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Uno sguardo diverso e responsabile sullo sviluppo

di Annalisa Terranova - 06/06/2011



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Tra le tante verbose analisi sull'esito dei ballottaggi del 29 maggio quella di Massimo Gramellini sulla Stampa ha toccato un tasto inedito, ventilando l'ipotesi - a nostro avviso corretta - che siamo nel pieno di una rivoluzione culturale: «In Italia sono finiti gli Anni Ottanta». Che non furono solo riflusso e individualismo ma anche inserimento nel pantheon dei valori di un "egoismo vitale" che oltre a seppellire l'utopia ambientalista e a produrre un consumismo sempre più sofisticato ha declinato in modo egoistico, anche in politica, la meta del benessere. Invece «il consumismo si è rivelato un sogno avvelenato. Lasciato ai propri impulsi selvaggi, ha arricchito pochi privilegiati ma sta impoverendo tutti gli altri: e un consumismo senza consumatori è prima o poi destinato a implodere. Il cuore del mondo ha cominciato a battere altrove, la sobrietà e l'ambientalismo a sussurrare nuove parole d'ordine». Eppure in Italia siamo rimasti aggrappati al mito del rampantismo, dell'ottimismo, della narrazione autorassicurante come arma per vincere la sfida contro la crisi globale. Qualcosa si è rotto. Il meccanismo ha ceduto. Citiamo in questa sede l'analisi di Gramellini perché anche in Italia, oltre che nel resto d'Europa, il tema dell'ambiente - nel più complesso quadro di ciò che chiamiamo qualità della vita, cura del paesaggio, anelito alla bellezza nella costruzione/ricostruzione delle città - sta rivestendo un'importanza crescente e saranno i referendum del 12 giugno (uno dei quesiti riguarda il bene primario dell'acqua e un altro il tasto dolente del nucleare) il vero test per comprendere sia quanto siamo fuori dai miti degli anni Ottanta sia quanto sia profonda la domanda di un neo-naturalismo che percorre la società. Anche il dibattito sul nucleare, riaperto inaspettatamente dal disastro di Fukushima, rappresenta un ulteriore tassello di una riscoperta di bisogni primari: non solo quello della sicurezza e della salute ma ancor più quello di un equilibrio tra società organizzate e ambiente naturale. Poche settimane fa su Sette, il magazine del Corriere, una ricerca evidenziava che sono soprattutto le fasce govani quelle più attente alla sostenibilità degli stili di vita. L'impatto delle nostre abitudini sull'ambiente interessa, in ogni caso, il 50,9% degli italiani mentre solo il 12,7% si dichiara ostile all'argomento.
Il dibattito riguarda da vicino anche il mondo della destra italiana, che in modo troppo approssimativo viene collegato, con un'eccessiva dose di schematismo, al liberalismo tecnicista. Che vi sia a destra un'anima "verde" che viene da lontano non è dimostrato solo dalle suggestioni ecologiste dei giovani missini degli anni Ottanta ma è una constatazione suffragata da interessanti ricerche storiografiche. In un recente studio di Ivan Buttignon, Il verde e il nero, (Hobby & Work, pp. 260, € 16,50) l'autore si occupa di quei fascisti "irregolari" che durante il Ventennio, attraverso la rivista Il Selvaggio, anticiparono l'ambientalismo auspicando da un lato il recupero delle tradizioni popolari e dall'altro propagandando un eco-ruralismo che si legava al mito del fascismo diciannovista, fatto di irruenza giovanile, movimentismo, intransigenza. Mino Maccari è dipinto come il portabandiera del movimento di Strapaese: «Essere strapaesani - scrive Buttignon - significa essere fedeli alla propria terra, al proprio ambiente naturale e antropico, alle proprie tradizioni, da conservare e tutelare contro le insidie annichilitrici dell'industrializzazione». Di più: il ruralismo italiano era l'arma agitata contro l'America corruttrice, la tradizione da opporre al modernismo cosmopolita. Era un'anima del fascismo, ma di un fascismo di sinistra per le sue venature anticapitaliste. Buttignon presenta Maccari come rappresentante del fascismo diciannovista che si caratterizza per alcune peculiarità «a partire dai forti accenti tradizionalisti , popolari, cattolici, antiborghesi, antiamericani, antidealisti e antimodernisti. In lui, a conti fatti, ritroviamo il fascismo che ripudia le mode dei pennacchi e degli orbaci, che gaurda ai contadini e al lavoro manuale, artigiano e artistico; che si oppone a industrialismo e urbanizzazione, che abbozza, con una buona dose di lungimirante consapevolezza, molti dei temi del futuro pensiero ambientalista, senza dimenticare il recupero e la valorizzazione dei retaggi locali».
Certo sarebbe azzardato ricollegare solo a questo filone l'ambientalismo che ha fatto breccia nei giovani missini negli anni Settanta e Ottanta ma, tra tanti dibattiti sull'identità perduta e da ricostruire, è bene che alcune coordinate vengano tracciate.
Del resto negli scritti dell'unico vero filosofo vivente ascrivibile alla destra, il francese Alain de Benoist, abbondano le citazioni del teorico della decrescita Serge Latouche, cui fa riferimento più volte nel libro Comunità e decrescita (Arianna, pp. 220, € 12,95) sottolineando che le preoccupazioni ecologiche, affidate al singolo, producono effetti molto marginali mentre ci sarebbe bisogno di un'inversione di tendenza che parta dal semplice principio secondo cui «non si può indefinitamente consumare un capitale non riproducibile».
