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È giusto esultare per la morte di un uomo?

di Francesco Lamendola - 05/05/2011





La notizia della morte di Osama Bin Laden ha scatenato reazioni scomposte di esultanza e di giubilo, le quali, se possono essere umanamente comprensibili fra i parenti delle vittime del terrorismo di Al Qaida, lo sono molto meno da parte di uomini politici, giornalisti e intellettuali.
Non staremo a fare del facile moralismo o a ricordare che se, come dice il poeta John Donne, nessun uomo è un’sola, allora non devi chiedere per chi suona la campana a morto, perché essa suona per ciascuno di noi; e non lo faremo perché ci rendiamo ben conto che la questione non è solo morale, ma riveste anche una fortissima valenza politica.
Esaminiamo brevemente i fatti e gli antefatti.
Gli antefatti sono stati chirurgicamente selezionati dai mass media occidentali per avvalorare l’idea di un Grande Nemico, di un Vecchio della Montagna al quale si devono più o meno tutti gli attacchi terroristici di matrice islamica fondamentalista negli ultimi dodici o tredici anni; e, parallelamente per far dimenticare il fatto incontrovertibile che quello stesso personaggio era stato finanziato per anni dai servizi segreti statunitensi in funzione antisovietica, al tempo della fallimentare invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa.
Allora Bin Laden non era un terrorista, anzi, il Principe del terrore, ma un patriota musulmano che lottava contro il comunismo e meritava sostegno strategico e finanziario; solo più tardi, e specialmente dopo l’11 settembre del 2001, egli è assurto a simbolo di quanto vi è di malvagio, di demoniaco, in quella parte di umanità che non si assoggetta alla Pax americana e che ricusa protervamente i benefici e le delizie dell’Occidente moderno; e ciò nonostante che un americano su tre non creda tuttora alla versione ufficiale sui fatti di quella giornata.
Non addentriamoci sulla impossibilità che le Twin Towers siano crollate a quel modo, ripiegandosi su se stesse, per l’urto di due aerei dirottati e lanciati contro di esse; né sull’oscuro episodio degli “israeliani danzanti”, arrestati poco dopo l‘attentato e poi subito, misteriosamente, rilasciati e rimpatriati; e nemmeno sul fatto che il presidente Bush junior abbia lamentato l’attacco terroristico qualche minuto prima che si verificasse: sono tutte questioni specifiche, sulle quali esiste, comunque, una discreta letteratura, per chi voglia prendersi la briga di leggerla e non si accontenti delle versioni addomesticate fornite dal governo statunitense.
I fatti sono che un commando di marines americani, agendo sul territorio di un Paese amico, il Pakistan, che non era stato minimamente informato dell’operazione e,     quindi, violandone la sovranità in modo plateale, hanno assassinato Bin Laden davanti agli occhi della moglie e della figlia dodicenne, non nel corso di uno scontro a fuoco, come - mentendo - era stato detto in un primo momento, ma a freddo, sparando su un uomo disarmato, sorpreso all’interno della sua casa con la famiglia e due sole guardie del corpo.
Nemmeno di questo ci scandalizziamo più di tanto: da Machiavelli in poi, siamo abituati a pensare che, in politica, il fine giustifica i mezzi e che il principe deve saper entrare anche nel male (senza però, secondo il segretario fiorentino, avere la sfrontatezza di chiamarlo bene), quando le circostanze lo richiedano, ossia quando lo richiedano le superiori esigenze dello Stato e della sicurezza collettiva.
Del resto, gli Americani hanno una lunga tradizione in quel particolare genere di operazione militare che consiste nella eliminazione fisica di un avversario considerato particolarmente pericoloso: dall’ammiraglio giapponese Yamamoto, abbattuto nei cieli del Pacifico durante la seconda guerra mondiale, in quello che fu un vero e proprio agguato, fino al primo tentativo di far fuori Gheddafi con il bombardamento di Tripoli del 1986 (quando comunque venne uccisa una sua figlia adottiva), reiterato, in questi giorni, dai volonterosi alleati europei della N.A.T.O.
Non ci scandalizziamo di uno o dell’altro di codesti aspetti, considerati singolarmente o anche nel loro insieme, perché sarebbe ipocrita far finta che la politica internazionale, specialmente delle grandi potenze, non sia fatta anche di queste cose, a dispetto di quello che credono e di quello che dicono, in buona o in mala fede, certe anime belle.
