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Dalla dipendenza energetica alla sostenibilità delle comunità locali

di Eduardo Zarelli - 10/05/2011


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Transition è un movimento culturale nato in Inghilterra dalle intuizioni e dal lavoro di Rob Hopkins, ora apprezzabile anche dai lettori italiani (Manuale Pratico della Transizione, Arianna Editrice). Tutto avviene quasi per caso nel 2003. In quel periodo Hopkins insegnava a Kinsale, in Irlanda e con i suoi studenti creò il Kinsale Energy Descent Plan: un progetto strategico che indicava come la piccola città avrebbe dovuto riorganizzare la propria esistenza in un mondo in cui il petrolio non fosse stato più economico e ampiamente disponibile. Voleva essere un’esercitazione scolastica, ma quasi subito ci si rese conto del potenziale rivoluzionario di quella iniziativa. Quello era il seme della “Transizione”, il progetto consapevole del passaggio dallo scenario attuale a quello del prossimo futuro.
“Pensare globalmente, agire localmente”: in questo semplice slogan si possono riassumere l’obiettivo e il modus operandi del movimento delle “Città in Transizione”. Una filosofia che ora si sta diffondendo anche da noi in ambito locale, dei piccoli e virtuosi comuni della variegata e propositiva provincia italiana, dopo che Hopkins ha fatto della cittadina di Totnes, in Gran Bretagna, l’esempio più famoso di questo movimento. Questo villaggio di 8.500 abitanti nel sud-ovest dell’Inghilterra è stato da subito terreno fertile per le idee della transizione. Partendo da una presa di coscienza dei problemi che ci affliggono su scala planetaria – il cambiamento climatico, la futura penuria di fonti di energia non rinnovabili, la questione dello sfruttamento delle risorse idriche – Hopkins e i suoi sono riusciti a coinvolgere una piccola comunità che ha iniziato a compiere la sua "rivoluzione" nel nome dell’autosufficienza. L’obiettivo è che produzione, distribuzione e consumo (di energia, di acqua e di cibo, principalmente) diventino il più possibile locali, indipendenti da fattori esterni. E così via libera a progetti riguardanti l’uso di fonti energetiche rinnovabili, farmer’s market, spesa a chilometro zero, coltivazione di giardini e orti comuni, mobilità sostenibile. L’idea forte è stata quella di introdurre una valuta locale complementare, la “sterlina di Totnes”, cambiata alla pari con la sterlina del Regno Unito. Questa moneta – spendibile nella settantina di negozi associati al movimento – incentiva l’acquisto di prodotti locali, cosa che determina una diminuzione delle emissioni di anidride carbonica dovute al trasporto e un effettivo sostegno alle imprese e all’occupazione degli abitanti del posto. Ma sarebbe riduttivo concentrarsi sulla autosufficienza “monetaria”: infatti, uno dei pilastri dell’economia di Totnes viene dallo scambio e dalla condivisione di cose molto concrete come ad esempio, risorse o materiali inutilizzati da ditte e imprese. Chi ha manodopera inutilizzata, materiali che si accumulano, spazi vuoti in immobili o mezzi di trasporto, è incentivato a condividere tutto ciò con altre imprese che ne hanno bisogno, secondo il Business Resource Exchange Project. Chi possiede un orto-giardino che non riesce a curare per mancanza di tempo o capacità, è invitato a condividerlo con chi invece può coltivarlo, nell’ambito del Garden Share Project. Con due progetti chiamati The Great Re-skilling (recuperare abilità perdute) e Transition Tales (racconto di esperienze) si possono condividere conoscenze e saperi stimolando spontaneamente relazioni di vicinato e reciprocità sociale.
Raccontata in questo modo Totnes può apparire come un piccolo paesino irenico e decontestualizzato, che ha attuato la sua piccola svolta “verde” proprio in virtù del suo essere irrilevante, circondato da fertili campagne e abitato da una popolazione istruita, ricettiva ed economicamente agiata. Ma è possibile “pensare globalmente e agire localmente” in contesti in cui le politiche ecologiche non sembrano essere il problema più pressante? Il movimento delle Transition Towns può sopravvivere nei sobborghi delle metropoli, nelle aree ad alta densità abitativa, nei sobborghi periferici “difficili” o semplicemente nei tessuti urbani occidentali?
Forse ce lo dirà l’esperienza di Transition Town Brixton. Un tentativo appena nato di applicare la filosofia delle comunità di transizione proprio a un popoloso e degradato quartiere di Londra. Quest’ultimo ha la sua moneta complementare chiamata Brixton Pound che, come a Totnes, cercherà di incentivare la gente a comprare presso negozi locali indipendenti e di spingere i negozi stessi a servirsi di fornitori del posto, inibendo le derive inflazionistiche. A questo si affiancheranno i consueti progetti per la riduzione dei consumi energetici e delle emissioni di anidride carbonica, nel trasporto pubblico, nel riciclaggio dei rifiuti, nella riduzione degli sprechi e nello sviluppo di orti urbani e gruppi di acquisto solidali. Grande enfasi è data naturalmente ai progetti di sensibilizzazione ed educazione. A Brixton si lavora su numeri più grandi di quelli a cui sono abituate le Transition Towns (oltre 60mila persone sono potenzialmente interessate), e soprattutto su un pubblico che, gravato dal bisogno e le necessità, risulta apparentemente insensibile alle “buone pratiche” e alla “semplicità volontaria” della sobrietà ecologista.
