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Lorenzo Viani, il libertario che dava voce anche ai pazzi...

di Mario Bernardi Guardi - 12/05/2011



«Il pazzo, /acceffa la scodella di pane, / la lecca, / la tritola come un cane. / Guattisce, / grugola, / trugola, / mugola, / col viso entro la scodella di pane, / che lecca e tritola come un cane. / Il teatro è fornito d'uscite di sicurezza». È intitolata Colazione di previdenza questa poesia di Lorenzo Viani, scrittore e pittore viareggino, tra i più originali alfieri dell'espressionismo novecentesco, tanto da essere accostato a Edvard Munch.

E c'è addirittura chi lo ritiene superiore al Norvegese, celeberrimo per quell'"Urlo" che è diventato un'icona: Viani, si dice, di "Urli" ne ha disegnati tanti, anche se sul mercato dell'arte non hanno ancora raggiunto le quotazioni che meriterebbero. Come, del resto, si può verificare, visitando la Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Viareggio, che di opere di Viani ne raccoglie un centinaio.
I quadri di Lorenzaccio sono abitati da chi "stravede" e "straparla". Il suo popolo. Viareggini poveri d'inizio Novecento. Dannati della terra e del mare. Marinai, vagabondi (vàgeri), donne impastate di un nero luttuoso, poeti, puttane, pazzi. Già, i pazzi. Uno è rappresentato in tutta la sua disumana bestialità nella breve lirica che abbiamo riportato. Il testo, pietosamente atroce, fa parte di una raccolta di "immagini" che Viani nel 1933 trasformò in libro, ora riproposto dalla fiorentina Barbès (Le chiavi nel pozzo, a cura di Tommaso Guerrieri, pp.170, € 8).
Tanti erano i pazzi che Lorenzaccio aveva incontrato nel manicomio di Magliano, in una discesa agli inferi che doveva essere evocata, come testimonianza viscerale di una condizione "altra". Questo urto con un disagio che ha qualcosa di abissale, Viani lo affida a una lingua che somiglia alla sua pittura: un carico di provocazioni, invenzioni ed estri visionari. Nudità sconcia e indifesa, mostruosità, orrore.
Lo scrittore rinnova e sconvolge il vocabolario con decine di parole che sono pugni nello stomaco e balzano dal fondo più profondo della plebe viareggina. Bisogna lavorarci un po', sulla lingua di Viani per farla nostra, ma, superato lo spaesamento, ecco che ci si offre artista vivo e vero, così come era l'uomo, con la sua bella provvista di storia. Al centro, un evento cruciale: quel "ritorno alla patria" che diventerà il titolo di un suo libro, premiato nel 1930 alla prima edizione del "Viareggio". Se Viani alla patria "torna", vuol dire che prima dalla patria "se n'era andato": e allora bisogna dar ragione dell'uno e dell'altro perché. Alla base, una fedeltà immutata alle radici. Nel paesaggio della memoria, i profili di babbo e mamma, discendenti da antenati pastori e contadini, al servizio di don Carlos Borbone. Nella Villa Reale della pineta viareggina, tra l'azzurro, il verde e l'oro. Bei colori, ma c'era anche il nero della fame. Della morte, delle vesti delle vedove, della malattia, della miseria, del buio che inghiottiva la vita di tanti poveri, pazzi o no. Non dimenticava nulla, Viani. Non dimenticava il suo maestro, Giovanni Fattori; e ricordava volentieri i tempi in cui, da ragazzo, aveva lavorato come garzone di barbiere, e gli era capitato di far la barba a Giacomo Puccini. Nonché ai "compagni" Leonida Bissolati, Andrea Costa, Pietro Gori, che gli avevano fatto crescere nel petto l'istinto ribelle e la passione per la giustizia. Per l'umanità dei disperati. E degli artisti.
