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Brasile: la politica estera al tempo di Dilma

di Tatiana Merlino, Luiz Alberto Moniz Bandeira - 17/05/2011


Brasile: la politica  estera al tempo di Dilma

L’arrivo di Dilma Rousseff e della sua nuova equipe governativa in Brasile, ha dato luogo a una serie di attese e speculazioni su possibili cambiamenti nella politica estera brasiliana. Recentemente il voto del Brasile, nel quale si appoggia l’invio di un osservatore speciale dell’ONU, per aprire un’indagine sulle denunce di violazione dei diritti umani in Iran, ha generato un forte dibattito sui presunti cambiamenti nella politica estera di questo paese.

In questi ultimi giorni, la giornalista del mensile brasiliano “Caros Amigos”, Tatiana Merlino, ha eseguito un’intervista all’esperto in politica e storia, Luiz Alberto Moniz Bandeira, editorialista de LA ONDA digitale, sul significato da dare a questo voto e la rotta di Itamaratí, sotto la guida dell’ambasciatore Antonio Patriota. Quella che si presenta in seguito è la versione spagnola di questa intervista.

-         Il Brasile ha appoggiato la risoluzione del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite che ha istituito un osservatore speciale per indagare sulla situazione in Iran. Che significato si può dare a ciò?

-         Non c’è nessuna contraddizione con i lineamenti della politica estera del Brasile, la quale è una politica di Stato. La presidentessa Dilma Rousseff ha espresso in varie occasioni che la difesa dei Diritti Umani non può essere selettiva e deve comprendere tutti i paesi nei quali accada la loro violazione. Non solo ha fatto riferimento all’Iran, bensì anche agli USA, per quanto concerne la situazione dei prigionieri nella base di Guantámano e nella prigione di Abu Gharib, in Iraq, dove sono sottoposti a tortura. Gli Stati Uniti hanno un criterio selettivo secondo i loro interessi economici e strategici. Politicamente conducono il tema dei diritti umani, come propaganda, contro determinati paesi.

Il voto del Brasile all’ONU a favore del osservatore speciale per indagare la situazione in Iran è un fatto isolato, circostanziale. Questa decisione è stata presa dalla presidentessa Dilma Rousseff in conseguenza di Sakineh Ashtani, l’iraniana condannata a morte per lapidazione, secondo una millenaria tradizione israelita, conservata in alcuni paesi islamici. La presidentessa Rousseff è stata fortemente torturata durante il regime militare e il tema dei diritti umani l’ha resa molto sensibile. Tuttavia, non rappresenterà il vettore principale della sua politica estera.

-         Ci sono stati dei cambiamenti nella politica estera brasiliana?

-         L’ex cancelliere Celso Amorim, nonostante abbia avuto delle divergenze riguardo all’invio di un osservatore speciale in Iran, ha dichiarato che non vede “differenze profonde né superficiali” tra la politica estera del governo della Rousseff e quella del governo Lula. È evidente che ciò non significa che non si possano presentare delle puntuali differenze, perfino derivate dai cambiamenti sulla scena internazionale. La politica estera di un paese, nonostante possieda una linea strategica, si può modificare, in una forma o in un’altra, al fine di adattarsi ai mutamenti storici: non si può fermare nel tempo. Deve evolvere, adattandosi alle circostanze che si presentano.

-         L’ex cancelliere Celso Amorim ha affermato in un articolo che l’invio di un osservatore dei diritti umani è, diplomaticamente, una risorsa ben contundente nei confronti del paese in questione. Come può influenzare sul voto il dialogo tra il Brasile e l’Iran? Il voto può complicare l’intermediazione che esiste tra il Brasile e l’Iran sulla faccenda nucleare?

-         Non credo che possa danneggiare nessun dialogo, poiché il Brasile non ha cambiato parere per quanto concerne il tema del diritto d’Iran a sviluppare l’energia nucleare per fini pacifici. Il presidente Lula ha mediato in questa disputa, in accordo con la carta spedita dal presidente Obama, nella quale si proponevano i termini di un accordo con l’Iran. Lui e il primo ministro della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, sono riusciti a che il presidente Mahmoud Ahmadinejad li accettasse. Ma subito dopo, il presidente Obama ha fatto una marcia indietro, sottostimando l’accordo e gli Stati Uniti hanno preteso che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvassi le sanzioni, contro le quali il Brasile ha votato. Il presidente Obama somiglia un burattino della segretaria di Stato, Hillary Clinton, che lo assoggetta e gli detta personalmente i percorsi della politica estera degli USA, con un orientamento identico a quello tracciato dal presidente George W. Bush e i neoconservatori del Partito Repubblicano.

