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Il mondo di Margherita

di Vincenzo Maddaloni - 08/06/2011

 





Michail Bulgakov, uno dei più grandi scrittori del Novecento, nasceva a Mosca 120 anni fa. La casa dove scrisse il suo capolavoro “Il maestro e Margherita” era diventata negli anni della Perestrojka meta d’inconsueti pellegrinaggi, con i muri ricoperti di graffiti di cui non esisteva altro esempio in tutta la città di Mosca. Oggi la casa è un’attrazione per i turisti.

Se chiamate al telefono può capitare che vi risponda la bellissima strega Hella per dirvi, scusandosi, che Voland «è occupato e non può venire al telefono» . Le telefonate con i personaggi di “Il Maestro e Margherita” sono la sorpresa di quest’estate moscovita per attirare visitatori nella Casa-Museo Bulgakov, gestita da una ventina d’anni dal Comune, al civico 10 di Bolsciajaja Sadovaja.

Naturalmente - è così da quarant’anni - lo si vede soltanto quando si è vicini, (lasciando piazza Majakovskij per la strada che porta al parco Gorkij), il bassorilievo di bronzo sistemato sulla cornice di marmo del portale che raffigura il volto di Jeshua, come ebraicamente viene chiamato Gesù, incorniciato  dalla saga dei personaggi e delle situazioni che animano “Il Maestro e Margherita”, il capolavoro di Michail Afanasievic Bulgakov, tra i massimi scrittori russi di cui quest’anno ricorre il centoventesimo anniversario della nascita.

Per questo hanno infilato dei fiori nel bassorilievo; piuttosto discreto di dimensione, piuttosto sobrio d’intonazione, messo lì, si direbbe, più per soddisfare a un obbligo che per offrire un modello di riflessione.

Perché Bulgakov, che s’era trovato invischiato in contrasti politici, ideologici e anche religiosi, era stato riconosciuto scrittore dopo venticinque anni dalla sua morte, quando con Breznev, da due anni segretario del Pcus, la rivista Moskva, sullo scorcio del 1966, iniziò a pubblicare a puntate “Il Maestro e Margheria”, il suo lavoro principale rimasto incompiuto nonostante, tra il 1928 e il 1940, anno della sua morte, avesse avuto ben otto redazioni.

Così il giovane medico, figlio di un professore di teologia, costretto dalla sorte a vivere in un tempo che gli era ostile, schiacciato dalla burocrazia («Prego di considerare che l’impossibilità di scrivere per me equivale ad essere seppellito vivo), si è preso una clamorosa rivincita col suo tempo e i suoi contemporanei, con un romanzo indefinibile come genere, ma con una forza immediata di divertimento e di meditazione. Poiché è costruito sull’intersecazione di tre differenti piani narrativi: le “avventure del Diavolo a Mosca”, le “vicissitudini del Maestro” e la “passione di Jeshua Ha-Nozri”. Una sintesi di commedia buffa e di sacra rappresentazione.

Il principe del Male, Woland, compare a Mosca con una banda di perfidi e mirabolanti coadiutori, unico possibile dominatore di una realtà che non è capace neppure di intendere la tragedia di Cristo e il dramma di Pilato, abitata com’è da miriadi di burocrati e sudditi avidi, furbi, aggressivi e impauriti.

Woland, sotto le vesti di mago ipnotizzatore, opera i suoi sbalorditivi giochi di prestigio, soggiogando le masse con le sue parodie di miracoli. «Dopo tutto», annotava Eugenio Montale nel 1967, all’uscita del libro in Italia, «Il Maestro e Margherita è opera di un uomo che scriveva in una situazione bene determinata e poteva alleare l’ispirazione al sotterfugio e persino al trucco. Il piano demoniaco potrebbe essere la cortina fumogena che occulta e rende accettabile anche dai censori la feroce satira che pervade tutto il libro. Il piano reale, quello degli eventi narrati, ha un significato che direi allegorico. Esso ci dice che una massa di anime morte, non più servi della gleba, ma servi di un sistema disumano, può essere suggestionata e avvinta da un grande ciarlatano che sappia recitare bene la sua parte».

L’abilità di Bulgakov scrittore sta anche nell’aver saputo legare mirabilmente la solenne, cadenzata narrazione della vicenda evangelica con la mordente, frizzante, irriverente prosa della farsa moscovita, per poi giungere alla conclusione che il Cristo rappresenta la “verità ultima” cui rapportare tutti i possibili significati della vita e della storia degli uomini. Ma alla conclusione si arriva dopo un pullulare di godibilissimi enigmi, di situazioni grottesche, fatti straordinari, eventi misteriosi che col passare delle generazioni di lettori sono diventati un complemento dell’arredo urbano moscovita, poiché ogni cosa può essere reimmaginata ripercorrendo i luoghi immaginati nel romanzo, in una sorta di raffinato baedeker degli ambienti dove vissero Woland, la salvifica strega Margherita e il povero eroe del romanzo, il Maestro, l’artista con il  suo ideale modesto: sottrarsi all’arida bufera della Storia, chiudersi nella dolce prigione di una casa a scrivere.

Dove? Nell’appartamento numero 50, (che lo scrittore e la sua terza moglie erano costretti a dividere con altre famiglie), all’ultimo piano di un palazzetto che dà sulla Bolsciajaja Sadovaja, diventato Museo per volontà del comune di Mosca, che si spende ogni anno per trovare nuove attrazioni per attirare i visitatori. Quest’anno si sono inventati la segreteria telefonica.

