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Il nemico di Sandokan nella città sacra ai gatti

di Valerio Zecchini - 16/05/2011

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Kuching, capitale del Sarawak nel Borneo malese, è una città unica e affascinante, incantevole e intrigante, ma i suoi abitanti sembrano non rendersene conto. Come gli abitanti di tutte le altre città del mondo, belle o brutte che siano, sono persi nelle beghe, nelle brighe e nella monotonia del loro quotidiano. Ma anche il viaggiatore meno accorto ci mette poco a realizzare che si trova in un posto speciale.
La prima cosa che salta agli occhi è che questa è una città «a tema». Kuching in malese significa gatto, ma il nome ha la sua origine nell’abbreviazione di Matakuching, un frutto qui molto diffuso,usato anche per fare una bevanda dolcissima. Dopo l’indipendenza dall’Inghilterra (1957) e l’annessione del Sarawak alla Malesia come Stato federale (1963) il governo locale ha deciso di trarre vantaggio da questo nome atipico, finché il primo agosto 1988 Kuching fu ufficialmente proclamata «città del gatto». Oggi nelle tre piazze principali sorgono enormi statue di felini che salutano con la zampa destra alzata, un’altra si trova all’entrata della città e anche nei parchi pubblici si trovano sculture più piccole (ma a dire il vero più belle)di gatti. Persino negli acquari abbondano i pesci–gatto. Questa apologia del simpatico animale domestico trova però la sua apoteosi nel «Museo del gatto», fondato nel 1993.
Il museo ospita un «centro di informazione del gatto», vuole essere il luogo d’incontro per club di amanti del gatto da tutto il mondo, nonché struttura per congressi, seminari e conferenze su qualsiasi cosa che riguardi il nobile felino. Il museo vero e proprio conta una collezione di oltre 2000 manufatti provenienti da ogni parte del globo: sculture e statue, quadri e foto, oggetti in porcellana, vetro, legno – dall’antico Egitto a Garfield, Felix e Silvestro. Originalissime (e anche un po’ impressionanti) le foto di un artista giapponese il quale riesce a ritrarre gatti in costume d’epoca che interpretano scene da I tre moschettieri, oppure in azione vestiti da Batman o Superman, o ancora gatti samurai o travestiti da nobili del settecento francese. Il gatto più raro del mondo, il Felis Badia, si può trovare solo nel Borneo, e qui ce n’è uno imbalsamato, in una grande teca che riproduce il suo ambiente naturale. Secondo i cinesi, sempre molto superstiziosi, il gatto è un animale che porta fortuna, per i malesi invece esso è dotato di poteri soprannaturali.
Kuching però non è soltanto la mecca del gattofilo, o gattolico che dir si voglia. Il lungofiume (riverfront) è un’altra delle principali attrattive della città, specialmente di notte, quando una sapiente illuminazione permette di ammirare un romantico panorama da fiaba su entrambe le sponde, su cui svettano l’Astana, il palazzo del leggendario Rajah bianco James Brooke, protagonista della saga di Emilio Salgari, la spagnoleggiante fortezza Margherita e l’imponente edificio del parlamento locale. Questo fiume, il Sarawak, e’ il più grande del Borneo, ma la regione è ricca di tanti altri fiumi che ne hanno definito la storia, la demografia e l’identità: infatti, chi controllava le foci dei fiumi controllava i commerci e quindi deteneva il potere politico. L’enorme quantità di pioggia che cade sul Borneo (la terza isola più grande del pianeta) alimenta uno dei più vasti ecosistemi a foresta tropicale del mondo, abitato dalle bestie più singolari e inquietanti, come lo hornbill, uccello dal doppio becco, o la scimmia con la proboscide.Il grande botanico italiano Odoardo Beccari, come vedremo una delle fonti di Salgari, fu ospite del Rajah bianco nel 1857, e dal suo soggiorno e dai suoi studi trasse il libro Nelle foreste del Borneo. Viaggi e ricerche di un naturalista; a pagina cinque dice: «Non ho mai visto da nessuna parte foreste vergini così ricche, così varie, e peculiari nella loro flora come in prossimità di Kuching». Tutta quest’acqua e questa pioggia hanno probabilmente avuto la loro importanza nel determinare la conformazione fisica dei nativi, i Dayak, discendenti dei famigerati tagliatori di teste: essi hanno spesso la parvenza di creature palmipedi, di elfi semi-anfibi. Oltre ai Dayak, la popolazione è composta dalla maggioranza malese-musulmana, dalla minoranza cinese e da una piccola comunità di occidentali, prevalentemente anglosassoni.
