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Il verde e il nero

di Mario Grossi - 10/05/2011


Qui giace Orco Bisorco
Che morì da cinghiale
Per non diventar porco

Mino Maccari

Mi ero già imbattuto in Ivan Buttignon nel recente passato per aver letto un suo saggio, Compagno Duce, in cui sondava e raccontava quel coacervo d’idee, personaggi, pulsioni, umori, scontri che presero corpo in quel pentolone ribollente che è stato il cosiddetto Fascismo di sinistra. E di Buttignon avevo apprezzato assai una freschezza di scrittura e una visione narrativa bilanciata da un solido impianto documentale che rendeva quel saggio divertente e scorrevole ma mai superficiale o fantasioso. Piedi per terra e testa in cielo mi verrebbe da dire per sottolineare quel difficile equilibrio che quasi mai i saggi di Storia possiedono. Equilibrio necessario per il lettore non specialista, quale io sono, che non sopporta gli intralci dell’eccesso accademico ma che è abbastanza smagato per capire quando gliela stanno cantando.

Ora questa piccola magia si ripete con un nuovo libro che Ivan Buttignon, a testimonianza che la gioventù, se temperata da buone basi scientifiche, può, con la sua passione ancora non incrostata dalla supponenza dell’età, concedere attimi di godimento a tutti quelli, giovani e vecchi, che abbiano ancora la voglia di sondare nuove strade.

La Hobby&Work, che pare abbia scovato questa piccola vena d’oro e che giustamente se ne avvale per la sua collana di saggi storici, ha dato alle stampe Il verde e il nero che ripercorre con dovizia di particolari la storia de Il Selvaggio, una delle riviste del Ventennio più graffianti, satiriche ed incisive e del suo ideatore, autore, padre, quel Mino Maccari che seppe in prima persona attraverso vignette, versi umoristici, testi sarcastici, idee turbinanti, incanalare quel crescente malumore che nel corso degli anni ha attraversato quel gruppo di personaggi che si sono radunati intorno alla rivista e che hanno coagulato quegli ideali che sono il fondamento del pensiero “strapaesano” di cui Maccari fu l’orgoglioso progenitore.

È dalle pagine della rivista che vengono scatenate, di volta in volta, quelle polemiche, spesso in aperto contrasto con il regime che si andava consolidando, annacquando lo spirito primigenio dello squadrismo, in una serie di compromessi e di arrotondamenti che non piacevano proprio agli “strapaesani”, che incendiarono il clima dell’epoca.

E il titolo dà conto proprio del doppio binario che la polemica strapaesana percorre e precorre.

Maccari e gli amici collaboratori di cui si contornerà, mai si accontentarono della trasformazione che portò da un lato, a modificare il nero dello squadrismo della prima ora, in un grigio sempre più tenue nel regime e negli anni del consenso. Sempre s’invocò la seconda ondata che doveva finalmente portare a compimento la rivoluzione fascista. Da qui la costante prese in giro dei gerarchi, ormai in pantofole e pancetta, contornati da parvenu, da arrampicatori sociali, da affaristi che minavano il nocciolo vero della rivoluzione che perdeva i suoi connotati più popolari e rustici in nome di un “fighettismo” inviso agli strapaesani.

Dall’altro, a modificare il verde anch’esso in un grigio spersonalizzante teso a “modernizzare” il paese, spesso accogliendo idee e stili alieni al panorama rurale, paesano, genuino, rappresentativo della cultura italiana.

È su questo doppio binario che s’innesta la feroce polemica, protratta negli anni, nei confronti degli eterni nemici di “Stracittà” guidati da Massimo Bontempelli, che invece volevano, attraverso una pratica di importazione dall’estero, una esterofilia parossistica, una devozione per tutto ciò che aveva un sapore moderno, svecchiare il paese, strappandolo a quel ruralismo che Strapaese voleva conservare.

È proprio in questa battaglia di retroguardia, che appare datata e contro i tempi, la vera novità che Buttignon, attraverso il suo racconto puntualizza con ricchezza di aneddoti e spigolature che rendono sapido il racconto.

Quei temi strapaesani che a prima vista appaiono “passatisti”, anacronistici, antimoderni, in opposizione alla volontà di progresso, sono in realtà i temi attualissimi che non risolti, ma anzi ingigantiti, ci troviamo tra i piedi oggi che ci confrontiamo con il moloch della globalizzazione e con una modernità che pare non voglia argini di contenimento.

Il costante richiamo degli “strapaesani” all’attaccamento alle proprie piccole patrie, fatte di tradizioni, di radicamento, di preservazione delle abitudini è proprio lo stesso richiamo degli ambientalisti dei nostri giorni.

Così come sono temi che precorrono le istanze dei “verdi” dei nostri giorni le idee di conservazione del paesaggio, contro l’invadenza di certa architettura celebrativa, dei centri storici (i borghi paesani) da pedonalizzare, delle costruzioni sempre più opprimenti che costringono a sventramenti urbani che snaturano l’anima dei luoghi.

E ancora la lotta contro l’automobile e la sua bruttezza, fatta di puzza e rumore monotono e straniante.

Insomma una contrapposizione a tutto tondo nel tentativo di preservare, di frenare l’onda liquida che, di lì a pochi decenni, avrebbe prevalso sempre più pesantemente e che oggi ci costringe a guardare a “Strapaese” come a un movimento di Cassandre che però ci aveva visto giusto.

