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Il prezzo devastante dell’individualismo

di Adriano Segatori - 23/05/2011

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La fine dell’uomo come “animale politico” comunitario e la sua trasformazione in individuo anomico e massificato ha un inizio, o comunque un principio di deriva, ben identificabile.
Andare alle origini simboliche della sua trasformazione rischia di rimanere un esercizio intellettualistico ed una rappresentazione di vuota saccenteria, per cui può risultare molto più proficuo limitarsi alla considerazione e all’analisi del reale; pur tenendo sempre presente il rischio di risultare parziali, superficiali e a volte addirittura settari.
Con il ’68, e il radioso periodo che ha portato al terrorismo e alla disgregazione di ogni legame con la realtà, si è consolidata una mentalità ed una prassi che, pur partendo da lontano, trova tuttora la sua fonte di ispirazione in una presunzione demagogica: Diventa ciò che vuoi!
Questo arrogante senso di onnipotenza nega un’evidenza che risale ai tempi mitologici della nostra civiltà e che ha sempre trovato nell’Oracolo di Delfi la sua più elevata ragione, sia psichica che sociale: Diventa ciò che sei! E la differenza non è cosa da poco.
Nell’ultima invocazione/esortazione è racchiuso un significato di elevata potenza. “Diventare ciò che si è” presuppone il riconoscere un proprio personale retaggio e, con esso, un passato di memoria e di opportunità derivante da un Destino, rigorosamente descritto con l’iniziale maiuscola. L’attacco a questa impostazione è stato voluto e scatenato da chi ha considerato questo dispositivo come una maledizione di immobilità, come una semplice limitazione dovuta ad apparati politici e di potere preposti a mantenere una condizione di sottomissione della massa in nome e per conto di un’autorità fittizia e attraverso mezzi di contenzione più svariati: dalla definizione delle caste alla scomunica sociale, dall’imposizione gerarchica all’instillazione della paura in caso di trasgressione. Non l’idea di una funzione soggettiva in base a specifiche competenze di natura, quindi, ma solo l’imposizione fittizia di un ruolo per interessi di tipo indefinito.
In questo senso, il Destino è stato volutamente confuso con il Caso, per giungere ad una conclusione: se solo il caso, come incidente sociale e biografico, è la causa di una certa situazione personale (fisica, psichica, economica, familiare ecc.), allora bisogna risolvere la casualità con la normativa di legge. Non più, allora, a ciascuno il suo secondo parametri di giustizia selettiva, ma a ognuno il massimo secondo il dettato della distribuzione generalizzata.
Dal punto di vista sociale, questa impostazione è stata la causa e la conseguenza della demeritocrazia, quel cancro dell’uguaglianza massificatrice che ha distrutto le élite culturali e politiche del nostro paese, e a ridotto la scuola a diplomifici e laureifici privi di dignità. L’imperativo “Diventare ciò che si vuole” è stato metodicamente perseguito istituzionalizzando la regola di “dare a ciascuno secondo il suo bisogno e non più secondo i suoi meriti”1 , una logica che segue il criterio risarcitorio, come se ogni uomo fosse eternamente mancante di qualcosa per causa altrui. In questa procedura è sottesa la presunzione egualitaria non delle pari opportunità di partenza – sulla base di risorse e di competenze già date, nonché della volontà e del carattere per usufruirne –, ma del diritto di raggiungere l’obiettivo indipendentemente dalle variabili indicate.
Questo indirizzo è devastante soprattutto dal punto di vista psicologico perché induce alla negazione dell’introspezione, e quindi della consapevolezza. Il principio di individuazione parte  dal presupposto fondamentale che ognuno lavora su un piano psichico di interiorità per fare emergere, educare e formare il proprio peculiare essere – la ciascunità di cui parla Hillman2  – secondo il paradigma esclusivo di natura. Il risultato è il riconoscimento delle personali risorse e dei personali limiti, che permettono un equilibrato esercizio delle capacità complessive. L’incitamento all’individualismo, invece, fa leva su indicatori sociali di tipo rivendicativo, come ad esempio l’invidia, o l’egoismo,  o il narcisismo, e sotto questa spinta di carattere emotivo e recriminatorio ognuno crede di poter accedere a tutto, di avere diritto a tutto e di poter ottenere tutto. Il “Diventa ciò che vuoi!” assume tonalità che si potrebbero definire giacobine, fondamentaliste. Nel momento in cui si accetta anche solo l’ipotesi che tutto sia possibile e che niente possa sottostare a dei limiti impliciti nella natura personale il rischio è duplice e concomitante: da un lato lo straripamento delle pulsioni individuali in una corsa incessante, inesauribile e mai soddisfatta di altro-da-sé, e dall’altro lo scatenamento della peggiore forma di darwinismo sociale.
Dal punto di vista simbolico e mitico, l’individualismo si inserisce a pieno titolo in quel dispositivo di pensiero e di visione del mondo che si chiama umanismo3 . Secondo questa posizione ideologica, niente è sopra l’uomo e la realtà contingente, ma tutto può e deve essere ricondotto al contingente, alla buona volontà, all’impegno razionale, alla costruzione meccanicistica dell’essere in un continuo e artificiosamente modificabile divenire. La personalità, il carattere, l’intelligenza, la creatività, la stessa forma fisica non sono più parametri soggetti ad eventualità endogene, ma possono essere facilmente modificate ed artefatte da interventi esterni, a seconda delle voglie e degli intendimenti degli interessati. In una sovversione del motto di Eraclito: “Il carattere è destino”, viene a cadere la precisazione di Hillman secondo il quale – giustamente – “molti sono i chiamati, pochi gli eletti; molti hanno il talento, pochi il carattere che può realizzare quel talento. È il carattere il mistero”4 , per cui tutti possono essere gli eletti, anche – e forse soprattutto – quelli che non hanno alcun carattere.
