi decisamente rari: è pur vero che questi pochi casi possiedono una forza intrinseca così formidabile, da riscattare pienamente la superficialità di tutte le donne meno evolute e da rendere ammirevole e invidiabile l’intero sesso femminile per il solo fatto della loro esistenza; un po’ come l’esistenza di un Bach, di un Van Gogh, di un Dante, riscattano e rendono ammirevole l’universo dell’arte, a dispetto degli innumerevoli musicisti, pittori e poeti di scarso o nullo talento che imperversano fastidiosamente, sull’onda delle mode passeggere.
Le donne del tipo superiore non hanno alcun bisogno di mostrarsi, perché sanno di essere; non si curano di apparire, perché sono appagate dai mille interessi cui si dedicano e specialmente dal più importante di tutti, la ricerca della propria verità interiore e la costruzione del proprio Sé, fuori da ogni schema precostituito, da ogni moda e da ogni conformismo.
Si tratta di donne eccezionali, che sovente passano quasi inosservate perché il tipo maschile medio, ottuso e banalmente attratto dall’esteriorità, non è abbastanza evoluto da notarle, anzi, neppure da vederle, se pure ci andasse a sbattere contro.
Al di sotto del tipo femminile superiore, c’è il tipo medio: abbastanza maturo da non basarsi esclusivamente sulle forme dell’apparire, ma non abbastanza da saperne fare a meno; abbastanza consapevole da avere elaborato un minimo di autostima, ma non a sufficienza per non dipendere ancora, in misura maggiore o minore, dall’approvazione altrui.
Questo tipo di donne desiderano essere notate e apprezzate per ciò che sono, piuttosto che per i loro attribuiti fisici; però non sono abbastanza autonome da poter fare del tutto a meno di un tributo alla loro bellezza esteriore o da rinunciare a numerosi stratagemmi per valorizzare, con più o meno buon gusto, la propria figura e la propria immagine; né abbastanza dotate di autostima da poter sopportare il fatto di non essere oggetto di desiderio erotico fin dal primo impatto con l’altro sesso, poiché anch’esse, in fondo, valutano se stesse in base all’indice di gradimento altrui.
Sovente questo tipo di donna è attratto dagli uomini sensibili, intelligenti e soprattutto profondi: sono incantate dai loro silenzi densi di mistero, dalle loro brevi parole cariche di ponderazione, dai loro sguardi intensi e più eloquenti di mille discorsi; però si stancano abbastanza presto di una attenzione prevalentemente spirituale e finiscono per chiedersi cosa c’è che non va in loro, o negli uomini su cui hanno fatto colpo, dal momento che questi ultimi si limitano ad ammirare le loro qualità spirituali e non anche i loro attributi fisici.
Queste sono le donne più ingannevoli: hanno qualcosa delle intellettuali o, almeno, delle persone profonde, ma solo qualcosa, e precisamente la superficie: basta grattare un poco sotto la vernice ed emerge la piatta banalità della femmina che vuol essere ammirata e desiderata per la sua sensualità, per le sue curve, per la sua parte animale; in breve: sono le donne che provocano grossi equivoci nei rapporti con l’uomo, perché sembra che desiderio un rapporto basato sulla stima e sul rispetto, mentre, in ultima analisi, muoiono dalla voglia di essere avvicinate con desiderio veemente, con trasporto quasi selvaggio: vanno in estasi fra le braccia dell’uomo che, superata la fase dei convenevoli, sfoderi la delicatezza di un Tarzan o di un King Kong.
Il terzo e ultimo tipo femminile è quello di genere inferiore (sappiamo che il democraticismo a un tanto il chilo, oggi di moda, non sopporta espressioni come “superiore” ed “inferiore”, ma la vita, nella sua concretezza, non sa che farsene di queste fisime da intellettualini pseudo-progressisti e ignora, puramente e semplicemente, i loro nobili teoremi egualitari), ossia quello pienamente sprofondato nei livelli più inadeguati della consapevolezza.
Queste donne hanno pochissima autostima, anche se, talvolta, sembra che ne abbiano molta, ma quest’ultima è solo apparenza: in realtà vogliono far colpo, sempre e comunque, su qualsiasi individuo di sesso maschile (e magari anche femminile), dai dieci ai cento anni, non per concedersi - questo lo decideranno a loro discrezione - ma soltanto per vedere, nel desiderio altrui, la conferma del proprio valore erotico come merce di lusso.
Nessuna occasione sembra loro inopportuna per mettersi in mostra, con mille strategie, ora estremamente rozze, ora relativamente sofisticate, in modo da richiamare l‘attenzione altrui; e se, per caso, s’imbattono in qualcuno che non le degna del proprio interesse, subito s’impuntano e giurano a se stesse di farlo cadere ai loro piedi, costi quel che costi, come fa Mirandolina nella «Locandiera» di Goldoni: così, al solo scopo di assaporare il gusto del proprio potere.
Comunque, bisogna pur dire che le donne di questo tipo “inferiore” sono, in un certo senso, più apprezzabili della maggior parte di quelle del tipo “medio”, perché non pretendono di essere altro da quello che sono e non creano situazioni di ambiguità, in quanto lasciano apparire chiaramente i termini in cui desiderano essere apprezzate e ciò che si aspettano di ricevere dall’uomo.