Il “punctum dolens” è un altro e cioè la contraddizione, morale e politica, che una operazione del genere porta inevitabilmente con sé, da parte di una potenza imperiale, l’unica oggi di dimensioni mondiali, la quale sostiene di incarnare non solo il Liberalismo e la Democrazia, ma addirittura il Bene nella sua eterna lotta contro il Male; e che, inoltre, si basa sul principio della assoluta libertà d’informazione, di parola e d’opinione, ma non osa mostrare ai suoi concittadini le fotografie del cadavere dell’Arcinemico, ben sapendo l‘effetto boomerang che esse provocherebbero.
Ingenuo sarebbe chiedersi perché Bin Laden non sia stato catturato e trasportato negli Stati Uniti, per subire un processo pubblico e una condanna esemplare, ma si sia preferito assassinarlo, mentre era disarmato, sparandogli alla testa: troppo alta era la probabilità che un simile processo avrebbe ulteriormente eccitato gli animi dei fondamentalisti islamici ed esposto perciò gli Stati Uniti alla rappresaglia terroristica.
Comprensibile, quindi, che si sia preferito ucciderlo e gettarne il corpo in mare, affinché la sua sepoltura non divenisse meta di pellegrinaggi che avrebbero contribuito alla sua glorificazione “post mortem”: comprensibile, anche se non bello.
Senza contare che Obama non aveva alcuna intenzione di giocarsi la riconquistata popolarità che proprio l’eliminazione di Bin Laden gli aveva così insperatamente restituito, per uno scherzo del destino, visto che l’operazione avrebbe potuto benissimo verificarsi prima o dopo la sua contestata presidenza.
Ciò detto, bisogna pur aggiungere che lo spettacolo di esultanza e di tripudio cui si è assistito, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa (passando per alcuni dei nostri ineffabili ministri del governo Berulsconi, immancabili mosche cocchiere della discutibile operazione americana in Pakistan), ha qualcosa di veramente repellente, di profondamente inumano.
Abituati, dal cinema di marca hollywoodiana, a considerare giusto e normale che il cattivo venga immancabilmente ucciso, ci siamo moralmente imbarbariti: un Innominato che si converte e cambia vita; un Renzo che perdona a don Rodrigo, mentre questi giace moribondo al Lazzaretto, ci sembrano esempi anacronistici, puerili, melensi e bigotti, degni di quel bacchettone di Alessandro Manzoni; noi preferiamo la pistola giustiziera di John Wayne.
La nostra non è più l’Europa di Cesare Beccaria, è diventata l’Europa di Rambo, di Indiana Jones e dell’Agente 007, beninteso con licenza di uccidere.
A forza di invocare una Europa laica, una Europa irreligiosa che rinneghi le proprie radici cristiane, stiamo infine raccogliendo i frutti di ciò che i nostri intellettuali, debitamente progressisti e filoamericani, hanno volonterosamente seminato, per anni e decenni: la barbarie.
Siamo diventati dei barbari, come i barbari che diciamo di voler combattere; siamo regrediti al livello degli antichi Romani, che si beavano - uomini e donne, vecchi e fanciulli - degli spettacoli del Circo, dove i nemici dell’Impero venivano costretti ad ammazzarsi tra loro oppure venivano impalati, crocifissi, sottoposti alla ruota, gettati nell’olio bollente o esposti alle bestie feroci, per essere divorati vivi.
Non c’è nulla di bello, nulla di grande, nulla di scusabile in questo sorridere e brindare, in questo fare il tifo per la morte, sia pure per la morte di un nemico pubblico estremamente pericoloso; non c’è nulla che ci renda moralmente diversi da lui.
Inoltre, non c’è l’ombra di una riflessione politica, di una autocritica per gli errori dell’Occidente, per l’arroganza degli Stati Uniti; per le guerre del 2001 contro l’Afghanistan e del 2003 contro l’Iraq di Saddam Hussein - quest’ultimo, come è definitivamente provato, a differenza dei Talebani, mai stato amico di Al Qaida e, anzi, deciso avversario di essa.
Nessun “mea culpa” per quei milioni di morti - perché di milioni si tratta, anche se i media occidentali non ne parlano -; e, inoltre, nessun “mea culpa” per il male irreparabile che è stato fatto alle antichissime comunità cristiane del Nord Africa e del Medio Oriente, le quali, dopo secoli e secoli di convivenza pacifica con l’Islam, si trovano ora esposte al pericolo di un vero e proprio genocidio, dall’Egitto all’Iraq, dal Pakistan all’Indonesia.
