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Che cos’è il berlusconismo

di Mario Grossi - 24/05/2011


Passato il primo turno delle Amministrative, in attesa dei ballottaggi, sono ricomparsi antichi fantasmi nel mondo politico e giudizi sulla tenuta del governo e del suo monarca assoluto che erano stati per un po’ archiviate. Il tema è noto e tenta di rispondere a una domanda semplice da porre, complicata nella risposta, che tutti gli oppositori si rivolgono vicendevolmente: “Che fare per liberarsi di Berlusconi?”.

La risposta più ovvia e condivisibile è che del Cav. ci si libera per via politica, attraverso la sua sconfitta elettorale e non per via giudiziaria, né tantomeno, come ultimamente si è sentito, con una sorta di bizzarro “golpe democratico” volto al rovesciamento del tiranno.

Le scorciatoie non sono mai state strade stabili e chi le intraprende v’inciampa con facilità o perde l’orientamento.

Anche la dichiarazione: “Berlusconi si batte per via politica” è formula semplice da dichiarare, semplicistica nella formulazione e complessa da praticare.

Anche perché, lo si è visto nei giorni scorsi a Milano dove la sinistra ha cantato vittoria un po’ prematuramente e come diceva mio nonno “sul morto si canta la messa” mai prima, ho quasi l’impressione che puntando tutta la propria giocata su un solo uomo si trascura drammaticamente il contorno che foscamente lo circonda e che ha fatto da brodo primordiale alla sua affermazione.

A invitarci a una riflessione più accurata e contestualizzata del fenomeno, arriva nelle librerie uno scarno saggetto, Che cos’è il berlusconismo, scritto da Rino Genovese e pubblicato da Manifestolibri nella collana Esplorazioni.

Rino Genovese è un ricercatore della Normale di Pisa e questo si riverbera sull’impostazione rigorosa che fa nella ricostruzione storica che costituisce la base portante della sua analisi e il saggio, pur nella sua snellezza, che rende la lettura facile e scorrevole, ha un corpo pesante che dà spessore alla trattazione e la rende densa di riferimenti puntuali, concatenati temporalmente e da cui zampillano le valutazioni dell’autore che sono interessanti, anche se non costituiscono una novità.

Quello che di buono è presente nella ricostruzione del fenomeno berlusconiano, e che fa da premessa, non si ritrova purtroppo nelle conclusioni, in cui è indicata una possibile risoluzione al problema, che sono invece deludenti e datate oltremisura.

La lettura del saggio è, per certi aspetti, deprimente e smorza tutti i facili entusiasmi di quelli che credono che, morto (politicamente) Berlusconi, l’Italia, liberata dal suo macigno, d’improvviso si rialzerebbe come miracolata.

La verità, ben più crudele, è che tutti quelli che vogliono battere politicamente Berlusconi saranno costretti a fare i conti con il berlusconismo.

L’autore parte dalla sua tesi di fondo che suona così “il berlusconismo è un fenomeno che solo in maniera accidentale trae la sua denominazione da un personaggio chiamato Berlusconi; in realtà è la specie di un genere più ampio che si chiama deformazione della democrazia”.

La democrazia rappresentativa è una democrazia formale, la sua sostanza è di avere una forma, l’insieme delle regole e delle procedure storicamente sedimentate in una figura mai del tutto chiusa. Questa figura può essere deformata in misura minore o maggiore fino a essere completamente irriconoscibile.

Questa deformazione storicamente affonda le sue radici in una democrazia bloccata, i cui ultimi epigoni sono rappresentati dal famigerato Caf e dal suo patto scellerato e spartitorio, ma che passa dalla DC del dopoguerra e che trova rispondenze nella politica italiana dei primi del novecento e nella storia della Repubblica.

È su questa democrazia bloccata e immobile che trascura ogni forma di cambiamento o che sceglie strade di ammodernamento che sono più di facciata che di sostanza che s’innesta da ultimo il craxismo e fa la sua comparsa, come suo fiancheggiatore, l’imprenditore Berlusconi e della sua Fininvest che è da subito un’impresa politica oltre che economica. In maniera ancora non esplicita e che si espliciterà solo dopo la caduta di Craxi.

Rino Genovese traccia il percorso storico di quelli che costituiscono i fondamenti del suo potere: il populismo e il bonapartismo che s’intrecciano tra loro e che fanno da base al suo consenso.

È in questa parte del saggio che l’autore si esprime nella forma più lucida ricostruendo, con esempi calzanti e incalzanti che vanno da Bonaparte a Peron, la base del potere berlusconiano e di conseguenza la forza che lui stesso esercita sul suo elettorato.

L’interesse risiede nella descrizione dell’evoluzione sia del populismo sia del bonapartismo che, complice la forza del potere mediatico veicolato dalle sue televisioni, si trasforma rispetto alle forme del passato per diventare qualcosa di diverso e potenzialmente più pericoloso.

