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È giusto applaudire ai funerali?

di Francesco Lamendola - 03/06/2011





Pare che la moda - una moda tutta nostrana, peraltro, perché nel resto d’Europa non esiste - sia scoppiata ai funerali di Anna Magnani, il 26 settembre del 1973.
E pare che si tratti di una data abbastanza certa e precisa: perché solo in aprile di quell’anno lo scrittore Vittorio G. Rosi aveva pubblicato un memorabile articolo sullo scadimento del sacro, comprese le esequie cattoliche, ma degli applausi al momento delle esequie non ne aveva ancora parlato: cosa che avrebbe sicuramente fatto, se già il fenomeno avesse preso piede in misura apprezzabile.
Quello che è certo, è che la moda di applaudire il caro estinto ha toccato l’acme nell’anno di grazia 1978: prima con i funerali di Aldo Moro, poi con quelli di Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani.
La giornalista Anna Belfiori osservò che, se applaudire ai funerali di una persona di spettacolo è semplicemente un segno di cattivo gusto, applaudire ai funerali di un uomo politico trucidato dai terroristi è lo sfogo liberatorio di una folla che non vuole fare lo sforzo di pensare, mentre applaudire ai funerali di un pontefice è un gesto d’incomparabile volgarità, anzi, peggio, di dissacrazione, nel senso letterale della parola.
Dopo di che, ci abbiamo fatto sempre più l’abitudine; e si può dire che l’applauso ai funerali sia diventato praticamente la regola, magari con la coreografia dei palloncini colorati che salgono al cielo: come nel caso, recentissimo, della povera Melania Rea, morta ammazzata nei boschi, fra un marito a dir poco distratto ed una opinione pubblica, sobillata dai media, sempre più sbavante di malsana curiosità.
Forse, però, bisognerebbe correggere questa affermazione: non è vero che gli applausi ai funerali siano diventati la regola; piuttosto, si dovrebbe dire che gli applausi sono diventati la regola nei funerali che hanno una risonanza mediatica, nei quali - cioè - sono presenti le telecamere e le macchine fotografiche dei giornalisti.
Ecco, questa è la verità.
Nei funerali normali non si applaude; a noi, almeno, non è mai capitato di assistere ad una cosa del genere.
Diciamo pure che, se qualcuno si sognasse, chissà come, di accennare un batter di mani ad un funerale comune, una occhiata fulminante e un gelido silenzio da parte dei parenti del defunto sarebbero più che sufficienti a zittirlo istantaneamente.
Ci è capitato di andare a diversi funerali, in questi ultimi anni; funerali di parenti, di amici; funerali di uomini e donne comuni: e mai, assolutamente mai, qualcuno si è sognato anche soltanto di accennare un applauso.
Sarebbe stato un gesto semplicemente inconcepibile, assurdo, alieno: crediamo che non sarebbe venuto in mente neppure al più irriverente, al più barbaro dei presenti.
E poi, applaudire chi, applaudire cosa, applaudire perché?
Vediamo.
Applaudire il morto?
Ma il morto non si applaude: lo si piange, perché si avverte dolorosamente la sua partenza, la sua separazione da noi.
Anche se si pensa che lui sia andato in un luogo migliore (e diciamo “luogo” per convenzione, si capisce), non c’è proprio niente da applaudire; c’è solo un grande senso di vuoto, che produce in noi, che restiamo, una profonda malinconia, anzi, una lacerazione, una mutilazione.
Avvertiamo, più o meno confusamente, che è come se se ne fosse andata una parte di noi stessi, e forse proprio la nostra parte migliore.
Applaudire la morte, allora?
Peggio ancora: la morte non si applaude, si accoglie in silenzio; davanti alla sua quiete solenne, per dirla col Manzoni, l’unico atteggiamento adeguato è quello del silenzio, del silenzio pensoso e rispettoso.