Riassumendo: è verissimo che ridurre la donna a semplice oggetto del desiderio sessuale maschile è degradante e meschino, perché le toglie la connotazione di persona e la retrocede al livello di una cosa; ma bisognerebbe avere la franchezza di ammettere che questo è precisamente ciò che vogliono, consciamente o inconsciamente, nove donne su dieci e che sono esse le prime a non desiderare che il rapporto con l’uomo si imposti su una base differente.
Perciò, quando tante donne e tanti uomini, specialmente dell’ambiente intellettuale (o sedicente tale) blaterano a proposito dell’indegnità cui è sottoposta la donna, allorché viene degradata al livello di merce sessuale, farebbero bene a riflettere che il loro zelo moralistico è viziato da una ipocrisia di fondo: quella di non voler vedere la donna come essa effettivamente è, ma come essi vorrebbero che fosse, in base alla loro ideologia democratica e progressista.
Inoltre, essi sbagliano, e di molto, quando puntano il dito contro l’uomo, come responsabile della riduzione a cosa della donna e specialmente del suo corpo; perché, nell’epoca della tecnica e della società di massa, tanto gli uomini che le donne sono sottoposti a dei meccanismi di alienazione che sfuggono alle logiche individuali e che investono tutti gli aspetti della vita economica, sociale, politica e culturale.
E ciò non vale solo nel rapporto fra uomo e donna, ma, più in generale, in qualunque rapporto umano (e anche fra umani e non umani, ad esempio fra uomo e animale domestico): le logiche della manipolazione consumista sono così sottili e pervasive, così onnipresenti, che rimane ben poco spazio per la vera autenticità nei rapporti interpersonali, a meno che si tratti di individui - indipendentemente dal genere sessuale - che abbiano già sviluppato, andando controcorrente, un buon livello di consapevolezza spirituale e di indipendenza di giudizio.
Invero, c’è un forte grado di ipocrisia in quegli animalisti che lamentano l’abbandono dei cani sulle autostrade, all’avvicinarsi delle vacanze estive, da parte dei loro padroni umani, ma non si interessano minimamente delle ragioni per cui un essere umano decide di prendersi un animale in casa, magari per farne un oggetto di piacere (ivi compreso il piacere sessuale), come se ciò fosse cosa di nessuna rilevanza per la significatività del rapporto.
E la stessa ipocrisia si può notare da parte degli zelanti moralisti che levano alte strida e si stracciano le vesti davanti al fenomeno della pedofilia, ma non trovano affatto strano che ci siano dei genitori, e specialmente delle mamme, che, per pura vanità e per irresponsabile ambizione, spingono i figli e le figliolette a esibirsi su cataloghi di moda, magari in abbigliamento estremamente ridotto e in pose decisamente provocanti, senza curarsi degli appetiti sessuali che, in tal modo, vengono deliberatamente stimolati nel pubblico adulto, specie maschile.
Quanto, poi, alle accese femministe e ai loro sostenitori maschi, che urlano di sdegno davanti alle mutilazioni genitali femminili praticate presso alcune società musulmane del Nord Africa e del Medio Oriente, anch’essi sarebbero più credibili e, francamente, meno ridicoli, se avessero la bontà di ricordarsi che nessun paradigma cultuale ha il “diritto” di giudicarne un altro e che, dall’esterno, non esistono criteri per decidere cosa sia “giusto” o “sbagliato” negli usi di culture differenti dalla propria: in culture, per esempio, che non hanno conosciuto né Locke e l’idea dei diritti naturali dell’individuo, né Rousseau e il concetto della sovranità popolare, né, tanto meno, il femminismo e la sua convinzione che tutte le differenza di genere siano il risultato di un bieco disegno di dominio maschilista, portato avanti per secoli e millenni.
(Un altro discorso va fatto allorché una mamma somala, ad esempio, porta sua figlia in ospedale per problemi alle vie urinarie e il medico italiano, o francese, o tedesco, scoprano che la bambina è stata infibulata e che tale dovrà restare fino alla data del matrimonio, a discrezione del futuro marito: questa è una faccenda che riguarda la NOSTRA cultura e le NOSTRE leggi e, pertanto, abbiamo tutto il diritto di intervenire nel senso che esse ci indicano, senza possibili ambiguità.)
Perciò, signore femministe e signori e signorini che recitate il ruolo dei loro cavalier serventi, risparmiateci la commedia della vostra indignazione, del vostro perbenismo, del vostro progressismo bene intenzionato: perché si dice che l’Inferno sia lastricato di buone intenzioni e voi certo ne avete molte, per non dire un po’ troppe.
In fondo, il vizio della cultura femminista è il medesimo di tutte le culture rivoluzionarie, nel senso tradizionale del termine: quello di voler migliorare il mondo portando la ricetta della felicità agli altri, ma senza essere capaci di alcun cambiamento nella sfera personale, anzi, perfino ignorando il proprio Sé e la propria verità più profonda.
La ricerca della felicità è una cosa troppo seria perché possano farsene carico i rivoluzionari, le femministe o, Dio ce ne scampi e liberi, gli psichiatri: è il compito personale di ognuno di noi.