A questo già variegato panorama umano c’è da aggiungere il flusso turistico ininterrotto dei neofricchettoni nordeuropei, detti anche backpackers; importati direttamente dai centri sociali di Berlino o di Copenaghen, vanno a stipare i budget hotels e gli ostelli e sono un gruppo sociale omogeneo e fortemente stereotipato, nell’aspetto e nel modo di vivere e di pensare: tutti hanno i capelli lunghi (spesso raccolti in una coda di cavallo o in stile rasta), la barba incolta e portano uno zaino in spalla – tutte le donne, trasandatissime, ostentano i polpacci pelosi e portano uno zaino in spalla. Vengono nel Borneo spinti da quella che Tom Wolfe giustamente chiamò la «nostalgia del fango». Non sono interessati alla gloria imperiale del Rajah bianco James Brooke, che praticamente inventò dal nulla Kuching e lo Stato del Sarawak, né al culto del gatto o alle passeggiate romantiche sul lungofiume. Il loro principale obbiettivo è di andare a trascorrere un po’ di giorni ospiti nelle longhouses, le abitazioni tradizionali dei Dayak nei villaggi della giungla, casermoni enormi dove possono abitare fino a cento famiglie, separate l’una dall’altra soltanto da una porta. Cercano un ritorno fittizio alla promiscuità del primitivismo e l’illusione di un’atmosfera in stile Woodstock, probabilmente li guida una nostalgia delle comuni degli anni Sessanta – è insomma un modo di sfogarsi contro la civiltà che tanto detestano. Ma se questi Dayak non fossero stati civilizzati dal Rajah bianco James Brooke (tra l’altro, guarda caso, grandissimo amante dei gatti), probabilmente taglierebbero la testa del neohippie mentre dorme, e il giorno dopo la appenderebbero fuori dalla longhouse per affumicarla e così farsi belli con le donne del villaggio.
James Brooke fu ai suoi tempi celebrato come uno degli eroi dell’Inghilterra vittoriana e dell’impero britannico, l’esempio vivente di come la cultura inglese, la civilizzazione e il progresso potessero andare di pari passo. La dinastia da lui fondata governò il Sarawak per più di cento anni (1841-1946, con la breve parentesi dell’occupazione giapponese).
Nacque nella città santa di Benares, in India, nel 1803; suo padre era un dirigente della Compagnia delle Indie e giudice della Corte d’Appello, originario di Bath. Intraprende la carriera militare come ufficiale, e nel 1825 è al fronte allo scoppio della guerra anglo-birmana. Viene ferito gravemente durante un’eroica carica a cavallo e rimarrà convalescente per cinque anni. Inizia quindi un’intensa serie di viaggi a scopo commerciale in quell’Oriente dove era nato e cresciuto e che fatalmente lo attraeva. Ma James era negato per il commercio. Le sue mire erano ben altre. Cominciò a contestare in alcuni articoli la politica coloniale della Compagnia delle Indie (che era più o meno direttamente controllata dal governo inglese), e indicava il suo idolo Sir Stamford Raffles come modello da seguire nella gestione dei possedimenti d’oltremare. Raffles, agli inizi del secolo, aveva strappato agli olandesi l’isola di Giava in Indonesia e l’aveva governata per cinque anni (1811-1816) col consenso della popolazione locale, da lui profondamente stimata. Non repressione e mero sfruttamento, quindi, ma governare con la partecipazione attiva dei nativi e colonizzare per civilizzare. In un articolo sulla rivista Atheneum fornì un’anticipazione delle sue ambizioni sul Borneo, riaffermando il diritto inglese di resistere e reagire all’egemonia olandese sull’isola e di riprendersi il piccolo insediamento di Marudu, fondato nel 1773 dalla Compagnia delle Indie. La giustificazione morale veniva dal filantropico obbiettivo di sradicare il paganesimo e la schiavitù.
Nell’agosto del 1839, James Brooke arriva nel Sarawak a bordo del brigantino The Royalist, perfettamente armato ed equipaggiato, precedentemente in dotazione alla marina reale, acquistato grazie all’eredità paterna. Kuching all’epoca era un piccolo porto fluviale annesso a un villaggio di capanne, governato per conto del sultano del Brunei dal Rajah Muda Hassim, zio del sultano stesso. Impressionato dallo sfoggio di potenza militare, Hassim lo riceve immediatamente, credendolo un emissario del governo britannico. E qui c’è l’incredibile colpo di fortuna: il Rajah era impegnato a debellare una rivolta che durava da ben tre anni (una lotta intestina per il controllo dei giacimenti di antimonio), era in grave difficoltà e chiede aiuto al nuovo arrivato. Quest’ultimo, con suprema astuzia politica, prima lo asseconda e in seguito si mette d’accordo con alcune delle fazioni ribelli che aveva aiutato a reprimere per ricattarlo, sempre avvantaggiandosi dell’evidente superiorità militare (l’irresistibile forza di convinzione dei cannoni).