Ma insomma: chi stiamo applaudendo, allorché battiamo le mani nel corso delle esequie funebri di un parente, di un amico, di un personaggio cui siamo stati legati da un qualche tipo di sentimento (perché non si va ai funerali degli sconosciuti: il funerale è una cosa intima, come può esserlo soltanto una bella e profonda amicizia)?
Stiamo applaudendo lui che se n’è andato, oppure stiamo cercando di fare coraggio a noi stessi, peraltro in maniera cafona e scomposta?
E poi, perché applaudire? Per dire al morto che è stato bravo, che gli vogliamo bene, che ha recitato discretamente la sua pare nella commedia della vita?
Gli applausi sono la manifestazione dell’approvazione che il pubblico riserva a uno spettacolo: a un concerto ben riuscito, a una prestazione sportiva di buon livello, alla presentazione di una manifestazione artistica o letteraria, alla premiazione del lavoro di un collega nel contesto di un simposio scientifico.
È l’esternazione, rumorosa ed emotiva, di una partecipazione, di una simpatia, di un apprezzamento, di un entusiasmo per qualcosa o per qualcuno: per una cantante lirica che tiene a lungo la nota con perfetta intonazione; per un torero (discutibilissima professione) che gioca con la muleta fra le corna del toro; per un atleta che sale sul podio del vincitore, agitando la coppa verso i suoi tifosi, magari tra generosi e allegri spruzzi di champagne (come al termine delle corse ciclistiche e motociclistiche).
Che c’entra tutto questo con la morte?
La morte è un grande mistero; la morte esige silenzio, raccoglimento, riflessione.
Davanti alla morte non c’è nulla che giustifichi il chiasso: bisogna avere un animo ben volgare per pensare che la si possa salutare come si fa all’ingresso dei calciatori nello stadio, o a quello dei cantanti rock in qualche megaconcerto all’aperto.
Possibile che non si riesca a vedere la differenza fra uno spettacolo profano e il solenne mistero della morte, che interpella le profondità della nostra anima?
Il problema fondamentale della società occidentale moderna, nella quale viviamo - pur se talvolta ne critichiamo questo o quell’aspetto - è il suo smarrimento del senso della morte; o, per meglio dire, la sua rimozione testarda, sistematica, nevrotica, dell’idea del nostro morire.
Non c’è la morte in astratto, ma c’è la nostra morte o la morte di quanti ci corrispondevano; e anche queste sono due cose diverse tra loro, che tendiamo però a confondere.
Della nostra morte, a rigore, non possiamo dire nulla: come affermava Epicuro, finché noi ci siamo, lei non c’è; mentre, viceversa, quando lei arriverà, noi non ci saremo più.
Quello che crediamo di sapere a proposito della nostra morte deriva da quel che crediamo di sapere della morte degli altri: ma anche di quest’ultima, a ben guardare, non possiamo certo dire di sapere un gran che.
Della morte degli altri, noi possiamo dire soltanto che, sul piano fisico dell’esistenza, essa comporta una separazione, un distacco e, quindi, una assenza; deduciamo che è sopraggiunta la morte dal fatto che il defunto non è più fisicamente accanto a noi.
E poiché la civiltà moderna, imbevuta di materialismo, meccanicismo e riduzionismo, non vede al di là del piano fisico dell’esistenza, arbitrariamente ne deduciamo che la morte è assenza, in assoluto.
Ma la nostra stessa morte?
Sappiamo solo che arriverà certamente, prima o dopo; non sappiamo come né quando, ma sappiamo che non le sfuggiremo.
Ora, se la morte è assenza, che tipo di assenza sarà la nostra morte?
Sarà assenza solo rispetto agli altri, così come la loro morte è assenza per noi; o sarà assenza anche rispetto a noi medesimi?
In altri termini: scompariremo nel nulla, completamente e irrevocabilmente, obliando noi a noi stessi?      