Il populismo di vecchio stampo si basava sul potere carismatico del capo, in diretto contatto con il suo popolo e sua diretta emanazione, ma si alimentava di un carisma reale e non posticcio. La propaganda mediatica televisiva svuota il carisma personale riconvertendolo nella sua inversione. Il capo carismatico non è più emanazione diretta popolare ma è semmai il popolo che, plasmato nella sua antropologia, dagli impulsi della propaganda, diventa emanazione del suo capo.

In entrambe le forme di populismo, quello antico e quello di nuova fattura, esiste una mutua osmosi tra popolo e il suo capo ma la gerarchia si polarizza, nella sua nuova forma, tanto da drammatizzare il concetto, già presente ma mitigato in quello del passato, di estinzione. Oggi, molto più di prima, morto il capo, il popolo non è più in grado di generarne dalle sue viscere feconde, uno nuovo. Di conseguenza il potere populista non si basa più sul mandato diretto popolare ma sulla sua inversione.

Quest’angosciosa consapevolezza inconsapevole si salda poi alla trasformazione del bonapartismo, anche questa resa possibile dalla potenza di fuoco televisiva. Il bonapartismo antico poggiava la sua legittimità sulle qualità, vere o presunte, del duce. In quello moderno, attraverso il messaggio televisivo, il duce, ridotto a uomo qualunque, perde queste caratteristiche e costruisce una vicinanza ancora più salda con il popolo ma in maniera molto più ambigua, istillando in tutti quelli che se ne fanno convincere l’idea che tutti possono esserlo.

È su questo doppio binario, populismo invertito e bonapartismo dell’uomo senza qualità, all’interno di una democrazia bloccata e solo gattopardescamente ammodernata, che «viene a configurarsi non più un blocco sociale secondo la vecchia terminologia marxista: piuttosto un blocco antropologico (nel senso dell’antropologia culturale)» che rappresenta poi in definitiva il vasto elettorato intriso di berlusconismo, inteso non più e non solo come elettorato ancorato al Berlusconi persona ma come un riferimento ideale che può reggersi in piedi anche se privato della sua figura di riferimento.

Elettorato che in virtù della trasformazione del populismo e del bonapartismo, da un lato si avvinghia con ancor più forza al suo capo e dall’altro, in virtù di un’angosciante mancanza di certezza, può dar vita a forme politiche ancor più pericolose.

Un blocco grigio presente nella nostra storia patria che permane, trasformato, ma con le stesse caratteristiche.

«Un berlusconismo senza il personaggio da cui prende il nome è perfettamente immaginabile e sarebbe ancora berlusconismo a tutti gli effetti. Il sistema è infatti radicato nel profondo della vicenda nazionale, e si può prevedere che lascerà un’eredità pesante».

È per questo, ci dice Genovese, che la facile scorciatoia di far fuori Berlusconi è perdente. Quello che bisognerebbe fare è prosciugare quel vasto acquitrino che si è andato formando intorno a lui e che può sopravvivergli con esiti ancora più devastanti di quelli che il presente ci regala.

Facile a dirsi, verrebbe da dire, e soprattutto questa strada assomiglia a un percorso di lungo periodo dagli esiti non scontati.

Ed è qui che la pregevole analisi di Genovese s’incaglia in un utopismo che appare un po’ troppo scollegato dalla realtà e dalle reali possibilità degli oppositori.

Così come appaiono assolutamente irrealistiche e incrostate da un veteromarxismo deleterio, le conclusioni finali che a questo irrealismo si raccordano.

Per superare questa democrazia deformata, che fa dell’immobilismo il suo punto di forza, bisognerebbe ridar vigore allo scontro sociale, a una contrapposizione di classe che innescherebbe un movimento virtuoso teso a imprimere un’accelerazione a una società bloccata ma che, con buona pace dell’autore, non appare più così segmentata come lui ipotizza, dopo l’affermazione, credo non confutabile, di un vasto ceto medio spalmato un po’ su tutto che è l’esplicitazione di quell’onda liquida unificante del pensiero unico, emanazione del mercato unico.

E infine per superare questa democrazia deformata, vista l’impossibilità di smembrare l’impero economico-mediatico di Berlusconi con una legge dello Stato (constatata la mancanza di uno Stato), «si dovrebbe pensare all’azione di entità statali sovranazionali» attraverso «il trasferimento di sovranità dai piccoli Stati resi impotenti a organismi statali di controllo più grandi e autorevoli, basati sul suffragio universale».

Chiude l’autore così «chi non si pone il problema di una rimodulazione della sovranità dello Stato-nazione, pur nel suo tendenziale superamento, di fatto non può porsi neanche il problema del superamento della democrazia deformata italiana e della triste storia che le sta alle spalle».

E onestamente barattare la scorciatoia che fa dell’Uomo della Provvidenza la soluzione, con la scorciatoia di un’entità trascendente e provvidenziale pronta a mutuare uno stato nazionale inadempiente mi sembra un’autentica bischerata.

Così come riproporre la lotta di classe come panacea dei nostri mali.

Si pone però, finita la lettura, la desolante domanda: “E allora che fare?”.

Si accettano proposte!