Fatto sta che due anni dopo Brooke viene nominato ufficialmente Rajah al posto di Hassim col beneplacito del sultano del Brunei. I locali, sia malesi che dayak, iniziano a vederlo come un leader dai poteri semi-magici, che emanava semangat (coraggio fisico, carisma, forza spirituale), e lui vede finalmente la possibilità di realizzare il suo sogno: governare una colonia col consenso, come fosse uno shire (contea) inglese. All’inizio del suo regno Brooke ricevette pacificamente flotte di pirati, in particolare i filippini Illanun, per ammonirli e convincerli che nel suo territorio eventuali scorrerie sarebbero state severamente punite - ma con loro fece anche baldoria. Dai suoi diari di bordo notiamo però un atteggiamento quasi schizofrenico: James era profondamente affascinato dalla loro bellicosità spontanea, dal loro abbigliamento bizzarro, dalle loro danze sfrenate. Con loro sentiva di avere in comune il disprezzo per il commercio e l’amore per l’azione, l’avventura, la vita nomade - come se sapesse che ciò che prima di tutto li chiamava alle armi era l’esca della pura eccitazione, il sollievo dalla noia di un’esistenza regolare, dal grigiore del tipo di vita che lui stesso cercherà di imporgli. Insomma li ammirava mentre li combatteva, un’attitudine militare da vero gentleman che servirà anche a dissimulare, nella sua coscienza, la disparità di armamenti sui due fronti.
E qui arriva Emilio Salgari. Infatti sono proprio queste le tormentate riflessioni che fa il James Brooke dei suoi romanzi, interpretato nella celebre serie televisiva da Adolfo Celi (bravissimo, ma fisicamente non somigliava affatto al vero Brooke). L’antagonista/persecutore di Sandokan è quindi anche il suo alter ego. Nei suoi monologhi c’è molto del vero James Brooke. Ma da dove Salgari aveva tratto queste informazioni, visto che notoriamente non era mai uscito dall’Italia? La sua fonte, come ha indicato Paolo Ciampi in un paio di libri recenti (Mauro Pagliai editore), non poteva essere altri che Odoardo Beccari, il celebre naturalista che fu ospite di Brooke nel 1857 e fu anche testimone dell’insurrezione cinese a cui il Rajah bianco scampò miracolosamente, e alla quale seguì una feroce rappresaglia. Non si sa se i due si conobbero di persona, ma di sicuro i libri di Beccari erano all’epoca l’unica risorsa per la conoscenza di quel mondo così remoto. Un’altra fonte per Salgari potrebbe però essere stata l’inchiesta ordinata dal governo britannico nel 1854. Come si sa, il successo genera invidie e gelosie e Brooke, che era stato ricevuto dalla regina e aveva ottenuto il titolo di Sir, si era nel frattempo fatto parecchi nemici. La lunga inchiesta si chiuderà con un nulla di fatto e avrà come unico risultato di dividere l’opinione pubblica britannica tra pro-Brooke e anti-Brooke. I resoconti giornalistici di tutta questa vicenda furono probabilmente una fonte primaria per Salgari, che risulta più influenzato dalla fazione anti-Brooke nella costruzione del personaggio.
Perché Hollywood non ha mai realizzato un kolossal basato sulla biografia di Brooke, così pregna d’avventura e di esotismo? «Perché non c’è alcun interesse amoroso nella vita del Rajah bianco», disse Somerset Maugham interpellato sull’argomento. Lo stesso aveva detto Errol Flynn a Sylvia Brooke, moglie del terzo Rajah Vyner, la quale aveva già pronta una sceneggiatura. Nulla di più lontano dal vero. James non si era mai sposato (anche se riconobbe un figlio illegittimo), ed ebbe molte amicizie femminili ma nessun fidanzamento vero e proprio (eccetto uno in Inghilterra, misteriosamente andato a monte). Come dimostrato da J.H. Walker in un saggio che fece molto discutere (This peculiar acuteness of feeling, «Questa peculiare acutezza di sentimento»), l’attenzione sessuale di James era rivolta agli adolescenti, ma questa sua inclinazione era stata sempre abilmente celata con l’alibi del paternalismo sia da lui stesso sia dalle persone della sua cerchia, così come dai biografi coevi o postumi. Nell’Inghilterra vittoriana la sodomia era un reato grave. Non si tratta però di pedofilia o pederastia, come potrebbe apparire all’osservatore odierno. L’adolescenza è un’invenzione del Novecento; nella Gran Bretagna dell’Ottocento, a dodici anni ci si poteva già sposare e arruolarsi nella marina o nell’esercito, oppure andare a lavorare in fabbrica o in miniera.Negli ultimi anni della sua vita, trascorsi nella residenza di Burrator nel Devonshire, dove morì e fu sepolto nel 1868, Brooke, parzialmente sfigurato dal vaiolo a cui era fortunosamente sopravvissuto e amareggiato dalle tante vicissitudini, sviluppò gusti più pasoliniani, dedicandosi a relazioni con giovani di basso rango che in più di un caso tentarono di ricattarlo.