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Dall’insurrezione all’anti-rivoluzione

di Costanzo Preve - 23/05/2011

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Libere riflessioni sulla “primavera araba” del 2011

1. Ha scritto Romano Prodi (cfr. “La Stampa”, 18-4-11): “Io vedo nelle rivolte arabe lo
scoppio. di società fatte di giovani, disoccupati e colti incompatibili con governi tirannici”. Si
tratta di. un modello. neoliberale di spiegazione assolutamente maggioritario veicolato sia
dai giornalisti che dai cosiddetti “esperti” di politica e geopolitica, in cui domina il modello
della dicotomia. Libertà/Dittatura. La tesi che vorrei proporre al lettore (ovviamente con
mille cautele e dispostissimo a ritirarla se non dovesse reggere alle critiche serie) è che -
se questo fosse vero ma non è detto che lo sia - non si tratterebbe tanto di rivoluzioni, e
neppure di controrivoluzioni, ma di vere è proprie anti-rivoluzioni. Converrà però spiegarsi
meglio, per non lasciare adito a pittoreschi equivoci.
2. Personalmente, tendo a definire i movimenti politici e sociali che hanno portato alla
dissoluzione dei paesi socialisti europei e dell’URSS fra il 1988 ed il 1992 (simili in questo
al mutamento strutturale della Cina dopo il 1976) delle vere e proprie contro-rivoluzioni nel
senso classico della teoria politica moderna. So bene che esiste una resistenza, quando
non una vera e propria riluttanza, nell’accettare questa connotazione, che non implica
affatto (è bene ribadirlo subito contro ogni possibile pittoresco equivoco) un giudizio
positivo di approvazione per lo stalinismo evoluto poi dopo il 1956 in “socialismo reale”.
Niente di tutto questo. Si tratta invece di una connotazione storico-politica relativamente
“neutrale”, che si oppone educatamente ad altre connotazioni possibili. Esaminiamone
quindi alcune in modo “contrastivo”.
3. In primo luogo, considero impropria per gli eventi del 1988-1992 la connotazione di
“rivoluzioni liberali.”. Questa connotazione indica un insieme di fenomeni. storici ben
precisi, che hanno caratterizzato l’Ottocento europeo, in cui il liberalismo (unito o meno
con il liberalismo economico, ma non coincidente con esso, secondo la lezione di Croce in
polemica con Einaudi) si è contrapposto in modo rivoluzionario all’ancien régime ed al
bonapartismo, in un’alleanza instabile con la democrazia (suffragio universale, eccetera),
destinata a rompersi a fine Ottocento. Sono state queste, e solo queste, le “rivoluzioni
liberali”. Il capitalismo selvaggio imposto sulle macerie del socialismo reale dopo il 1992
non ha mai avuto niente di “liberale’’, al di fuori dell’ideologia della Fondazione Soros, ed è
un insulto retroattivo per i liberali dell’Ottocento usare per questi corrotti mafiosi questo
nobile appellativo.
4. In secondo luogo, considero impropria per gli eventi del 1988-1992 (si tratta di un
processo quinquennale e non solo di un “evento magico” tipo caduta del muro di Berlino)
la connotazione di “restaurazione”, o per, così dire di restaurazione borghese-capitalistica.
E’ assolutamente sicuro che il capitalismo è stato restaurato, ma non si è trattato di
restaurazione di un capitalismo vetero-borghese (che avrebbe implicato la formazione
organizzata di un polo opposto, popolare-proletario), ma di un capitalismo di tipo nuovo ed
inedito, di un capitalismo selvaggio di tipo americano del tutto post-borghese (e quindi
post-proletario). La riconversione di gran parte della struttura burocratico-partitica excomunista
in nuova classe oligarchica selvaggia non ha infatti “restaurato” la precedente
“borghesia” di tipo europeo, sostanzialmente distrutta nel ventennio 1920-1940 in URSS e
nel ventennio 1945-1965 nell’Est europeo ed in Cina, ma ha “instaurato” una nuova classe
dominante sostanzialmente criminale, e del tutto post-borghese. Si studino
sociologicamente i comportamenti dei “nuovi russi” in vacanza a Rimini ed in Versilia, e
quanto dico apparirà meno surrealistico.