Qualcosa si è già visto ad Alessandria d’Egitto, con la strage dei copti avvenuta il giorno di Capodanno; ma da anni, dal 2003, i cristiani dell’Iraq sono esposti ad attentati simili: da oggi, possiamo bene immaginare cosa succederà in Pakistan.
E anche queste sono conseguenze delle scellerate guerre volute, testardamente e pretestuosamente cercate e perseguite, con fredda e cinica determinazione, dalla presidenza di Bush Junior, in omaggio alla politica dissennatamente filo-israeliana perseguita dallo staff neoconservatore di “Big” Cheney, Paul Wolfowitz e di Condoleezza Rice, essenzialmente per compiacere la potentissima lobby ebraica di New York.
C’è un terribile vuoto culturale, spirituale, intellettuale, nell’Europa odierna; e non parliamo, per carità di Patria, di come si è mossa l’Italia in questa congiuntura internazionale, compresa la crisi libica: «nave sanza nocchiero in gran tempesta, non donna di province, ma bordello», come diceva già il gran padre Dante, qualcosa come sette secoli or sono.
Sarebbe tempo che gli Europei tornassero ad essere quel che sono stati in passato: che riscoprissero le ragioni della propria civiltà, senza disprezzo per le altre, ma anche senza complessi di inferiorità, specialmente verso il troppo potente “alleato” americano.
Bin Laden non è stato un grand’uomo.
È stato un criminale e un predicatore di odio: questo è certo e nessun sofisma, nessun ragionamento arzigogolato, potrebbero cambiare un tale dato di fatto.
Sta a noi, ora, non contribuire a farlo diventare un mito per milioni di esseri umani: alla nostra moderazione, alla nostra saggezza, alla nostra lungimiranza.
Non è nei cromosomi della nostra cultura abbandonarsi all’esultanza per la morte di un essere umano, fosse pure il peggiore degli uomini; non è nel nostro stile gioire perché un nemico è stato assassinato.
Se ciò avviene, allora vuol dire che quel male che stiamo combattendo, è penetrato a fondo dentro di noi; perché, come osservava giustamente Nietzsche, non si può guardare a lungo nell’abisso, senza che l’abisso guardi dentro di noi.
Questo, sul piano morale.
Sul piano politico, staremo a veder quale nuovo Arcinemico si inventeranno adesso gli Stati Uniti, dal momento che un potere imperiale, specialmente quando si sente minacciato, non può fare a meno di crearsi una immagine del Male che serva da spauracchio per tacitare l’opposizione interna e da bandiera per animare le proprie truppe.
Se Bin Laden non ci fosse stato, Bush junior avrebbe avuto bisogno d’inventarselo: perché la mobilitazione permanente contro il terrorismo non è che il programma di una guerra senza fine contro un nemico purchessia, finché anche l’ultimo angolo del mondo non sarà stato aperto alle meraviglie del libero mercato e della democrazia.
Il bello è che non sappiamo nemmeno se sia mai esistito, Bin Laden; nel senso che non sappiamo se egli era, fisicamente e politica mentente, quello che ci è stato presentato, a partire dal 2001, dalla Vulgata liberaldemocratica.
Forse era solo un ologramma, un programma computerizzato, una serie di sosia chirurgicamente fabbricati allo scopo; forse, dopo il primo, ne salteranno fuori un secondo, un terzo, un quarto, come dal cappello di un prestigiatore.
C’è qualcosa di abnorme, di patologico, nell’immagine di una superpotenza mondiale che lotta contro un uomo solo; qualcosa da cattivo film d’azione, da film hollywoodiano di quart’ordine, tutto sangue, violenza e teste di cuoio.
Qualcosa di fasullo.
Comunque la si voglia mettere, c’è qualcosa, in tutta questa vicenda, che non torna; c’è qualcosa che non convince.
Paranoie complottiste, farneticazioni antiamericane?
Forse; chissà.
Ma, nell’era di Matrix, in cui stiamo vivendo, abbiamo il dovere di vagliare con attenzione ogni indizio, ogni possibilità, ogni sospetto di essere strumentalizzati, come tanti utili idioti.