Si sceglie il nome di uno dei personaggi del romanzo su una rubrichetta appesa al telefono d’epoca e basta comporre il numero. Rispondono voci registrate che ricalcano le battute del capolavoro dello scrittore. Se si chiama, per esempio il grosso gatto nero, questi risponde: "Riaggancia il telefono canaglia!". Naturalmente c’è tra le offerte anche un tour, su un piccolo autobus rosso, nei luoghi in cui è ambientato il romanzo.

Ero corrispondente a Mosca quando vent’anni fa, vi sono andato per la prima volta con il fotografo Alexei Weitsler, che era agli inizi e che adesso è uno dei professionisti della Mosca che conta. Naturalmente, la Russia era ancora Unione Sovietica, e la casa di Bulgakov soltanto un luogo d’intimo pellegrinaggio, appena tollerato sebbene già imperasse da tempo la Perestrojka. Attraversato il cortiletto, aperta la porta, i pellegrini - quasi tutti giovani - salivano le scale e leggevano i grafiti lunghi i muri che ora sono ricoperti da tre mani di pittura bianca e sulla quale hanno dipinto pure il ritratto di Bulgakov.

Ma vent’anni fa era uno spazio di trasgressione - unico nel suo genere nella Mosca che sei mesi dopo non sarebbe stata più comunista - cintato dalla ringhiera, una zona franca del Pese del controllo totale. Restavano fuori il Komsomol e la Perestrojka, ma anche gli affanni quotidiani per trovare le merci nei negozi, le tessere per il burro e lo zucchero. Poiché i muri e persino i vetri delle finestre, ora straordinariamente tersi, offrivano uno spiegamento verbale e visuale di considerazioni e di inviti; esibivano una fioritura di riflessioni e di moniti, con concentrazioni dove la scrittura è più agevole, cioè ad altezza d’uomo.

Distribuzione e proporzione naturalmente variavano. Per esempio: «Datemi la pace, concedetemi la felicità e vedrete come saprò conservarla», si leggeva a pieno muro dopo i primi scalini. Per esempio: «Non chiedete mai nulla, soprattutto a quelli che sono più potenti di voi», si avvertiva poco più in su. Per esempio: «Gente felice esiste al mondo?”, chiedeva una robusta scritta arricchita dallo stemma dell’Unione Sovietica e dal panorama stilizzato di Mosca con in primo piano il Cremlino e qualche ciminiera.

O addirittura, si assecondava il gusto della citazione: «La schiavitù agli schiavi, la libertà ai liberi», ricordava un graffito a metà della seconda rampa. «Distruggeremo il vecchio mondo e costruiremo quello nuovo», ricordava una scritta presa a prestito dall’“Internazionale”, che appena s’intravvedeva sotto la strisciata di vernice bianca di uno sconosciuto che aveva tentato di cancellarla con rabbia, perché accanto c’era un’altra frase probabilmente scritta dalla medesima mano che avvertiva: «E’ disumano continuare a promettere quando non siamo riusciti a realizzare nulla».

Non immaginatevi carovane di visitatori, come accade quasi ogni giorno di quest’estate. Allora erano soltanto singoli, al massimo coppie. Arrivavano a metà del pomeriggio, quando la gente affolla i marciapiedi da piazza Puskin a piazza Majakovskij. Sostavano davanti al Teatro della Satira tra la gente qualunque, tra persone d’ogni età con i giovani vestiti un po’ all’antica, di un’eleganza formale e da vetrina; ragazzi con i “varionki”, i jeans bolliti per farli scolorire, il modo più diffuso d’abbigliarsi nella Mosca del 1991. A quell’ora del pomeriggio in quella piazza c’erano le famiglie a spasso, in coda davanti al chiosco del Pinguino, il gelato arancione, verdino e viola di un sapore insolito che si consumava anche d’inverno per strada. E molti anziani: le donne con il foulard a quadri il “platok”, gli uomini con le medaglie sul petto. Quasi tutti in silenzio a guardare il passeggio d’ogni giorno, con i miliziani discreti che ogni tanto fermavano una vettura per le loro improbabili contravvenzioni.

Da quella folla in perenne movimento, loro, i singoli, le coppie,ogni tanto si staccavano e imboccavano la Bolsciajaja Sadovaja, e raggiungevano la casa di Michail Bulgakov. Entravano e avanzavano con gli occhi all’insù, e come spesso accadeva nell’Urss di quegli anni, era difficile individuare il limite tra funzione e rito. Capire fin dove si spingeva la propensione dei russi a credere, fin dove arrivava il loro desiderio di lasciarsi coinvolgere in quella estraterritorialità che quella scala rappresentava, e che ora non possiede più. Con le sue delusioni e le sue speranze, come la ragazza che scriveva: «Non sono Margherita, ma troverò il mio maestro e Woland mi aiuterà»; e un’altra che aggiungeva convinta: «Cara Margherita, soltanto tu mi puoi aiutare ad amare il mio maestro». Ma c’era pure chi desolato scriveva: «Woland ferma la terra, io scendo», perché, «stiamo vivendo soltanto per morire». E subito dopo accanto alla porta numero 50, c’era la risposta di un sarcasmo bulgakoviano: «Non preoccupatevi, magari impiegheremo trecento anni, ma anche il nostro mondo migliorerà».

Ne sono già passati settanta, ne mancherebbero ancora duecento e trenta per poter verificare se migliora oppure no.