5. La connotazione meno peggiore (in attesa di una connotazione migliore, che forse
esiste già, ma di cui non sono a conoscenza) degli eventi 1988-1992 è quella di maestosa
controrivoluzione sociale dei nuovi ceti medi sovietici (e cinesi), con la presa del potere
finale di una nuova classe di capitalisti criminali del tutto post-borghesi. Esiste una
riluttanza psicologica ad accettare questa connotazione, perchè si pensa che per
definizione una controrivoluzione debba essere un fatto elitario e minoritario, e non possa
avere una base di massa. Si tratta di un vecchio pregiudizio di “sinistra”, che rende
impossibile la comprensione di tutti gli eventi storici che non si conformino a pigri modelli
consueti. In realtà sia le rivoluzioni che le controrivoluzioni possono entrambe avere
consistenti basi di massa. Gli eventi che hanno portato al seppellimento del comunismo
storico novecentesco in URSS, in Cina e nei paesi dell’Est europei sono stati
indubbiamente controrivoluzionari, perché hanno distrutto le basi economiche e sociali
delle precedenti rivoluzioni (oggi ribattezzate dagli intellettuali servi del circo accademico
deliri totalitari), ma hanno avuto certamente basi di massa. Nell’assenza politica più totale
e grottesca della classe operaia di fabbrica propriamente detta, e nella smentita del mito
sociologico proletario secolare, i nuovi ceti medi si sono messi in movimento dando vita ad
una maestosa controrivoluzione.
6. E’ del tutto chiaro che questo approccio, giusto o sbagliato che sia, non può essere
applicato alla cosiddetta “primavera araba” del 2011. Qui non c’era nessun capitalismo da
“restaurare” o se vogliamo da “instaurare”, e neppure nessuna rivoluzione liberale da
compiere perché la globalizzazione capitalistica e l’impero militare interventista USA
hanno già da tempo distrutto e metabolizzato ogni forma di “liberalismo” precedente.
Bisogna quindi andare in cerca - e non sarà facile – di un approccio diverso.
7. Scrivendo fra la fine di aprile e l’inizio di maggio 2011, e quindi in “tempo reale”, é
difficile fare un bilancio serio e credibile di quello che le emittenti televisive CNN ed Al
Jazira hanno battezzato “risveglio arabo” (arab awakening). Il pericolo di dire affrettate
sciocchezze non può essere facilmente scongiurato. Dopo quattro mesi (gennaio-aprile
2011), e con mille cautele, mi sembra di poter dire che questo ciclo di insurrezioni non sta
dando luogo in alcun modo (per ora, almeno) ad una prospettiva rivoluzionaria, termine
che limiterei ferreamente e rigorosamente non certo ad una poco rilevante “circolazione
delle élites”, quanto ad una modificazione radicale dei rapporti di classe e soprattutto ad
una diversa e meno ingiusta e diseguale distribuzione della ricchezza. Queste insurrezioni
(perché di insurrezioni certamente si è trattato, ed in Libia di una vera e propria guerra
civile organizzata) danno purtroppo luogo non a rivoluzioni, ma a vere e proprie antirivoluzioni,
tendenti ad impedire o a rendere più difficili se non impossibili eventuali vere
rivoluzioni future. Chi trova eccessivo, ingiusto ed ingeneroso questo giudizio ha l’onere
della spiegazione del perché queste insurrezioni sembrano tanto facilmente “recuperabili”
dal modello oligarchico-occidentale di democrazia elettorale, dall’asfissiante retorica
“arancione” dei blog e di twitter e soprattutto dal patronato della signora Hilary Clinton e
del suo interventismo umanitario. E’ legittimo il sospetto che insurrezioni sponsorizzate da
Cameron, Sarkozy, la NATO ed il Dipartimento di Stato non siano poi così “rivoluzionarie”
come potevano sembrare. Per questo, trascurando casi interessanti ma marginali come lo
Yemen o il Bahrein, mi limiterò prima ad alcune considerazioni sociologico-politiche
generali, poi ad un rapido esame dedicato a quattro casi (Tunisia, Egitto, Libia e Siria), ed
infine al bandolo della matassa geopolitica di tutto questo, che individuo in un saggio
dell’apologeta dell’impero americano Parag Khanna, autore di un libro significativamente
intitolato “come governare il mondo” (How to run the world).