E non a caso Maccari nelle sue tirate contro Stracittà aveva condensato la sua opposizione in uno spirito che è, lo dice lui stesso, lo spirito americano, con tutto ciò che ne consegue.

Sbaglierebbe chi, con superficialità, volesse relegare gli “strapaesani” nel limbo antimoderno dei passatisti. C’è un passo dello stesso Maccari e che Buttignon, non casualmente, riporta tra i molti citati nel saggio, che dà l’esatta posizione di Maccari e dei suoi.

«Ci pare che la modernità, così come si va configurando, bastarda, internazionale, esteriore, meccanica, se venisse da noi accettata integralmente, così com’è, potrebbe inquinare, corrompere e in gran parte annullare il tesoro della nostra razza, conservato, trasmesso di secolo in secolo da quella grande amica e protettrice dei popoli che è la tradizione, contro la quale stupidamente si appuntano le ire dei letterati mancati e di coloro che non potendo vendere l’arrosto cotto al forno della tradizione, vendono il fumo bigio del Novecentismo…. Strapaese è fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere rurale e paesano della gente italiana; vale a dire, oltreché l’espressione più genuina e schietta della razza, l’ambiente, il clima e la mentalità ove son custodite, per istinto e per amore, le più pure tradizioni nostre. Strapaese si è eletto a baluardo contro l’invasione delle mode, del pensiero straniero e delle civiltà moderniste, in quanto tali mode, pensiero e civiltà minacciano di reprimere, avvelenare o distruggere le qualità caratteristiche degli italiani, che dal travaglio contemporaneo, tendente a creare lo stato unitario italiano, devono essere indispensabile base e l’elemento essenziale».

È quel “così come si va configurando” che spiega tutto.

Strapaese non è contro la modernità, ma contro il modernismo, contro un pensiero, che si farà unico di lì a poco, che non sa più riconoscere le sue origini, perché non ne ha. Maccari con i suoi sa che non può esserci spinta verso la modernità se si abbandonano, nello sradicamento, i propri punti di partenza, se si cede all’oblio, se si sceglie la via dei Lotofagi e contro questo combatte.

Chiede un ritorno alle origini vivificante, esalta la sostanza selvaggia dell’essere umano, unica corazza al travolgente affermarsi della società senza volto imposta come unica via alla globalizzazione.

Buttignon percorre nel suo saggio, attraverso le varie vicende personali di Maccari, espulso dal partito per poi essere reintegrato, le vicende del Selvaggio, che molte volte fu censurato, sequestrato, osteggiato, le storie dei suoi amici e collaboratori, Soffici, Malaparte, Pellizzi, Longanesi, Bilenchi, Rosai, questo tratto di Storia e ci restituisce la temperie di quei tempi.

Il suo fresco racconto ci permette di leggere in profondità una parte di un affresco che testimonia la libertà di pensiero e la possibilità, seppur nelle difficoltà, di esprimerlo, in un periodo che per molti è stato solo assoluta censura e repressione. Non indulge mai a facili consensi ma fa proprio, nella sua scrittura, lo spirito di Maccari.

“Per Maccari disegnare e incidere equivale a osservare; scrutare il mondo esteriore, quindi giudicarlo, è la sua abilità principale. O meglio, la madre di tutte le sue abilità artistiche……Maccari non crede nell’ispirazione, anzi considera se stesso un mero operaio qualificato. È l’artigiano alla base di tutto”.

Buttignon, con i suoi bozzetti, gli aneddoti, l’occhio sempre orientato al particolare illuminante, da ottimo artigiano, costruisce il suo saggio riempiendolo di tante cose diverse che si saldano alla fine in un testo compatto ma non pesante, informato ma non saccente, appassionato ma non partigiano.

Leggendolo mi è venuta in mente una breve gita, prima di Pasqua, in cui ho visitato una cava di marmo statuario a Carrara.

Pensando a quei blocchi squadrati, muti e bianchi, totalmente inespressivi alla vista, ho immaginato l’intero percorso che passa tra quel blocco e la statua che in esso è già contenuta e a quanta esperienza ci vuole per tagliare, sgrossare, incidere, cesellare, lisciare, addolcire quel blocco per trasformarlo in una statua, somma totale di tante sapienze artigianali che fanno da supporto a un’idea.

Vedo così Maccari, che probabilmente aveva nella testa tutto questo, visto che suo padre è stato proprietario di cave, e così anche Buttignon alle prese con la parte di Fascismo che descrive.

Qualcun altro ha sgrezzato quel blocco nero di “male assoluto” che inizialmente appariva ai nostri occhi, l’ha sagomato in spigoli taglienti, ha cominciato a estrarre un racconto coerente da quella massa informe. Buttignon con uno smeriglio si è ritagliato il compito di modellare le asperità, di levigare le superfici, di stondare le asperità, per permettere al tatto quella morbida rappresentazione che si va sempre più delineando.

Passando per De Felice, attraverso Neglie, Buchignani, Parlato e tanti altri si arriva infine a Buttignon che memore dell’incisivo lavoro altrui, non lo rinnega, ma lo utilizza per donarci infine quella statua marmorea che era già tutta contenuta in quel blocco iniziale.

Anche Buttignon, vedete, “non crede nell’ispirazione ma considera se stesso un mero operaio qualificato”.

E di questo gliene siamo grati.