-         Una delle critiche fatte al voto del Brasile è quella che starebbe adottando posizioni dubbiose per quanto concerne la sua politica internazionale, eseguendo una condanna selettiva, poiché se difende l’invio di un osservatore speciale verso l’Iran, dovrebbe difendere l’invio verso Guantánamo e un altro per osservare la situazione degli immigranti in Europa. Cosa ne pensa lei?

-         Non osservo nessuna titubanza su questo argomento. Non è stato il Brasile a presentare la proposta per inviare un osservatore speciale in Iran. Semplicemente ha votato a favore. Se qualche paese presenta una proposta per l’invio di un osservatore a Guantámano o per osservare la situazione degli immigranti, sono sicuro che il Brasile, sotto la presidenza di Dilma Rousseff, voterà a favore. Ma il fatto è che nessun paese presenterà una proposta in questo senso, dunque, sicuramente, gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra, che occupano un posto permanente nel Consiglio di Sicurezza, non consentiranno la sua approvazione. Queste potenze possiedono il diritto di veto.

-         Il voto rappresenta un allineamento agli USA? Se è così, perché?

-         Il voto del Brasile, per quanto concerne i diritti umani in Iran, non rappresenta nessun allineamento con gli Stati Uniti. Il Brasile non si trova né lontano né vicino agli Stati Uniti. Il presidente Lula ha mantenuto buonissime relazioni con il presidente George W. Bush. Quello che ha sempre fatto è stato difendere gli interessi nazionali del Brasile. Se avesse accettato la formazione dell’ALCA, allineandosi economicamente e commercialmente agli Stati Uniti, il Brasile sarebbe affondato, com’è accaduto al Messico, il cui PIL scese di oltre il 5% nel bel mezzo della crisi economica e finanziaria del 2007-2009 e che ancora non si è conclusa.

Con la presidentessa Rousseff non esiste un motivo per il quale si debbano produrre dei cambiamenti sostanziali nella politica estera del Brasile. Quello che può variare è lo stile. Ma esiste un dettaglio che segna molto bene il percorso diplomatico del Brasile e il mutamento dell’importanza dei suoi rapporti con gli Stati Uniti. Il primo paese visitato dalla Rousseff, dopo essere stata eletta, è stato l’Argentina. Il secondo, nel mese di aprile, è stato la Cina, la quale è diventata il principale socio commerciale del Brasile e il maggiore investitore straniero. Tuttavia, gli Stati Uniti e il Brasile sono le due maggiori masse economiche, nonostante la loro asimmetria, le due maggiori masse geografiche e le due maggiori masse demografiche dell’emisfero.

Pertanto, entrambi necessitano conservare buoni rapporti, qualsiasi sia la tendenza politica dei loro governi, riconoscendo e rispettando le divergenze, forse esistenti, e collaborando su quei temi nei quali esistono convergenze. Le loro relazioni, attraverso la storia, non sono state mai così lievi, come in genere si pensa. Nel secolo XIX, il governo brasiliano sospese per ben tre volte (1827,1847 e 1869) i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti, anche se dal 1848 inviò verso il mercato americano la maggior parte delle sue esportazioni, principalmente caffè. Il rapporto tra i due paesi migliorò dal 1870, quando il Brasile divenne enormemente dipendente dalle esportazioni di caffè verso il mercato americano.