8. Non c’è dubbio che l’intero mondo arabo nell’ultimo mezzo secolo sia stato
caratterizzato non solo da una dinamica demografica imponente, tipica delle società
tradizionali ad altissima natalità e non ancora colpite dal malthussianesimo
occidentalistico, ma anche da una intensa scolarizzazione giovanile di massa. La
scolarizzazione giovanile di massa non connota soltanto modelli economici “sviluppisti” (il
giovane arabo e turco studia da ingegnere in percentuale incomparabilmente superiore
alla media dei suoi coetanei europei o americani) ma anche una fisiologica e benemerita
domanda di promozione sociale individuale. Le conseguenze però sono esattamente le
stesse che ci sono da noi, ovviamente ingigantite e moltiplicate dal basso livello di
sviluppo e del consumo interno: una gigantesca disoccupazione giovanile di massa. Da
noi però ci sono i redditi dei genitori e dei nonni che attutiscono il disagio della
disoccupazione giovanile e la relativa tenuta (per ora) del welfare, due elementi assenti nei
paesi arabi (non parlo qui degli emirati petroliferi o dell’Arabia Saudita). Sono questi gli
elementi esplosivi della società araba, e non certo generici “dittatori” (Ben Ali, Mubarak,
Gheddafi, Assad„ eccetera), come sembra suggerire il pacioso ciclista emiliano Romano
Prodi. Il fatto che il modello del capitalismo finanziario globalizzato costruito sulle macerie
del comunismo storico novecentesco non produce occupazione, ma solo speculazione
finanziarie. Non è certamente permettendo che la plebe tunisina possa ballare sui letti
d’oro della moglie cleptocrate di Ben Alì che il problema strutturale può essere risolto. Ma
questo ci porta alla necessità di fare almeno un tentativo di analisi differenziata paese per
paese.
9. L’’insurrezione tunisina è stata una cosa seria, ed è costata centinaia di morti. Si è
trattato di un’insurrezione popolare, al principio combattuta non solo dagli apparati di
repressione, ma anche dai ceti medi della capitale Tunisi. Nonostante il circo mediatico
abbia propalato l’idea che la sua “causa” debba essere cercata nelle ruberie cleptocratiche
della famiglia mafiosa allargata di Ben Ali, tutti gli analisti seri sono stati concordi nel fare
risalire le vere cause nelle misure economiche del Fondo Monetario Internazionale.
Questa insurrezione ha conseguito il risultato, che mi guardo bene dal disprezzare, di
ottenere una ferma costituzionale di tipo democratico e liberale, in cui si possono e si
potranno costituire partiti di ogni tipo, da quello islamico a quello trotzkista..
Ma questa forma liberal-democratica non può ovviamente risolvere nessuno dei problemi
strutturali della società tunisina. La grande fuga in massa verso la Francia via Lampedusa
lo dimostra ampiamente. I disoccupati sanno perfettamente che resteranno disoccupati, e
che non saranno i processi al capro espiatorio Ben Alì ed alla sua famiglia mafiosa
allargata a dare loro pane e lavoro. Bisogna allora studiare la situazione tunisina da vicino
nei prossimi mesi ed anni, per poter verificare se le forme politiche liberal-democratiche
possono facilitare una riaggregazione politica comunitaria del popolo tunisino che non si
identifichi con l’Islam politico, tradizionalmente debole in Tunisia. Mi sia permesso
educatamente di dubitarne, ma chi vivrà vedrà.
