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Il buon selvaggio

di Luciano Fuschini - 17/05/2011

 




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Il disastro di civiltà dal cui vortice siamo triturati non potrebbe essere esemplificato meglio che dalle condizioni dell’infanzia e dell’adolescenza nei Paesi cosiddetti più avanzati. Negli Usa un’altissima percentuale di bambini al di sotto dei dieci anni fa uso di psicofarmaci. In tutto il mondo occidentale, i cui confini si vanno espandendo a macchia d’olio, ragazzini e adolescenti soffrono di malanni psicosomatici un tempo impensabili in quella fascia d’età: ulcere, gastriti, coliti, insonnia, asma, crisi di panico. Manifestazioni di stati d’ansia che ne fanno dei nevrotici quando sono ancora nell’alba della vita. Ammettiamo pure che in molti casi questi sintomi siano catalogati come morbosi soltanto perché un’altra delle follie della nostra epoca vuole che ci rappresentiamo come malati, attuali o potenziali, dalla culla alla bara, docili prede del mostruoso ingranaggio della Sanità. Resta comunque la realtà di un disagio diffuso anche nell’infanzia.
Una ricercatrice americana, psicologa dell’età evolutiva, certa Darcia Narvaez, ci propone sue interessanti conclusioni su come dovrebbero essere allevati i figli perché crescano in modo sereno e armonico. Le sue conclusioni sono dedotte da uno studio comparato che analizza gli effetti dei nostri sistemi e di quelli di comunità cosiddette primitive che vivono ancora, in alcune nicchie, di caccia e pesca. Queste dovrebbero essere le regole auree: 1) parto naturale; 2) allattamento al seno, anche fino ai 5 anni (periodo che appare fin troppo prolungato, ma la saggezza antica era concorde nel raccomandare un lungo allattamento. Il Corano prescrive 30 mesi); 3) massimo contatto fisico col piccolo; 4) pronte risposte alle sue richieste; 5) condivisione della cura da parte di più adulti; 6) incoraggiamento a giocare all’aperto con altri bambini, anche di età diversa.
Garantite queste condizioni, la persona si formerebbe in modo semplice, naturale, sereno e armonico, con effetti soltanto benefici nella sua vita e nella società tutta. Ebbene, è evidente che gran parte di queste condizioni, così ovvie e naturali, sono oggi di impossibile realizzazione. L’allattamento  per un lungo periodo è visto dalla maggior parte delle mamme come un’insidia inammissibile alla bella consistenza del seno, che richiederebbe poi l’innesto costoso di silicone da parte del chirurgo estetico; anche quelle che non si pongono tali problemi devono comunque fare i conti con orari di lavoro che non consentono queste cure continue all’infante: Marchionne ha imposto un contratto che taglia i tempi di pausa secondo una logica che non è certo quella del rispetto delle esigenze di un corretto allevamento della prole; la psicologia d’accatto che è diventata patrimonio diffuso della povera cultura comune, ha inculcato l’idea che prolungare l’allattamento al seno, indulgere al contatto fisico col bambino e rispondere sempre alle sue richieste sono comportamenti che provocano una dipendenza eccessiva dalla madre. Come è possibile poi condividere la cura con più adulti, quando la famiglia allargata non esiste più e viene esaltata la mobilità, con la conseguenza che i coniugi, obbligati entrambi al lavoro per sbarcare il lunario, sono quasi sempre separati da lunghe distanze per gran parte della giornata? Il rimedio è nei nidi d’infanzia e nelle scuole materne, unici luoghi in cui è possibile anche soddisfare l’esigenza del gioco all’aperto, precluso negli spazi urbani dalla marea delle automobili e perfino nei parchi pubblici insidiato da pericoli. Ma le cure di un personale stipendiato non sono paragonabili a quelle di una comunità unita da legami affettivi e di parentela. Le pratiche di psico-pedagogia vanno nella direzione contraria alla semplicità naturale delle culture cosiddette primitive. Ora l’unico figlio deve realizzare fin da piccolo le ambizioni frustrate dei genitori: deve danzare, deve imparare a suonare uno strumento, deve praticare uno sport ed essere vincente, deve nuotare, deve imparare le lingue perché gli specialisti garantiscono che nei primi anni di vita si è estremamente ricettivi. Il tutto in un ambiente familiare quasi sempre attraversato da tensioni, incomprensioni, litigi. Perché stupirci poi del disastro che siamo?
La condizione degli adolescenti è ancora più infelice. Anche a questo proposito i “selvaggi” hanno qualcosa da insegnarci. Si sa che il dramma dell’adolescenza è quello di vivere una lacerazione fra l’attrazione del mondo dell’infanzia e le pulsioni di un’età più adulta. Ebbene, questa dolorosa e sempre più protratta crisi di identità non esisteva nelle comunità tribali. Prima del superamento di una prova di passaggio, una sorta di iniziazione, l’individuo era trattato da tutti come un bambino, dopo il superamento di quel rito era visto da tutti come un adulto. Non si può nemmeno obiettare che in questo modo si forza la natura del ragazzo, ancora in parte infantile, perché l’essere percepito da tutti in un certo modo faceva sì che il ragazzo stesso acquisisse ben presto quella percezione di sé. Profonda saggezza che ci è fatalmente preclusa.
Queste riflessioni non vogliono essere una riproposizione del mito del “buon selvaggio”. Nemmeno quel Settecento che mise in circolo il mito, proponendo all’ammirazione degli europei i costumi dei popoli caraibici o californiani (può far sorridere, ma allora California era sinonimo di terra selvaggia), credeva alla possibilità di tornare a quel tipo di vita e a quella organizzazione sociale. Il mito del buon selvaggio era un espediente retorico per denunciare l’irrazionalità del modello di civiltà che si stava instaurando e di cui ora vediamo le estreme conseguenze. Anche oggi il richiamo a quei costumi più sani ha solo un valore di mònito e di denuncia. Nessuna idealizzazione del mondo tribale. Fra l’altro, trattandosi di comunità chiuse, le relazioni endogamiche provocano nel tempo una decadenza anche biologica, come sembra ampiamente documentato.
Richiamare i princìpi di un sano allevamento della prole significa riproporre l’idea che si possono dare una civiltà e un’economia in cui il padre abbia quella che veniva chiamata la “giusta mercede”, intendendo con questa espressione un salario che consenta una vita dignitosa a tutta la famiglia, in modo che la madre possa dedicare ai figli le cure dovute; oppure significa che la madre lavoratrice possa godere di tempi di lavoro e di assistenza che non sacrifichino la cura dei bambini; significa che il posto di lavoro deve essere quanto più possibile stabile per consentire l’unità della famiglia. Ma tutto ciò non è possibile in un clima di spietata concorrenza internazionale, perché i costi di produzione non sarebbero più concorrenziali. Di qui l’esigenza di entrare nella logica dell’autoproduzione e dell’autoconsumo, entro i limiti del possibile. Tutto si tiene. Modificare alcuni elementi del quadro comporta la ristrutturazione dell’insieme. Di questo si parla, non del mito del buon selvaggio, né di semplice puericultura.