È proprio su questa distorsione irrealistica dell’uomo che si innescano le varie iniziative egoistiche del singolo. Basti pensare che dal 2007 è in discussione in Germania una proposta di legge sulla derubricazione dell’incesto come reato; e che sempre in Germania, dopo il caso eclatante finito negli annali della psicopatologia e della giurisprudenza, sono stati individuati più di 10.000 cannibali in rete; e ancora, in Olanda c’è un movimento politico che si chiama “Amore, diversità, libertà” che propone la legalizzazione della pedofilia, la liberalizzazione della pornografia televisiva sulle 24 ore e la libertà di prostituzione e di sceneggiature porno a 16 anni. Questo è il risultato, certo non l’ultimo, dell’egoismo individualista!
Nella negazione di un ordine superiore, creatore dell’armonia del cosmo, c’è l’affermazione alienata ed alienante della liberazione degli istinti e della prevaricazione del disordine caotico.
Se si analizzano i vari passaggi determinati dalla cosiddetta <<cultura laica>> – dalla proclamazione del divorzio al trionfo dell’aborto, dalla rivendicazione dell’omosessualità alla pretesa del riconoscimento transgender, dalla fecondazione artificiale con il <<corriere gestazionale>> (utero in affitto e donatore prescelto, tanto per intenderci) alle adozioni delle coppie omosessuali – tutto, e non solo questo, conferma l’individualismo egoistico più sfrenato, che scomunica ogni legame, ogni legge ed ogni significato di senso trascendente.
In assenza di un punto di riferimento sovraumano, le istanze pulsionali diventano le modalità fittizie e transitorie della propria identità, e l’uomo contemporaneo, credendosi liberato dai vincoli della natura e dall’obbedienza ad un ordine superiore, si è reso schiavo dei bisogni indotti da altri e succube di una lotta senza quartiere con i propri simili. Osserva Evola: “L’uomo <<libero>> moderno ha di contro a sé la massa degli altri senza casta, epperò, alla fine, la bruta potenza del collettivo”5 .
Senza parlare, poi, dell’intervento della tecnica, della scienza e dell’economia in questo disastro identitario dell’uomo dell’ipermodernità, per cui – come ha fatto rilevare Umberto Galimberti – “la sua atomizzazione e disarticolazione in singolarità individuali, foggiate da prodotti di massa, consumi di massa, informazioni di massa, rendono obsoleto il concetto di massa come concentrazione di molti, e attuale quello di massificazione come qualità di milioni di singoli”6 .
In questo panorama variegato di voglie e di metodi per soddisfarle incombe una domanda retorica che rinchiude in sé il potenziale irreale della sua risposta: “Perché no?”
Ogni sistema umano, anche la più disgregata società come la nostra, prevede dei tabù. La psicoanalisi insegna che confini di scelta, zone di proibizione all’‘accesso del godimento’, sono fondamentali nell’interdizione all’egoismo e nella creazione del senso di sé e dei legami di appartenenza. Basta creare una crepa nell’apparato di contenimento che tutto tracolla nelle ondate successive delle giustificazioni: “Perché no?”
Giorgio Agamben, in un’intervista su la Repubblica dell’8 febbraio, invitata le persone a vivere secondo le proprie idee. Ma è quello che stanno facendo! Lo stesso Agamben rifiutava l’assunto che per agire si debbano seguire dei princìpi prefissati o riferirsi ai dettati di una legge, non esistendo nessuna verità oggettiva o trascendente: “Il valore di verità è inseparabile dal suo personale coinvolgimento”. In altri termini, è vero solo ciò che io sento valido, così, per me. Perché l’uomo, in fondo, sarebbe solo “un animale” dotato di parola – dice niente: è la parola che permette di superare il reale per iscriversi nel simbolico! – e questo “non ha ancora finito di diventare umano”.
Insomma, alla fine il massimo risulterebbe essere proprio l’individuo, con una sua etica strettamente determinata da un gretto interesse ed una dovuta gratificazione del medesimo.
Non esiste etica che tenga, a questo punto. Se “l’etica non significa obbedire a un dovere”, ogni correttivo è solo un piccolo intervento moralistico di palliazione nella decadenza.
Non resta, allora, che l’individuo deprivato da ogni desiderio – che implica rischio e sacrificio per appagarlo – e reso schiavo da voglie spesso indotte e in continua quanto insaziabile soddisfazione. Quell’individuo ipermoderno che Lacan considera soffocato dal “godimento mortifero” e che Salvatore Natoli lo vede annaspante in “una pretesa di libertà incondizionata senza che ne sia neppure all’altezza [e uniformato nel] libertinaggio conformista”7 .
È questa condizione, forse, il segnale della fine di un’epoca e di una storia, la deriva che lo stesso Natoli, rifacendosi a Gottfried Benn, diagnostica come “il consumarsi di una civiltà: c’è il pathos del nulla, la consapevolezza della dissoluzione”8 .

 1 P. GRILLI di CORTONA, Significato e ruolo sociale del merito in Paradoxa, Gennaio/Marzo 2011.
 2 Cfr. J. HILLMAN, Il codice dell’anima, trad. it., Adelphi, Milano 1997.
 3 Cfr. J. EVOLA, L’irrealismo e l’individualismo in Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma 1998, pp. 355-368.
 4 J. HILLMAN, Il codice dell’anima, cit., p 313 e 311.
 5 J. EVOLA, cit.
 6 U. GALIMBERTI, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 44.
 7 S. NATOLI, L’edificazione di sé, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 65.
 8 Ivi, p. 68.