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Come si esce dalla società dei consumi

di Mario Grossi - 07/06/2011


Con una testardaggine degna di un mulo e una volontà che gli fa sfiorare la paranoia, Serge Latouche ha ormai imboccato a tutta forza la strada monotematica della sua ricerca sulla decrescita, dopo aver sfornato vari saggi sull’argomento.

Vuoi perché il tema continua a essere di estrema attualità, vuoi perché gli editori, quando subodorano l’affare e cavalcano la moda, ci si buttano a capofitto andando a raschiare il barile finchè è possibile, libri di questo genere trovano sempre una strada aperta alla pubblicazione.

È così che Bollati Boringhieri ha stampato, ultimo della serie, un saggio che costituisce, nella sua frammentarietà, una sorta di summa, un’arringa finale (che finale non sarà) e che porta un titolo molto assertivo in linea con lo stile che fa da substrato al suo contenuto, Come si esce dalla società dei consumi e come sottotitolo, per non equivocare, Corsi e percorsi della decrescita.

Il saggio raduna, in vari capitoli, degli articoli che Latouche aveva già pubblicato singolarmente su varie riviste e degli interventi presentati nei suoi molteplici incontri pubblici.

Il tutto sembra frammentario, spesso lo stesso concetto è ripreso e ripetuto da un capitolo all’altro, e questo risulta, per il lettore non aduso all’argomentare dell’autore, un po’ fastidioso, assai meno per chi lo legge ormai da tempo.

Ma una lettura più attenta, e se non si presta soverchia attenzione alle ripetizioni, o meglio, se s’interpretano come una continua sottolineatura dei punti focali del suo ragionare, ci restituisce, come in un Bignami di ottima fattura, tutto il percorso intellettuale dell’autore, le sue passioni, le sue idiosincrasie.

Il capitolo introduttivo è quasi una conclusione in cui, con una serie di esempi presi dalla storia recentissima del Centro Sudamerica, viene indicato un possibile percorso di rinuncia al mondo della crescita, come noi lo conosciamo, e una strada verso differenti forme di vita imperniate sulla decrescita.

E già qui il lettore malizioso potrebbe aver da ridire, sbagliando.

Per quei paesi, solo marginalmente lambiti da una società dei consumi in cui l’imperativo categorico è quello della crescita per la crescita, fare marcia indietro appare assai più facile, rispetto a quelle società ormai intossicate dal verbo unico del consumo come sola forma per il sostentamento produttivo.

La via della decrescita non è via semplice né semplicistica e soprattutto, visto che si batte per uscire da un modello produttivistico totalitario che si fonda sul pensiero unico poc’anzi accennato, non può proporre una soluzione unica, specularmente totalitaria, rispetto al mondo contro cui si batte.

La via della decrescita è molteplice, ogni realtà deve adattare la sua situazione al modello che è lo specchio della società che lo produce. Sembra quasi la riedizione di un principio sacrosanto, cancellato dal modello occidentale fatto di un unico mercato esteso al mondo intero in un unico paese globalizzato: l’autodeterminazione dei popoli che, se condivideranno la necessità di uscire dal modello attuale, dovranno trovare una loro precisa via di fuga verso forme che, solo teoricamente e nella generalizzazione dell’argomentare, possono essere definite di decrescita.

I temi toccati nel saggio sono tutti quelli ormai noti e che costituiscono il corpus del pensiero dell’autore. Hanno un inizio che è esso stesso fonte di grandi contese e disquisizione da parte dei detrattori, dei fiancheggiatori, dei discepoli.

Il punto di partenza è la costatazione, ormai ovvia, che il nostro pianeta, spremuto oltremisura da una crescita che nell’immaginario dei suoi sostenitori più accaniti non può fermarsi ma solo andare avanti crescendo sempre più, è arrivato al capolinea.

E qui le considerazioni divergono.