La Transizione - infatti - è un movimento culturale sperimentale con esplicita valenza metapolitica, avendo l’ambizioso proponimento di traghettare la nostra società industrializzata dall’attuale modello economico basato su una vasta disponibilità di petrolio a basso costo e sul consumo illimitato delle risorse a un nuovo modello sostenibile indipendente da energie fossili non rinnovabili e caratterizzato da un alto livello di “resilienza”. Tale principio è il cardine per ribaltare sul piano della concretezza l’irrealismo dell’economia del mondo industrializzato, che è stata sviluppata negli ultimi 150 anni sulla base sull’assunto paradossale che le risorse a disposizione per i consumi siano infinite. Le conseguenze più evidenti di questa politica sono una combinazione di eventi dalle ricadute di portata epocale: inquinamento, distruzione della biodiversità, iniquità sociale, distruzione del tessuto identitario e comunitario. La crisi petrolifera appare però la minaccia più immediata e facilmente percepibile dall’opinione pubblica. Hopkins parte quindi da questa percezione diffusa per arrivare agli altri di conseguenza - per progressiva consapevolezza - un’intuizione che è probabilmente alla base della considerevole diffusione del suo movimento nell’area anglosassone. Da ecologista ha passato anni a insegnare i principi della Permacultura, da cui deriva il concetto di resilienza. Quest’ultimo non è un termine molto conosciuto, esprime una caratteristica tipica dei sistemi naturali. Consiste nella capacità di un ecosistema, di una specie, di una certa organizzazione vivente o sociale di adattarsi ai cambiamenti, anche traumatici, che provengono dall’esterno senza degenerare, una flessibilità dinamica rispetto alle sollecitazioni indotte. La società industrializzata è caratterizzata da un bassissimo livello di resilienza. Viviamo tutti un costante stato di dipendenza da sistemi e organizzazioni dei quali non abbiamo alcun controllo. Nelle nostre città consumiamo gas, cibo, prodotti che percorrono migliaia di chilometri per raggiungerci, con catene di produzione e distribuzione estremamente lunghe, complesse e delicate. Il tutto è reso possibile dall’abbondanza di petrolio a basso prezzo che rende semplice avere energia ovunque e spostare enormi quantità di merci da una parte all’altra del pianeta. È facile scorgere l’estrema fragilità di questo assetto, basta chiudere il rubinetto del carburante e la nostra intera civiltà si paralizza. I progetti di Transizione - in controtendenza - mirano invece a creare comunità libere dalla dipendenza dal petrolio e fortemente resilienti attraverso la ripianificazione energetica e la rilocalizzazione delle risorse di base della comunità (produzione del cibo, dei beni e dei servizi fondamentali). Lo fa con proposte e progetti risolutamente pratici, fattivi e basati sul buon senso. Prevedono processi governati dal basso e la costruzione di una rete sociale e solidale molto forte tra gli abitanti delle comunità, e la dimensione locale non preclude l’esistenza di altri e più complessi livelli di relazione sussidiaria e di scambio, regionale, nazionale e internazionale.
Per dirla con la visione solistica del compianto Edward Goldsmith, se seguire la Via significa mantenere l’ordine cruciale del cosmo, si può ritenere che una società lo faccia quando il suo modello di comportamento, o di autogoverno, sia omeotelico. L’omearchia è il concetto chiave dell’intera visione olistica ed indica il controllo di sistemi naturali differenziati da parte della gerarchia di sistemi più ampi, di cui essi fanno parte. Quando, al contrario, è eterotelico (il controllo delle parti di un sistema da parte di un agente esterno/estraneo alla gerarchia), si deve ritenere che la società segua l’anti-Via, la civilizzazione dell’accumulo e dell’entropia, quella che minaccia l’ordine del cosmo e provoca inevitabilmente la rottura degli equilibri.
Le unità di attività omeotelica sono le unità sociali naturali entro le quali gli esseri umani si sono evoluti: la famiglia, la comunità e la cultura che la sostanzia. Quando si disintegrano sotto l’impatto dello sviluppo economico, queste unità sono sostituite da istituzioni - politiche, economiche e sociali - il cui comportamento è sempre più eterotelico rispetto all’obiettivo di mantenere l’ordine cruciale della società e della gerarchia naturale.
Nascono così le Transition Towns, “città di comunità” che sulla spinta dei propri abitanti decidono di prendere la via della transizione. Qui si evidenzia probabilmente l’elemento di forza più coinvolgente del progetto di Rob Hopkins: quello che lui ha creato è un metodo che si può facilmente imparare e insegnare, riprodurre e rielaborare nel rispetto delle identità e delle diversità sociali e culturali. Questo lo rende contagioso, persuasivo perché non ideologico, grazie alla emulazione della visione del mondo pluralistica che contiene, un’energia che attiva le persone e le rende protagoniste consapevoli di uno stile di vita volontariamente sobrio e disinteressato - nell’anonimato egoistico della società individualistica - che ricostruisce l’appartenenza comunitaria. La crisi profonda di civiltà che stiamo attraversando può quindi rivelarsi una grande opportunità che va colta e valorizzata per una trasformazione profonda del paradigma dominante. Il movimento di Transizione è uno strumento per farlo.