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La Nato che uccide in Afganistan

di Alessandro Cisilin - 03/06/2011



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Le scuse suonano accalorate. “Non c’è prezzo per la vita umana – spiega John Toolan, comandante delle forze dell’Isaf per il Sud-Ovest dell’Afganistan – assisteremo le famiglie coinvolte nel modo che più si adatta alla cultura afgana”. L’Alleanza Atlantica è costretta per l'ennesima volta a riconoscere di aver causato vittime civili con i propri bombardamenti. Una catena di incidenti che segue il ritmo della prassi, sebbene la Nato ribadisca anche stavolta il proposito di evitarli quale “top priority”. Durissima, di nuovo, la presa di posizione del presidente Karzai che parla di “raid che sgretolano ogni valore umano e morale” e lancia l’ennesimo “ultimatum” alle forze straniere.

Le parole dello stesso generale newyorchese, del resto, non sembrano fare piena chiarezza sull’accaduto. Ammette la morte solo di 9 civili (“pensavamo fossero talebani”) nell’ambito dell’offensiva di sabato scorso sul distretto di Nawzad, nella provincia meridionale di Helmand, mentre le autorità locali ne denunciano 14, ossia 12 bambini e 2 donne.

 

E inoltre insiste a “non confermare” l’esistenza di vittime innocenti in un altro attacco aereo di qualche giorno prima sul centro di Doab, nel distretto occidentale del Nuristan. “Indagheremo”, promette l’Isaf, ma le autorità afgane lo hanno già fatto, conteggiando il decesso di 20 civili, 22 poliziotti oltre a una settantina di talebani.

Stragi che si sommano a un bilancio complessivo agghiacciante. La Nato riconosce di aver ucciso oltre 300 civili solo negli ultimi due anni. Ma l’Onu ne calcola il triplo, e l’Alleanza non obietta, ammettendo che i propri dati si basano generalmente su accertamenti immediati, spesso senza neppure riscontri ospedalieri. Le più estese cifre delle Nazioni Unite vengono poi raddoppiate da agenzie americane indipendenti, in quanto considerano anche le vittime delle “crisi umanitarie” seguite agli scontri.

Un quadro drammatico, dunque, che non viene certo alleviato dal fatto che i dati dell’ultimo anno documentano un lieve calo, e men che meno dal fatto che aumentano invece quelle sui civili uccisi dai talebani. Ed è il quadro di un disastro bellico. Dopo dieci anni di occupazione – la più lunga guerra nella storia degli Stati Uniti e non solo – e un dispiegamento di 150mila militari – per centinaia di milioni di euro – le forze dell’Isaf non controllano quasi nulla sul territorio afgano. Entrambe le aree delle ultime stragi hanno una storia eloquente. Quella dell’“offensiva di larga scala” lanciata l’anno scorso, seguita da un sempre più palese ritiro. Gli americani hanno da mesi rinunciato alla guerra “casa per casa”, abbandonando (ai talebani, di fatto) le poche terre conquistate e limitandosi a presidiare gli avamposti. Un presidio dal quale uscire perlopiù quando attaccati, e con l’arma dei bombardamenti a tappeto, che per definizione non risparmiano nessuno. Rimane da capire a che servano ora quegli avamposti. Bin Laden non c’è più, Al Qa’ida in Afganistan, secondo la Nato, neppure.