10. Secondo cifre ufficiali, la repressione del regime di Mubarak in Egitto ha fatto 846
morti. E’ una cifra imponente, tenuto conto del fatto che l’Egitto è un paese moderno,
sviluppato e socialmente articolato. Dal momento che la mia conoscenza dell’Egitto passa
anche attraverso i romanzi del Premio Nobel Naguib Mahfuz, ricordo i suoi personaggi che
tornano a casa storpiati dalla polizia segreta sia nel caso in cui fossero comunisti sia nel
caso che fossero islamisti. Qui il ciclista Romano Prodi ha ragione. Un simile sistema non
può durare all’infinito in presenza di una società per nulla tribale (come in Libia o nello
Yemen), ma colta ed articolata. E tuttavia in Egitto, così come in Tunisia, i problemi
strutturali della povertà e della disoccupazione non possono essere risolti con le
chiacchiere della signora Clinton .
I Fratelli Musulmani egiziani non sono certo simili ad Al Qaeda di Bin Laden, ma sono una
sorta di Democrazia Cristiana seriamente assistenziale, e pertanto non assimilabili con il
modello puramente volontaristico del “capitalismo compassionevole” USA, foglia di fico
oscena per il rifiuto di finanziare un welfare state di tipo europeo. Non conosco El Baradei,
ma il fuoco unanime di sbarramento contro di lui aperto congiuntamente dagli USA e dai
vertici dell’esercito egiziano mi fa pensare che sarebbe la soluzione migliore per il popolo
egiziano. Il popolo egiziano è un grande popolo, colto e civile, e non credo proprio che
sarà facile nei prossimi mesi ed anni prenderlo in giro con riforme cosmetiche di facciata o
con semplici processi contro la famiglia allargata di Mubarak. Staremo a vedere.
11. A proposito della Siria, non vorrei dare adito ad equivoci. Sono completamente a
favore del mantenimento al potere del partito Baath., anche se ovviamente non entro nel
merito sulle riforme politiche che dovrà fare. I suoi oppositori, fondamentalisti musulmani o
blogger occidentalisti, non sono in alcun modo un’alternativa migliore, ma peggiore. Non a
caso gli USA e Sarkozy li appoggiano, insieme con l’Arabia Saudita ed Al Jazira„ mentre
forze politiche serie di cui mi fido (il palestinese Hamas, il libanese Hezbollah, il
benemerito governo iraniano di Ahmadinejad) appoggiano il governo del Baath. Non si
può sapere tutto, ed essere esperti di tutto. Io non sono un arabista, ma uno storico ed un
filosofo. Non credo a cause buone sostenute dai cattivi. Il futuro ci dirà di più.
12. Ma è della Libia che bisogna soprattutto parlare perchè la Libia è anche un nostro
problema. Avevamo firmato un patto di amicizia con il governo libico di Gheddafi, e lo
abbiamo vergognosamente stracciato, mostrando ancora una volta agli occhi del mondo la
nostra patetica e vergognosa inaffidabilità.
Il giornalista italiano Fulvio Grimaldi, uomo dal cattivo carattere e dal lessico inutilmente
provocatorio ed estremista, con cui ho avuto a suo tempo una pittoresca polemica, ha
avuto il coraggio giornalistico, umano e civile, di andare in Libia e di raccontare gli eventi
“dalla parte di Gheddafi”, a differenza dei cronisti arruolati (embedded), pronti subito a
correre trafelati dagli insorti di Bengasi ed a paragonare Misurata a Serajevo, anticamera
simbolica sicura per un interventismo ancora più “muscolare” dei bombardamenti NATO.