Da un lato i presunti ottimisti che sostengono che un ulteriore progresso permetterà di utilizzare meglio le risorse residue. Si può quindi placidamente proseguire con il modello di sviluppo attuale che è efficiente, capace di trovare soluzioni, salvifico.

Dall’altro i presunti tiepidi che, pur riconoscendo che un modello di produzione dissennato ci sta portando alla catastrofe, si fanno paladini di una crescita a sviluppo sostenibile, morbido, rispettoso di quello che è rimasto del pianeta, ma altrettanto attenta agli interessi economici di una società che deve comunque produrre ogni anno di più, per garantire a tutti, quei consumi che sono descritti come sinonimo di ricchezza.

Dall’altro ancora coloro, Latouche in testa, che sostengono invece che l’unica via d’uscita sia quella di diradare quest’incantesimo e imboccare, anche se la catastrofe è ineluttabile e per certi aspetti auspicabile come sano choc per far tornare tutti alla ragione, la via della decrescita.

Decrescita che, come molte volte ha ripetuto l’autore, non significa pauperismo, né tantomeno impoverimento della collettività ma una via di ritorno all’umano e a quei legami sociali e conviviali che si fondano su una ragnatela di rapporti e d’ideali che costituivano il tessuto connettivo, ormai perso, delle nostre società.

Uno dei crucci, e in questi articoli l’urlo si alza forte, è che molti non capiscono, nonostante i segnali di pericolo si susseguano con sempre maggiore cadenza, che ci avviciniamo alla fine catastrofica che ci coglierà all’improvviso, anche se lo slittamento è cominciato da molto tempo.

Per fare questo l’autore ricorre a un esempio che nella sua lapalissiana morale è indicativo.

«Si potrebbe raccontare il destino della nostra società parafrasando una favola di Lafontaine: “Un giorno in uno stagno arrivò l’alga verde, la quale crebbe e tutto soffocò…”. La cosa è successa più o meno verso il 1950. L’uso eccessivo di concimi chimici da parte degli agricoltori costieri incoraggia la piccola alga a insediarsi in un grande stagno. Anche se la sua crescita annua è rapida, con una progressione geometrica di ragione 2, nessuno se ne preoccupa. In effetti, se il raddoppio è annuale e la superficie totale sarà coperta in trent’anni, al ventiquattresimo anno sarà coperto soltanto il 3% dello stagno. Probabilmente ci si comincerà a preoccupare quando l’alga ha invaso la metà della superficie, perché a quel punto si profila una minaccia di eutrofizzazione, cioè di asfissia della vita subacquea. Ma se all’alga ci sono voluti diversi decenni per arrivare a quel punto, ora le basterà un solo anno per provocare la morte irrimediabile dell’ecosistema lacustre».

È da questa tragica considerazione che nasce l’urgenza incalzante dell’autore nel proporre, nel resto del saggio, tutti i passaggi che condurrebbero alla via della decrescita.

A partire da quella che è un’idea cardine di Latouche: la “decolonizzazione dell’immaginario”. Un processo lungo e difficoltoso teso a liberare le menti di tutti noi dalle tossine ideologiche della crescita, propinate in dose massicce da quello che definisce, a ragione, il totalitarismo produttivista. È questa la prima e imprescindibile battaglia che va intrapresa e vinta se si vuole uscire dal modello distruttivo in cui siamo immersi. Solo decolonizzando l’immaginario da tutti i falsi miti e bisogni indotti si può uscire da quel pensiero economicista e predatorio, volto solo all’utile e al profitto.

Per poter far questo è necessario un nuovo insegnamento che non può passare per le scuole e per l’indottrinamento impartito ai nostri giorni, visto come strumento di perpetuazione di una forma di capitalismo sostenuto dalla banalità del male.