Anche così, ci furono discrepanze e attriti con gli Stati Uniti, perfino nei tempi del barone di Rio Branco, e le contrazioni si aggravarono nella misura in cui il Brasile cominciò a industrializzarsi e le loro economie cominciarono a perdere la complementarità, soprattutto dal 1950. E dopo un “breve e aberrante interludio”, così come lo definì l’ambasciatore nordamericano John Crimmins, che contraddistinse il periodo di tre anni del governo del maresciallo Humberto Castelo Branco, i militari ristabilirono, in altre circostanze, percorsi di politica estera simili a quelli dei presidenti Jânio Quadros e João Goulart e abbandonarono “l’allineamento automatico” con gli Stati Uniti. Le contraddizioni si approfondirono quando il governo del generale Ernesto Geisel firmò l’Accordo Nucleare con la Germania, denunciò l’Accordo Militare con gli Stati Uniti, all’ONU votò a favore di una risoluzione che condannava il razzismo e includeva il sionismo come una delle sue manifestazioni, e immediatamente riconobbe i governi rivoluzionari, con influenza marxista-leninista, di Guinea-Bissau, Mozambico e Angola, così come fecero Cuba e l’Unione Sovietica. Solo i presidenti Fernando Collor de Melo e Fernando Henrique Cardoso cercarono di accomodare la politica estera del Brasile agli interessi strategici degli Stati Uniti. Questi due presidenti, al tempo stesso in cui privatizzarono indiscriminatamente le aziende pubbliche, compresa quella delle telecomunicazioni, indebolirono l’industria bellica nazionale e sguarnirono le Forze Armate, nella prima metà del decennio del 1970 ridussero le spese della difesa di un 70% del budget, e agli inizi del XXI secolo di oltre il 6%. Disarmarono il Brasile, subordinandolo agli interessi economici e strategici degli Stati Uniti. E Fernando Henrique Cardoso giunse al punto di fare aderire il Brasile al Trattato di Non Proliferazione delle Armi Nucleari (TNP), il cui obiettivo era di stratificare lo statu quo del potere mondiale, impedendo la disseminazione orizzontale della tecnologia atomica, cioè, il suo dominio da parte di altri paesi, ma non proibiva la crescita verticale degli arsenali di bombe nucleari e degli strumenti di lancio che, gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, la Francia e l’Inghilterra continuarono a sviluppare. In questa forma, queste grandi potenze pretendono conservare le loro posizioni egemoniche.

-         Esiste una qualche relazione tra il voto del Brasile a favore delle indagini sulla violazione dei diritti umani in Iran e l’astensione al Consiglio di Sicurezza sulla determinazione di una no flying zone in Libia?

-         Il voto del Brasile a favore dell’invio di un osservatore in Iran per indagare sul tema dei diritti umani in quel paese e l’astensione espressa quando il Consiglio di Sicurezza approvò la risoluzione, stabilendo una no flying zone in Libia, è un segno evidente che non ci è stato nessun riallineamento con gli Stati Uniti. Il ministro degli Affari Esteri, Antonio Patriota, ha difeso la tesi di una soluzione diplomatica del conflitto in Libia, durante la chiusura, in Cina, della 3° riunione dei vertici del BRICS. Ha rilevato che, un mese dopo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza, sotto il pretesto di difendere la popolazione civile, il livello di violenza in Libia non è diminuito. E, discutendo se la popolazione civile “si trova più protetta ora che non prima”, egli, riferendosi all’”inquietudine dei percorsi che la crisi libica potrebbe prendere”, ha affermato che “è il momento di riprendere lo sforzo diplomatico”.

-         Come valuta l’atteggiamento adottato dal Brasile nei confronti della Libia quando si è astenuto nel votare l’applicazione di una no flying zone e domandare un cessate il fuoco nel paese?

-         Il Brasile si è astenuto nel Consiglio di Sicurezza, insieme alla Cina, l’India, la Russia e la Germania, il che ha rappresentato, in termini diplomatici, una discordanza con gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra. E questi stessi paesi condannano il bombardamento e l’attentato alla sovranità della Libia e reclamano il cessate il fuoco. Non può esistere un’altra valutazione: il Brasile, sotto la presidenza di Dilma Rousseff, mantiene la stessa politica estera autonoma, sovrana e attiva, sviluppata dal presidente Lula. Cosa stanno facendo gli Stati Uniti e la Francia in Libia? Proteggere i civili o appoggiare militarmente i cosiddetti ribelli? I presunti civili ribelli, che affermano di proteggere, possiedono armi pesanti e sono, nella loro grande maggioranza, fondamentalisti islamici, che evocano Allah, alle urla di “Allahu Akhbar”, che significa “Dio è grande”.