Non posso che lodarlo incondizionatamente e solidarizzare con lui. Il corretto
atteggiamento di Grimaldi si contrappone alla posizione dell’ex-comunista Giorgio
Napolitano, passato dall’obbedienza geopolitica sovietica all’obbedienza geopolitica USA,
e che ha addirittura “premuto” su Berlusconi, indebolito dai suoi senili scandali puttaneschi
perchè intervenisse ancora più decisamente a fianco della NATO, che ha sostituito il
vecchio “sol dell’avvenire”. E Grimaldi si contrappone anche alla posizione di confusionari
estremisti, come il trotzkista Marco Ferrando o l’anti-imperialista Moreno Pasquinelli, che
si sono arrampicati grottescamente sugli specchi per conciliare l’appoggio agli insorti libici,
dichiarati a priori “rivoluzionari”, ed il fatto che questi ultimi invocano a gran voce i
bombardamenti NATO ed USA. Per carità di patria non approfondisco l’osceno “‘tifare” per
gli insorti libici del “Manifesto”, del “Punto Rosso”, della signora Rossanda, dei signori
Dario Fo e Franca Rame, eccetera. Il problema è infatti ampio, e coincide con la
decadenza irreversibile di una intera teoria politica, che ha sostituito la lotta di classe ed il
mito sociologico proletario con l’antiberlusconismo giudiziario urlato e con la lotta contro gli
eterni dittatori totalitari. Il fatto è che questa gente, pur essendo spiritualmente morti, non
sono stati seppelliti, e possono fare come gli zombies, che escono di notte per terrorizzare
i viventi. Costoro sono egemonici nell’apparato mediatico detto impropriamente di
“sinistra”, ed in questo modo possono silenziare i loro oppositori e confinarli nella galassia
sotterranea dei blog. Meno male, comunque, che questi blog esistono, ma non possono
che essere una soluzione provvisoria. Prima o poi, bisognerà riuscire a passare ai
quotidiani, ai settimanali, alle case editrici. Il vergognoso monopolio di fogli come i1
“Manifesto” dovrà essere infranto.
13. Non intendo certo fare qui l’apologia di Gheddafi. I1 suo governo quarantennale,
indubbiamente carismatico-paternalistitco-dispotico, ha avuto luci ed ombre, come del
resto qualsiasi governo quarantennale. Ma ha sviluppato economicamente e socialmente
la Libia, e non ha mai ceduto su questioni essenziali di sovranità nazionale. L’occidente ha
sempre saputo che Gheddafi non era dei ‘“suoi”, ed infatti lo ha colpito alla prima
occasione. Colgo l’occasione per affermare pubblicamente di solidarizzare totalmente con
il legittimo governo di Gheddafi, del tutto indipendentemente da come finiranno le cose,
che non posso certo prevedere. Ho appoggiato l’onesta proposta di mediazione del
benemerito presidente venezuelano Chavez.. Ho appoggiato l’onesta proposta di
mediazione dell’Unità Africana, organo indubbiamente più legittimo della NATO e degli
USA, cui l’Europa vile si è subito accodata. Ma chi vivrà vedrà.
14. Gli avvenimenti arabi devono però essere l’occasione per un inquadramento più
generale nella situazione geopolitica mondiale. Il recante Forum svizzero di Davos (cfr.
Federico Rampini in “Repubblica”, 27-1-11) ha verificato sulla base di corredi statistici
amplissimi che “in ciascuna nazione del mondo si allarga il baratro fra ricchi e poveri”. E’
questa la logica inesorabile del neoliberismo, dal reaganismo americano al New Labour di
Tony Blair al mercatismo di Deng Hsiao Ping e dei suoi successori. Il sistema politico ha il
ruolo di avallare l’approfondimento di queste diseguaglianze. In termini di allargamento
delle diseguaglianze, le società occidentali si sono omologate ad India, Cina e Indonesia.
Si tratta del fenomeno che l’economista francese di Bordeaux Bernard Conte ha definito
“terzomondizzazione del pianeta”. E’ interessante che i paperoni oligarchi di Davos
circondati da giornalisti servi e da professori universitari corrivi, constatino questi dati che
un tempo erano appannaggio dei contestatori più estremisti, nel frattempo approdati al
disincanto post-moderno, alla teologia dei diritti umani, ai bombardamenti umanitari ed al
canto rituale di “Bella Ciao”.