In base al pregiudizio materialista, sì. Poiché sappiamo che il corpo si dissolve e scompare, ne deduciamo che il nostro essere sarà ingoiato dal niente: e, più o meno terrorizzati da una simile prospettiva, non ci prendiamo neppure la briga di notare che ciò è una contraddizione in termini, una impossibilità logica: infatti, come può non essere, l’essere?
Eppure, è proprio sulla base di quel pregiudizio, di quello spavento e di quella contraddizione logica, che noi abbiamo deciso che la morte è un argomento troppo sgradevole da sopportare, e ci diamo un gran da fare per rimuoverne il pensiero, e persino le immagini, da ogni aspetto della nostra vita, particolarmente da ciò che potrebbe alludere alla nostra morte.
Siamo arrivati al punto che non la vediamo più: si muore negli ospedali, lontano da casa e dalle persone care.
Non siamo noi a lavare e vestire il cadavere, non siamo noi a occuparci materialmente della sepoltura: per espletare queste azioni, ci rivolgiamo a degli estranei, a delle agenzie specializzate, che lavorano a pagamento.
Negli annunci funebri, non diciamo più: «è morto», espressione troppo cruda e definitiva per i nostri animi sensibili; preferiamo adoperare delle caute perifrasi, che ammantano la netta realtà del morire di un alone indeterminato e quasi possibilista.
Ma lo facciamo, in genere, con perfetta cattiva coscienza, perché ci siamo lasciati alle spalle il paradigma olistico del passato, secondo il quale tutto è correlato e, quindi, nulla scompare (e nulla emerge dal niente) per affidarci a un paradigma scientista, che ci lascia soli e spaventati davanti al mistero della morte.
Ecco, l’abbiamo detto: la morte è un mistero;.
In ogni caso, essa è una “crisi”, un passaggio, una trasformazione; quello che c’era prima, dopo la morte non c’è più; o, almeno, non c’è più alla stessa maniera di un tempo; forse, ora, c’è qualcosa di nuovo e di diverso, qualcosa che non si può percepire con i sensi ordinari.
Per cui ci restano solo due strade possibili da percorrere: o quella d’imparare a sviluppare i sensi ulteriori, i sensi “altri”; oppure quella di rassegnarci al canonico e sconsolato: «ignoramus et ignorabimus».
Nell’un caso come nell’altro: che c’entrano gli applausi?
Se non sappiamo, l’applauso è fuori luogo.
Se, invece, ammettiamo la possibilità di una diversa forma di sopravvivenza, esso è blasfemo, perché l’anima del defunto, disorientata dalla radicale trasformazione che è si è prodotta nel suo modo di essere, di tutto ha bisogno, tranne che di un batter di mani .
Non di applausi, essa avrebbe specialmente bisogno; ma di preghiere e di pensieri amorevoli da parte dei vivi.
Se, poi, l’applauso durante i funerali non nasce da particolari sentimenti di commozione nei confronti del defunto, ma da un bisogno dei vivi di esorcizzare la propria paura della morte: ebbene, allora esso è ancora più sbagliato, perché fa sì che vada sprecata una delle pochissime occasioni che sono rimaste, nella società moderna, per riflettere seriamente sul significato della vita umana.
Il significato della vita non lo si trova nella vita stessa, ma nella morte: è nella morte che le cose diventano chiare una volte per tutte - oppure precipitano nel buio del nulla eterno.
Non per nulla Platone affermava, nel «Fedone», che l’esercizio della filosofia altro non è se non una costante preparazione dell’anima alla morte.
Vogliamo arrivare del tutto impreparati davanti ad un passo di tale importanza?
Se è così, continuiamo ad allontanare scrupolosamente le immagini della morte dalla nostra vista; seguitiamo a ridurre al minimo i nostro contatti con i morenti (al punto di interrompere i rapporti con le vedove e gli orfani, perché la loro vista e la loro conversazione ci ricorderebbero l’amico defunto); e andiamo avanti con gli applausi ai funerali, quasi per riempire di rumore il silenzio che tanto ci spaventa, il silenzio del cimitero.
E che Dio ci aiuti, quando verrà la nostra ora…