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Quel McLuhan antimoderno

di Carlo Formenti - 06/06/2011

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Douglas Coupland reinterpreta il teorico del villaggio globale. Il centenario della nascita si celebrerà ufficialmente il 21 luglio prossimo, ma Marshall McLuhan è già al centro della scena da mesi, grazie al tambureggiare di convegni e seminari accademici, accompagnato da non meno fitte iniziative editoriali (saggi, biografie, articoli di riviste e giornali).
Perché tanta attenzione nei confronti di un autore che, fino a pochi anni fa, era stato relegato nello scaffale dei «classici» , cimitero di autori geniali quanto inattuali? Merito di Internet: la fulminea rapidità con cui la Rete ha ibridato mezzi di comunicazione, linguaggi, culture e idee in una trama mondiale di scambi «in tempo reale» ha restituito lustro allo slogan del «villaggio globale» , la più nota — e più banalizzata — profezia delmediologo canadese. E, con la «riscoperta» di McLuhan, si ripropone il dilemma sul reale significato della sua eredità: critica radicale o entusiastica celebrazione del mondo rivoluzionato dalle tecnologie di comunicazione? Ha ragione chi, come Alberto Abruzzese, vede in lui il profeta/precursore di un gioioso superamento della cultura alfabetica oppure chi, come Nicholas Carr, legge lo slogan «il medium è il messaggio» — non meno banalizzato del «villaggio globale» — come annuncio dei danni devastanti che Internet, dopo la tv, avrebbe inferto al cervello umano? Il bello è che— a causa della costituiva ambiguità del pensiero di McLuhan — rischiano di avere ragione entrambi. I lettori interessati ne troveranno conferma nella biografia che Douglas Coupland, lo scrittore canadese autore del bestseller Generazione X, ha appena dedicato a McLuhan (Marshall McLuhan, in libreria il prossimo 16 giugno per i tipi di Isbn). Il lavoro di Coupland farà arricciare il naso agli accademici, visto che, invece di procedere a una esposizione sistematica della vita e del pensiero del mediologo, si presenta come una sorta di frenetico montaggio (con ritmi da zapping letterario) di riflessioni, immagini, episodi e suggestioni, in cui si mischiano perfino estratti dai romanzi di Coupland, pagine di Wikipedia, schede di libri riprodotte dal sito di Amazon, nonché interminabili successioni di anagrammi su alcune parole chiave. Del resto Coupland rivendica come congeniale al gusto mcluhaniano per la contaminazione fra cultura alta e cultura pop questo singolare metodo; e spiega in varie occasioni di avere messo al centro della propria attenzione il McLuhan «artista» (con il quale evidentemente si identifica), autore di testi più vicini alla narrativa sperimentale che alla saggistica. Ad onta di — o forse grazie a — questa peculiare scelta espositiva, il testo di Coupland disegna un quadro efficace e credibile del personaggio e delle ragioni profonde della sua mitica «incomprensibilità» , che ha alimentato interpretazioni divergenti come quelle cui accennavo poco sopra. La tesi di Coupland è radicale: McLuhan era un antimoderno che odiava profondamente l’era elettronica e ne paventava gli effetti sul corpo e sulla mente umani ma che, al tempo stesso, subiva una fascinazione e nutriva una curiosità profonde nei confronti della tecnologia. Questo atteggiamento contraddittorio era il frutto di svariate cause: dal tormentato rapporto con una madre persecutoria, ambiziosa e dominatrice, al profondo sentimento religioso (dopo la conversione al cattolicesimo andava a messa e recitava il rosario ogni giorno); da una psicologia al limite dell’autismo (non ascoltava gli altri, immaginava complotti ai propri danni, parlava inseguendo le associazioni mentali senza curarsi di essere capito), all’atteggiamento conservatore e radicalmente antipolitico, che lo induceva a curarsi degli individui più che della società e delle sue relazioni di potere. Perché quest’uomo complicato e problematico — adorato dagli studenti per la brillantezza delle sue lezioni e odiato dai colleghi perché saccente, pedante e aggressivo— dopo aver dedicato decenni allo studio della letteratura inglese si è lasciato improvvisamente sedurre dalla sociologia e dall’antropologia dei media (discipline quasi inesistenti prima del suo contributo)? Forse perché in quegli anni (segnati dall’esplosione del medium televisivo fra la fine dei Cinquanta e l’inizio dei Sessanta) l’America è attraversata da una ventata di passione «religiosa» per le tecnologie di comunicazione. Una passione cui uno scrittore come Philip Dick diede forma letteraria, mentre McLuhan ne fece il centro della propria riflessione teorica — riflessione che, secondo Coupland, resta totalmente dominata dalla prospettiva religiosa: McLuhan può occuparsi con distacco degli «orrori» provocati dai media elettronici perché guarda al presente con il distacco di chi ha fede nell’eternità e, dando per perso il presente, cerca segni di speranza in un futuro che, paradossalmente, potrebbe nascere dalla stessa apocalisse tecnologica. Non a caso, come ha scritto Stefano Cristante in un recente articolo apparso sulla rivista «aut aut» , i l pensiero di McLuhan è tributario della visione mistica di Teilhard de Chardin, il teologo gesuita che profetizzava la nascita di una coscienza collettiva dell’umanità unificata dai media. Quando parla di ritorno all’oralità, al tribale, McLuhan non esalta il presente, ma crede di intravedere l’inizio di un cammino verso un futuro che potrebbe restituire all’umanità l’innocenza perduta: «Guardiamo il presente in uno specchietto retrovisore. Arretriamo nel futuro» . La citazione è di Coupland, c h e p o i d e f i n i S c e McLuhan «un portatore illogico e antiquato di idee nuove» . La definizione calzerebbe a pennello anche per le visioni fantascientifiche di Dick, spaventato dall’orrore del presente tecnologico quanto affascinato da un futuro in cui tutto potrebbe ritrovare senso grazie alla fusione fra divinità, uomini e macchine. Ma calzerebbe anche per Coupland, convinto che Internet stia per avverare le speranze di McLuhan, il conservatore antitecnologico che aveva «visto» le meraviglie della Rete con decenni di anticipo.