L'ultimo libro di Serge Latouche, scritto con il collega Didier Harpagés, è da poco in libreria e si chiama Il tempo della decrescita (Eleuthera, pp. 109, € 10). Ancora una volta l'economista spiega che non si tratta di riesumare forme di neoluddismo o di frenare lo sviluppo ma - come ha spiegato al Venerdì di Repubblica - semplicemente di rivalutare la "sobrietà". «Non si tratta di produrre e consumare meno, ma meglio». L'obiettivo, dunque, «è quello spezzare automatismi e riti del consumo, reinventare il quotidiano, buttare al secchio le tecno-idolatrie, riappropriarsi del tempo, frenare il prestissimo dell'innovazione fine a se stessa, quella che ci ingorga la vita di merci». Per i seguaci di Latouche la parola d'ordine è «rallentare» per spezzare il circuito dell'obsolescenza programmata che è alla base del consumo indotto. Ma per cambiare stile di vita c'è anche bisogno di ripensare i meccanismi della democrazia portandoli fuori dalla pura meccanica elettorale: «La democrazia - dice Latouche - dovrebbe essere la sede in cui scegliamo che tipo di società e di vita vogliamo».
Il nodo concettuale che si presenta dinanzi alla politica è però il seguente: è possibile conciliare sviluppo e decrescita o non si rischia soltanto di imboccare la strada di uno snobismo intellettualistico valido per poche élites ma in fondo estraneo al sentire comune dei milioni e milioni di "normali" che cambiano cellulare ogni sei mesi?
Alcuni degli obiettivi della decrescita hanno dalla loro parte ormai un gran numero di sostenitori: il commercio di prossimità, la promozione dei prodotti locali al posto di quelli importati, la soppressione dell'agricoltura intensiva e degli imballaggi "usa e getta", l'estensione dei trasporti in comune, la rilocalizzazione dei centri di produzione accanto ai luoghi di consumo, la restituzione agli utenti del controllo su ciò che usano, la progressiva riduzione del volume degli spostamenti di uomini e merci sul pianeta.
Secondo Alain de Benoist la decrescita prima di passare attraverso concrete misure economiche è una sfida che va vinta a livello di "ecologia della mente": impiantare la decrescita, ricorda Latouche, significa «rinunciare all'immaginario economico, ossia alla credenza che più è uguale a meglio». Suggerimenti che si ricollegano in modo diretto e esplicito alla qualità della vita, perché è solo in questo orizzonte, fondato sul sentire collettivo, che una teoria ardita come quella della decrescita può risultare accettabile e condivisa. «Uscire mentalmente da un sistema», dice de Benoist. E gli fa eco Latouche consigliando abitudini e sistemi di relazioni che in fondo sono già largamente riscoperti, e non solo dalle classi più agiate: «L'altruismo dovrebbe prendere il sopravvento sull'egoismo, la cooperazione sulla competizione sfrenata, il piacere del tempo libero sull'ossessione del lavoro, l'importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il gusto dell'opera bella sull'efficienza produttivistica, il ragionevole sul razionale».
Dal piano della mentalità, per de Benoist, si passa a quello più propriamente filosofico: «nell'interrogarsi sul senso della crescita, è evidentemente posta tutta la questione della natura umana, del rapporto dell'uomo con la natura e delle finalità della presenza umana nel mondo. L'ecologia non può dunque esimersi da un'antropologia, che condizioni quello che ci si può attendere da una politica. Alain Caillè non ha torto, da questo punto di vista, quando dice che l'ecologismo non dipende unicamente da argomenti economici e scientifici, ma "investe scelte etiche e metafisiche". Nella stessa misura in cui intende rompere con ogni forma di devastazione della natura e di fuga in avanti nel produttivismo, l'ecologismo - continua de Benoist - implica una rottura radicale con l'ideologia dei Lumi...». Ciò non vuol dire altro che la biosfera non può più essere considerata come uno strumento per assicurare la "felicità" dell'umanità.
Tuttavia i teorici della decrescita restano senza risposta dinanzi all'interrogativo di fondo che una società democratica non può non porsi. È possibile indurre alla semplicità volontaria senza attentare alle libertà? La conversione alla frugalità può essere imposta o non dev'essere piuttosto il risultato di una buona opera di persuasione? A questo proposito lo stesso Latouche cita un testo di Kate Soper da cui si evince che uno sguardo diverso al consumo non ci fa fare passi indietro sulla via del benessere ma è anzi destinato ad aumentarlo: «Il consumo moderno non si interessa abbastanza dell'esperienza dei sensi... in buona parte i beni considerati essenziali per un livello di vita elevata sono più anestetizzanti che favorevoli all'esperienza sensoriale, più avari che generosi in materia di convivialità, di relazioni di buon vicinato, di vita non stressata, di profumo e di bellezza ... Un consumo ecologico non implicherebbe né una riduzione del livello di vita né una conversione di massa verso l'extra-mondanità, bensì una concezione differente dello stesso livello di vita». In pratica il consumo responsabile non ci trasformerebbe in eco-catastrofisti ma in esseri umani forse più partecipi della rivoluzione della bellezza nel senso spiegato da Albert Camus: «La bellezza senza dubbio non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei. Mantenendo la bellezza prepariamo quel giorno di rinascita in cui la civiltà metterà al centro delle sue riflessioni quella virtù viva che fonda la comune dignità del mondo e dell'uomo, e che dobbiamo ora definire di fronte a un mondo che la insulta».
Annalisa Terranova