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La luce del nero

di Stefano Montefiori - 05/05/2011

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La prima opera della grande esposizione «Manet, inventeur du Moderne» non appartiene al protagonista. Appena entrati nella mostra del museo d’Orsay, si viene accolti dall’ «Omaggio a Delacroix» che Henri Fantin-Latour presentò al Salone di pittura e scultura del 1864: due gruppi di pittori, tra i quali Édouard Manet, posano attorno all’autoritratto di Delacroix. Manet, il pittore realista della vita moderna parigina, accostato al maestro del romanticismo letterario. Una sfida, una sorta di dichiarazione di intenti che si dipana nel percorso successivo: mostrare l’artista nella sua complessità, nella sua capacità di coniugare realismo e romanticismo, attraverso nove sezioni che strappano Manet al riduttivo cliché di padre dell’impressionismo. «Manet è stato il più grande di noi, era in grado di fare la luce del nero» , disse Camille Pissarro a proposito del singolare interesse di Manet per il nero, che ancora una volta lo distanziò dall’ostracismo della tradizione verso il non colore. Il suo amico Claude Monet, per esempio, lo odiava tanto che il giorno del suoi funerali, agli inservienti che stavano per poggiare un panno nero sulla bara, il ministro Clemenceau gridò «No! No, niente nero per Monet» . Manet, invece, non aveva paura di estrarre la luminosità anche dalle tenebre. Nato a Parigi nel 1832 dal giudice Auguste Manet, Édouard venne indirizzato dal padre alla carriera di alto funzionario: invece di frequentare l’École des Beaux Arts, il giovane Manet fu costretto a imbarcarsi per un anno e a tentare poi l’ingresso all’École Navale. Per sua fortuna venne respinto e gli venne finalmente concessa la possibilità di seguire la sua indole entrando nello studio di Thomas Couture, uno dei grandi pittori dell’epoca. I suoi primi biografi, come Zola, hanno a lungo preferito sorvolare sugli esordi «conformisti» di Manet, suggerendo che nulla gli sarebbe rimasto dei sei anni trascorsi con Couture, accusato di essere uno dei troppi pompiers (pittori ufficiali) dell’epoca. Invece Manet ricavò da Couture un certo gusto per ritratti e studi meno accademici, rivelando subito la capacità di non lasciarsi ingabbiare in uno schema e di moltiplicare le fonti della sua ispirazione. Ecco poi la parte della mostra dedicata alla grande amicizia tra Édouard Manet e Charles Baudelaire, che però coniò la formula di «pittore della vita moderna» — che tanto sarebbe piaciuta a Manet — per l’illustratore Constantin Guys. Entra in scena Victorine Meurent, la modella preferita di Manet, a cominciare dalla «Chanteuse de rue» fino alle due opere più celebri di Manet, «Le déjeuner sur l’herbe» e «Olympia» , dove il pittore crea scandalo accostando echi e tecniche della pittura classica a un realismo quasi fotografico e soprattutto a soggetti giudicati osceni. Nella colazione sull’erba, concepita dopo avere ammirato il «Concerto campestre» di Tiziano al Louvre, Victorine è nuda accanto a due giovani vestiti con abiti contemporanei ed eleganti, Gustave Manet (fratello del pittore) e l’amico scultore olandese Ferdinand Leenhoff; sullo sfondo, un’altra donna nuda (a posare fu sempre Victorine) si bagna nel fiume. «Un soggetto scabroso dipinto con riferimenti a Raffaello e Tiziano — spiega il curatore della mostra Stéphane Guégan —. Manet voleva portare il mondo moderno all’interno della grande tradizione. Per i critici, un tentativo insopportabile» . Rifiutato dal Salone ufficiale, «Le déjeuner sur l’herbe» venne esposto al «Salon des réfusés» , voluto nel 1863 da Napoleone III per dare spazio ad almeno alcune tra le 3000 opere respinte dall’Accademia delle belle arti. Ma anche qui il dipinto, poi giudicato uno dei maggiori capolavori dell’Ottocento, venne accusato di perversione per la presenza delle due figure femminili nude accanto agli uomini vestiti e di pessima fattura tecnica: non venne perdonato a Manet un uso, appunto, moderno, spregiudicato, della prospettiva. Due anni dopo, si replica con «Olympia» : dopo la Venere di Urbino di Tiziano o la Maya Desnuda di Goya, ecco Victorine Meurent ritratta nuda, il volto tra l’inespressivo e lo sfacciato e ai piedi del letto un allegorico gatto nero con la coda rialzata. Olympia era a quei tempi un classico nome da prostituta, e l’ambientazione ricorda le cartoline licenziose che circolavano sottobanco nei salotti parigini. Anche nella pittura religiosa, alla quale il museo d’Orsay dedica una sezione corposa, Manet sfida le convenzioni, dipingendo il Cristo più per eclettismo e volontà di variare i temi che per reale sentimento metafisico. Ultimo dei classici o primo dei moder- ni? Ambiguo, sempre. Protagonista assieme a Sisley e Pissarro del Salone dei rifiutati, nel maggio del 1874 Manet rifiutò però di partecipare alla prima esposizione degli «impressionisti» , dei quali pure era considerato il capofila. Critiche anche da questa parte, quindi, con Edgar Degas che arrivò a trattarlo da «disertore» . Ma anche in questa voglia di libertà, di indipendenza da correnti e movimenti collettivi, sta la modernità di Édouard Manet.