15. Come governare un simile sistema irrazionale ed impazzito? Ma il semplice ricorso alla
cosiddetta “esportazione del modello occidentalistico” non basta, e non coglie a mio avviso
il cuore del problema. Il modello occidentalistico è basato sul privilegio, ed in quanto tale
non è esportabile. Non c’’è abbastanza grasso che cola per tutti. Come abbiamo visto, la
dinamica della globalizzazione capitalistica finanziaria non è tanto l’occidentalizzazione del
mondo, quanto la terzomondizzazione del pianeta. Un mondo del genere può essere
governato soltanto “organizzando il Caos”.
Ma come organizzare il Caos? Ce lo spiega il politologo americano Parag Khanna,
recensito entusiasticamente dal giornalista neo-conservatore Maurizio Molinari (cfr. “La
Stampa”, 27-3-11), in un suo libro intitolato “Come Governare il mondo” (How to run the
world). Il mondo si governa organizzando sapientemente il caos, ed il caos si organizza
trasformando gli attuali cento stati mondiali ,usciti dalla storia degli ultimi tre secoli e dal
colonialismo europeo dell’Ottocento, in duemila o tremila a base etnica e tribale. In effetti è
l’Uovo di Colombo. Più sono deboli e numerosi gli stati, più gli USA potranno governarli
meglio. Gli esempi che fa Khanna sono numerosi. La Libia dovrebbe essere divisa nelle
tre precedenti provincie ottomane, la Tripolitania, la Cirenaica ed il Fezzan. L’Afganistan
non è che un pezzo della vecchia Persia multietnica , e potrebbe essere diviso fra
Pashtun, Tagiki ed Uzbeki. Il Sudan è già stato diviso fra Nord e Sud, ma si può fare
ancora di più (Darfur, eccetera.). L’Etiopia è già stata divisa fra Etiopia ed Eritrea, ma si
può ancora fare di più (amarici ed oromo galla, eccetera). La Nigeria è divisibile fra un Sud
cristiano ed un Nord musulmano, erede dell’impero Hausa. I’Irak è divisibile fra arabi e
curdi, sunniti e sciiti. Ed in prospettiva, si possono dividere a pezzi ancora molti stati, la
Cina (Tibet. e Sinkiang), la Birmania-Myanmar, eccetera .
16. Parag Khanna ha perfettamente ragione. Se fossi un ben pagato consulente del
Dipartimento di Stato USA, scriverei esattamente le cose che scrive lui. Occorre
organizzare il Caos, perchè solo organizzando il caos si può continuare a governare,
soprattutto in assenza di un credibile modello politico universalistico e comunitario. Uomini
come Khanna sono facilitati dal fatto che coloro che dovrebbero opporsi ai loro piani sono
come gattini ciechi e come uccellini implumi, invischiati nelle ideologie impotenti del
politicamente corretto e dell’interventismo umanitario. Con avversari come Dario Fo e
Rossana Rossanda Khanna ha vinto prima ancora di sedersi al tavolo da gioco. Ci vuole
infatti un pensiero che recuperi il concetto strategico di “nemico principale”, applicato alla
politica, all’economia ed alla geopolitica. Ho scritto in proposito un testo, allegato al
numero 2 della rivista torinese “Socialismo XXI”, una rivista che si situa apertamente al di
là della dicotomia Destra/Sinistra. Ad esso rimando il rettore interessato. Certo, non si
tratta di una chiave universale che apre tutte le porte, e che esenti dall’analisi concreta
della situazione concreta. Ma si tratta di una proposta di orientamento di fondo. In caso
contrario, continueremo a pasticciare nel fango di chi appoggia contemporaneamente i
ribelli arabi ed i bombardamenti NATO, violando non solo il principio aristotelico di
contraddizione, ma anche il buon vecchio e sempre vivo buon senso.