La ribellione è cominciata a Benghasi, città ubicata nella Cirenaica, antica provincia romana (Pentapolis) e tradizionalmente separatista. Di fatto, gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra, con il loro intervento nella guerra civile libica, stanno ignorando la propria risoluzione del CS dell’ONU, insultando il Diritto Internazionale e violando il proprio obiettivo della NATO, che solo prevedeva la difesa congiunta di qualsiasi dei loro membri contro l’attacco armato da parte di un terzo paese e la Carta delle Nazioni Unite, il cui art. 2 del Cap. I, stabilisce che “nessuna disposizione della presente Carta autorizzerà le Nazioni Unite a intervenire negli affari che dipendano essenzialmente dalla giurisdizione interna di qualsiasi Stato, od obbligherà i membri a sottoporre i suddetti affari a una soluzione, nei termini della presente Carta”. Il trattato dell’Atlantico Nord fu solennizzato nel 1969, nel contesto della Guerra Fredda e il primo segretario generale della NATO, Lord Ismay (Hastings Lionel “Pug” Ismay), dichiarò che il suo obiettivo era “to keep the Russians out, the Americans in, and the Germans down”. In altre parole, “tenere fuori i russi, gli americani dentro e i tedeschi sotto”. Adesso, queste potenze occidentali vogliono riprodurre la farsa del Kosovo, la provincia separatista della Yugoslavia, quando la NATO attaccò durante 79 giorni le forze serbe del presidente Slobodan Milosevič, a favore delle guerriglie albanesi e produsse un enorme numero di rifugiati. Così come la Russia, la Cina, l’India, l’Africa meridionale, la Spagna e molte altre nazioni, il Brasile non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo e lo farà solamente se stabilirà un accordo politico con la Serbia, sotto l’egida dell’ONU.

Quello che vuol far intendere Itamaraty, al non riconoscere l’indipendenza del Kosovo, è che le potenze che parteciparono in quella guerra ignorarono la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 1999. Il testo prevede il compromesso dell’ONU nei confronti dell’integrità territoriale e la sovranità della Yugoslavia (attuale Serbia) e, nell’Allegato 2, determinava che un possibile governo sovrano del Kosovo dovrebbe scaturire da un accordo politico. Sembra che uno dei due obiettivi dell’intervento della Francia, dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, mascherato dalla NATO, è quello di assicurare l’indipendenza del Bengasi e mantenere il controllo dei pozzi di petrolio.

-         Lei crede che le rivolte nel mondo arabo rappresenteranno una grande trasformazione nella geopolitica del Medio Oriente?

-         Le rivolte che sono iniziate a Tunisi, si sono estese in Egitto e hanno contaminato gli altri paesi arabi, con ogni probabilità modificheranno la configurazione geopolitica del Medio Oriente. Tuttavia, è molto difficile valutare, per il momento, le dimensioni che potranno raggiungere. Dipende dalla strada che queste rivolte prenderanno, secondo le condizioni domestiche di ciascun paese. Il Medio Oriente è disomogeneo. I paesi sono molto diversi tra di loro. La situazione è, di conseguenza, molto complessa, poiché sono molto diversi i fattori che hanno determinato le rivolte, anche se il denominatore comune sia quello della manifestazione contro i regimi dittatoriali in decomposizione. Tutti questi paesi sono importanti in termini geopolitici e strategici. Ma il grado d’importanza di ciascuno di essi è molto diverso, così come il grado di possibilità di controllo delle rivolte da parte degli Stati Uniti, i cui mezzi finanziari sono virtualmente esauriti e il governo del presidente Obama cerca in qualche modo di contenere il deficit finanziario e il debito pubblico. La situazione dell’Inghilterra, così come quella della Francia, non è molto migliore.

-         E quale è il ruolo svolto dal Brasile nel nuovo panorama del Medio Oriente?

-         Il Brasile non è, e non può mai esserlo, ossequente con gli Stati Uniti. John H. Cummins, ex ambasciatore degli USA in Brasile (1973-1978), ha dichiarato davanti al Comitato dei Rapporti Esteri della House of Representatives, nel 1982, che il principale obiettivo della politica estera d’Itamaraty, nelle sue direttive permanenti, dava la priorità agli interessi economici e cercava di contenere la massima libertà di azione, evitando compromessi e obblighi, che non si traducevano chiaramente nell’interesse – inteso tale quale lo definiva il Brasile – di assicurare le condizioni che agevolassero il suo progresso verso il destino di grandezza. Secondo quanto aveva osservato, il Brasile addirittura evitava assumere responsabilità maggiori e ulteriori compromessi, allo stesso tempo cercava diversificare i suoi legami economici e politici con il fine di espandere la sua area di manovra e aumentare il suo potere di trattativa.