A Parigi, tra il 1908 e il 1909, e tra il 1911 e il 1912 (lui era nato nel 1882), ne condivise genio e sregolatezza, ma prima di ogni altra cosa la terribile povertà, tradotta anni dopo (1925) in una sorta di delirio iperrealistico in cui la città con i suoi villaggi-alveari destinati ad ospitare artisti non abbienti e pazzi in (dis)ordine sparso appare come una specie di "mamma-mostro" ("Parigi", riproposto da Mondadori nel 1980, a cura di Marcello Ciccuto). Poi, Viani torna a Viareggio. E mentre si infiamma leggendo le pagine di Bakunin e Nietzsche, Proudhon e Stirner, frequenta i libertari, i socialisti e i sindacalisti rivoluzionari, si perde nei fervori mistico-rivoluzionari di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Enrico Pea e Giuseppe Ungaretti nel nome della Repubblica d'Apua e del mondo liberato dalla pastoie dell'oppressione congiunta della burocrazie e del militarismo; mentre la rivoluzione gli urla e gli rugge nel cuore, va via via riscoprendo anche la dimensione della "patria", quella piccola, domestica, della sua Viareggio e quella più grande del suo Paese, l'Italia. Nelle piazze incendiate dall'interventismo rivoluzionario c'è anche lui ed anche lui va in trincea, in nome della Patria e della Rivoluzione. Ma chi la farà la Rivoluzione? Il socialismo eretico di Mussolini avvince e convince Viani, collaboratore del Popolo d'Italia.
Anche a Mussolini, che ne avverte la purezza e la romantica ingenuità, Lorenzaccio piace. Anni dopo confiderà a De Begnac: «Lorenzo Viani, fascista rimasto libertario o libertario divenuto fascista, mi scrive spesso dal suo studio viareggino di Fossa dell'Abate. Mi parla del suo Ceccardo Roccatagliata Ceccardi che mi fu presentato a Milano da Corridoni e da Marinetti, durante i mesi della battaglia per l'intervento, nel 1915. Mi parla della sua, ancora non licenziata o avviata al congedo, "Armata dei Vàgeri". Mi dice che la rivoluzione deve avere come avanguardia gli artisti, non gli intellettuali, i pensatori, i filosofi. Mi ha inviato un piccolo disegno riproducente il volto di Amilcare Cipriani che io portai deputato nel 1913 al VI Collegio di Milano, e che lungamente mi onorò della sua amicizia. E ho capito, una volta di più, come e quanto la cultura della rivoluzione nasca proprio su quella riva del socialismo libertario, completamente avulsa da pratiche poetiche di tradizionale mediocrità» (Yvon De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di Francesco Perfetti, Il Mulino, 1990, pp. 428-429).
"Fascista rimasto libertario o libertario divenuto fascista", Viani sarà sempre scomodo e controcorrente. La destra moderata e conservatrice, nazionalista e benpensante, da parte sua, lo vedrà sempre come un corpo e uno spirito estraneo. E nel 1927 si scandalizzerà davanti al Monumento ai Caduti, in Piazza Garibaldi, a Viareggio, ideato per l'appunto da Lorenzaccio e modellato da Cesare Rambelli. E per forza visto che si trattava di un'opera "sovversiva", che non faceva pensare a fanfare patriottiche, a discorsi altisonanti, a squillanti appelli guerrieri. Nessuna retorica, ma la consapevolezza che la guerra è sacrificio e sofferenza, dovere e dolore; e che si è nazione e popolo quando si riconosce questa verità elementare. Viani lo diceva con la consueta franchezza: «In questa mole di pietre schematiche e nude (…) non troverete ingombro di lauri o di querce, non epigrafi. Viareggio ai suoi Caduti. L'ancora e la scure romana. La figura italica di un Seminatore, spropositato di dimensione, apre col gesto la germinazione. I morti, sollevandosi, con l'estremo anelito offrono l'oro delle loro anime. Un urlo biblico pare che echeggi in Piazza Garibaldi: Popolo d'Italia, risorgi, cammina!».
Ecco, è in questo che credeva Viani, artista, uomo e cittadino. Credeva in una patria e in una umanità solidale. Dove poveri e pazzi - i poveri pazzi, che si comportano in maniera così strana e parlano una lingua così aliena - potessero trovare qualcuno capace di capirli. "Pezzi" di patria, anche loro, non roba da buttare. Lorenzaccio, libertario tricolore, li capiva.