«La degenerazione della democrazia mercantile provoca necessariamente la corruzione dell’istituzione (scolastica ndr). La missione ufficiale del sistema educativo è quella di fabbricare ingranaggi ben oliati per una megamacchina folle. Senza parlare delle business school. In esse si insegna che l’avidità è cosa buona e i giovani vengono formati per diventare dei killer. Ed è anche propedeutica alla banalità del male. La parcellizzazione dei saperi e la sostituzione della competenza professionale alla ricerca del bene comune come valore supremo rendono di fatto impossibile prendere coscienza delle conseguenze potenzialmente disastrose dell’azione e cancellano la responsabilità dell’attore, ridotto alla condizione di esecutore. È così che nelle imprese i manager realizzano gli obiettivi imposti dagli azionisti, mentre al termine della catena gli operai si suicidano o vengono licenziati. È così che nelle amministrazioni i funzionari coscienziosi “fanno economie”, espellendo i lavoratori immigrati, cancellando i disoccupati dalle liste dei sussidi, ecc. In questo modo si provocano drammi umani di cui è responsabile il sistema ma di cui nessuno è colpevole».

Sono poi snocciolati tutti quei temi cari a Latouche che, a partire dal dono e da Marcel Mauss, delineano lo scenario di una società della decrescita solidale, sociale, di relazione, ben solida nelle sue radici locali ed affezionata alla terra.

Nel saggio sono presenti interessanti excursus che suonano da un lato come dei tributi ai maestri e dall’altro come delle necessarie digressioni per meglio far capire al lettore il percorso intellettuale che ha portato alla teoria della decrescita.

Scorrono così i capitoli in cui si analizza in breve il pensiero di Castoriadis e Illich che insieme a Mauss sono giudicati da Latouche i riferimenti cui attingere la linfa che alimenta la sua costante ricerca.

Quando infine, una volta decolonizzato il nostro immaginario, si passa alla realizzazione della società della decrescita il saggio, a partire dai capisaldi della trasformazione, che brevemente l’autore sintetizza nelle 8 R:

rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare, un poco s’inceppa, data la difficoltà poi di trasferire al quotidiano, e su vasta scala, la proposta.

Allora lo stile dell’autore compie un’impennata iperbolica assumendo toni quasi messianici, da ultimo profeta dell’Apocalisse e s’inerpica su una strada d’ascetismo. Una via interiore quasi religiosa che gli fa parlare di Tao della decrescita in questo modo «La via è il Tao di Lao Tse, è il dio dello zen giapponese, ma è anche il dharma degli indù e l’ethos di Aristotele. È una strada da inventare con l’aiuto di un maestro che forse non esiste. La via della decrescita è il ritorno della saggezza, e la saggezza non coincide con la saggezza razionale. Ma cos’è la saggezza? Forse lo “sragionamento”».

La via della decrescita è un’apertura, un invito a trovare un altro mondo possibile”.

È prima di tutto una scelta che non si esaurisce nell’etica della sobrietà. È rivoluzione economica e sociale ma che non si limita all’etica della resistenza, della rivolta e della disobbedienza.

È una via d’uscita dall’enorme decadenza generata dalla società della crescita.

È la via per costruire una società decente. E una società decente non umilia i suoi membri, non produce rifiuti. Un mondo decente forse non è un mondo di abbondanza materiale, ma è un mondo senza miserabili e senza brutture.

La decrescita coincide con la lotta per la dignità e con la lotta perché la dignità coincida col mondo.

«Un mondo dove hanno posto tutti i mondi».

È un progetto politico che ha una prospettiva etica. «L’etica della decrescita unisce disciplina personale e impegno nel mondo. Il ritiro dal mondo e la sola ricerca della perfezione individuale sono una forma di rifiuto dell’essere».

La conclusione di questo percorso è una netta prese di posizione «Bisogna abolire la fede nell’economia, rinunciare al rituale del consumo e al culto del denaro [perché] nella società della crescita non ci sarà mai più né pace né giustizia».

Messianico? Apocalittico? Utopico? Forse. Ma affascinante.