Predisse che, con uno sviluppo industriale completo, avrebbe superato tutte le sue connotazioni di media potenza a metà del decennio degli anni ottanta. Quelle direttrici della politica estera del Brasile sono state conservate, nonostante alcuni cambiamenti subiti nella loro guida, durante gli anni novanta. In ogni caso, il Brasile è emerso da una profonda crisi economico-finanziaria ed è divenuto, non solo la 7° potenza economica mondiale, avviandosi verso la quinta posizione, ma anche una potenza politica globale. Deve, pertanto, svolgere un ruolo più attivo in Medio Oriente, anche a causa dei suoi interessi economici e commerciali. Molte aziende, con sempre maggiore frequenza, si internazionalizzano e il totale degli investimenti brasiliani all’estero ha raggiunto nel 2010 gli U$S 11,5 milioni e presumibilmente giungerà agli U$S 16 milioni nel 2011. I paesi arabi, con una popolazione di 340,82 milioni di abitanti sono, per il Brasile, un mercato importante. Nel 2010 le sue esportazioni rappresentarono una crescita del 34% in relazione al 2009. I principali clienti sono stati l’Arabia Saudita, Marocco, Emirati Arabi, Algeria ed Egitto, che hanno importato zucchero, olio di soia, carni, minerali, così come accumulatori elettrici, uva secca, sfere di rotazione per carichi radiali (10,50%). Tra gli altri articoli acquistati dal Brasile si possono annoverare i lucchetti di metallo, fioriere, deodoranti, acqua di colonia, abiti (pantaloni, gonne) e borse.

Inoltre, l’Egitto si è trasformato nel principale consumatore di prodotti brasiliani nel mondo arabo. Le aziende brasiliane s’interessano sempre di più investire nei paesi arabi, tra i quali si annoverano gli Emirati Arabi Uniti ed Egitto. La Brasil Foods (fusione della Sadia e della Perdigão), Vale do rio Doce, Tubos Tigre, Odebrecht, Boticário, Via Uno e Arrezzo hanno già attuato degli investimenti nella regione. Il settore dell’infrastruttura nel blocco arabo possiede un enorme potenziale di crescita. L’azienda brasiliana, Odebrecht Ingeniería & Costruzione stava già eseguendo opere per gli emirati Arabi e in Libia: la costruzione dell’Hotel EVA ad Abu Dhabi, negli Emirati, l’Aeroporto Internazionale e il Terzo Anello stradale di Tripoli, in Libia. Questa azienda ha già realizzato progetti in Iraq, Kuwait e Djibouti, fatturando all’incirca U$S 250 milioni nel 2009 per i servizi d’infrastruttura sviluppati in Medio Oriente.

D’altra parte, le ditte brasiliane hanno ricevuto da parte dei paesi del Medio Oriente e dal nord dell’Africa investimenti per un importo di U$S 4,5 milioni. Questo valore investito nel Brasile rappresenta un 18% del totale dei suoi investimenti fuori dal Medio Oriente e dall’Africa settentrionale. Con ogni evidenza, le rivolte nei paesi del nord dell’Africa e del Medio Oriente, hanno interessato le prospettive economiche e commerciali del Brasile. La Odebrecht ha dovuto paralizzare le opere in Libia e ritirare i suoi operai. Tuttavia, nonostante questa congiuntura, il Brasile diventa una potenza politica globale che non si può sottrarre a quanto sta accadendo in quelle regioni.

-         Il voto e la nuova posizione assunta dal Brasile per quanto concerne la sua politica estera può influire nella decisione del ruolo che esso occupa nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU?

-         Il Brasile sicuramente non condizionerà la sua politica estera per la pretesa di voler occupare un posto permanente nel Consiglio  di Sicurezza dell’ONU. Cina e Russia riconoscono il suo desiderio di voler svolgere un ruolo più prominente nell’ONU. Il fatto è che il Brasile, la Russia, l’India e la Cina, il blocco noto sotto il nome di BRIC, rappresentano il 40% della popolazione e dell’economia mondiale e il 28% della massa geografica della Terra.

La riforma del Consiglio di Sicurezza, quindi, dovrà avvenire fra non molto, poiché il peso economico e politico di questi quattro paesi tende ad aumentare sempre di più. Secondo quanto afferma il Rapporto Annuale Sullo Sviluppo Socioeconomico del BRIC (2011), il PIL complessivo di questi quattro paesi – Brasile, Russia, India e Cina – dovrà superare quello degli Stati Uniti nel 2015. La previsione è che equivarrebbe al 22% del PIL mondiale da qui a tre anni, contro il 15% nel 2008. Tutto indica la possibilità che il Brasile, tra breve, passi alla 5° posizione nel ranking delle maggiori economie del mondo.

 

* Luiz Alberto Moniz Bandeira: Dottore in scienze politiche, professore di ruolo (pensionato) di Storia della Politica Estera dell’Università di Brasilia (UnB). Autore di diversi libri di diffusione mondiale in varie lingue.

Traducido para LA ONDA digital por Cristina Iriarte

(traduzione di V. Paglione)