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Per Lambruschini la coscienza, la natura e Dio sono le fonti della legge morale

di Francesco Lamendola - 10/06/2011





È libero, l’uomo?
E, se sì, donde gli vengono le linee di condotta, i precetti morali che lo guidano nelle sue scelte e nelle sue azioni?
E chi o che cosa ne garantisce l’attendibilità, la veridicità, l’autorevolezza; in altri termini: chi lo assicura che si sta muovendo sulla strada giusta?
Oggi, in tempi di pessimismo radicale e di supremo relativismo etico, sembra che nulla, tranne il caso, presieda alla nostra vita morale; che tutti siano abbandonati all’arbitrio di ciascuno; che non esistano una verità, e tanto meno una verità morale, capaci di innalzarsi al di sopra del coro discordante dei diversi egoismi individuali, delle differenti motivazioni in lotta fra loro, ciascuna protesa a far trionfare il proprio angusto orizzonte esistenziale e, magari, impegnata a spacciarlo per verità assoluta, per dogma infallibile.
Per secoli, in passato, anzi, per millenni, gli uomini hanno pensato e sentito diversamente; hanno nutrito la ferma convinzione che sia stato donato loro il bene impareggiabile della libertà; e che una forza positiva, proveniente dall’alto, ma udibile anche nel profondo silenzio della coscienza, li ispiri e li guidi alla scelta del bene e al ripudio del male.
Questo, della libertà, è un nodo centrale non solo della filosofia, ma anche di qualunque pedagogia degna di questo nome: come si può pensare seriamente di svolgere un’azione educativa nei confronti dei bambini, nei confronti dei giovani, se non si nutre la benché minima fiducia nel fatto che l’uomo sia in grado di scegliere liberamente; e che la scelta del bene sia suggerita e facilitata da una legge morale che esiste dentro di lui e al di fuori di lui e che essa gli parla in diverse maniere, facendo leva sulla sua parte migliore?
Di ciò erano convinti gli educatori del passato; diversamente, avrebbero dovuto rinunciare ai loro sforzi e dichiarare l’uomo un essere non educabile, né perfettibile.
La società odierna ha smarrito una tale consapevolezza: ragion per cui, propriamente parlando, oggi non si dà più alcuna pedagogia, anzi, non si dà nemmeno un progetto educativo, sia pur vago e generico.
Da quando, a partire dall’Illuminismo, si è preteso di sostituire la Ragione alla trascendenza, dapprima si è tentato di creare una nuova morale, interamente incentrata sull’uomo e sulla sua sovrana facoltà razionale; ma poi, poco alla volta, le premesse immanentistiche e razionalistiche di tale concezione hanno portato inevitabilmente alla scomparsa, di fatto se non di nome, di qualsiasi fiducia nella educabilità dell’uomo, che è stato così lasciato in balia di mille seduzioni, di mille chimere, di mille presunzioni.
Uno degli ultimi e più interessanti pedagogisti dell’Italia pre-industriale è stato l’abate Raffaello Lambruschini (Genova, 1788 - Firenze, 1873), una delle figure più dignitose e originali nel panorama culturale toscano del primo Ottocento.
Due voci, per il Lambruschini, parlano all’uomo: l’una, quella interiore, è la voce della coscienza, l’atra, quella esteriore, è la voce della natura; ed entrambe, in ultima analisi, vengono da una medesima fonte e da una medesima legge, che è Dio.
Ad esse, poi, Dio stesso ha aggiunto la sua propria, espressa legge morale, attraverso la Rivelazione e le Scritture, affinché non rimanesse alcun margine di dubbio possibile, alcuna incertezza, alcuna occasione di dubbio o di fraintendimento circa la condotta da seguire.
Scrive, infatti, il Lambruschini nel secondo capitolo del suo capolavoro «Della educazione» (1836), che, a dispetto dei suoi quasi due secoli di vita, conserva ancora una sostanziale attualità di fondo (Brescia, La Scuola Editrice, 1948, pp. 58-61):

«…No, non si può dubitarne:  lo spiriti dell’uomo ha la legge sua; secondo la quale, composto nel proprio ordine, e bello della propria perfezione che è un raggio della Bellezza divina, egli ad un tempo è degno della compiacenza di Dio e degli uomini, riposa nella pace e gioisce nella contentezza di tutto il suo esser soddisfatto.
Or questa legge, singolarmente accomodata allo spirito del quale è forma, ha ciò di proprio, che lascia lo spirito libero  di seguirla. L’uomo non può, senza conformarsi a quella, essere perfetto e felice; ma può, cadendo nel disordine e nella sventura, non volerla accettare. Egli non è trascinato fatalmente da forze interiori, che operino in lui necessariamente il suo bene; ma è chiamato da Dio, ed aiutato ad operarlo esso stesso.  Iddio lo ha aggregato in certa maniera s sé, nel reggimento del mondo morale; gli ha confidato il governo del proprio spirito.
Dignità che accosta l’uomo agli Angeli; deputazione gloriosa che costituisce l’obbligo morale, che fa della nostra perfezione una virtù, e del nostro bene un premio. - Ma se l’uomo ha da sottoporsi per deliberazione propria al “giogo soave” della sua legge, egli deve conoscerla. Ora chi gliela fa nota?
Prima a notificargliela, è una voce che comincia a parlare non appena il nostro spirito comincia a intendere; una voce interiore che portiamo sempre con noi: una voce che non si cheta mai, e ci intima del continuo la “legge scritta nei nostri cuori” (Rom., II, 15), non con inchiostro, ma per lo spirito dell’iddio vivente; non in tavole di pietra, ma nelle tavole di carne del cuore” (II Cor., III, 3): la voce della COSCIENZA.
Iddio poteva rendere questa voce così sonora, così distinta, così soave, che dicesse TUTTO all’uomo; che non potesse esser mai o NON INTESA o FRAINTESA; né dovesse riuscire mai DISACCETTA. Ella allora ci avrebbe bastato. Ma l’uomo è creatura complessa: il suo spirito congiunto ad un corpo, è commosso dalle commozioni di quello; e riceve da lui, come impedimenti così aiuti al conoscere, al volere, all’operare. E Iddio pose fuori dell’uomo una seconda voce che parlasse ai sensi; e annunciandogli, meno distintamente sì, ma più solennemente, le cose medesime, che annuncia la coscienza, ne confermasse la manifestazioni e l’ammaestramento: ella è la voce della NATURA. “I Cieli narrano la gloria di Dio” (Salmo XVIII, 3) e ne “predicano la giustizia” (Salmo XCVI, 6). “Le cose invisibili di Dio, sono fino dalla creazione del mondo, manifeste per le opere sue” (Rom., I, 20).
Queste opere ammirabili, che celebrano nel linguaggio loro una Sapienza, una Potenza, una Bontà infinita: che si dicono l’una all’altra scambievolmente, e dicono all’uomo: noi siamo fattura della stessa mano; che a guisa d’esercito stupendamente ordinato, obbediscono, senza mai resistere e senza mai tardare, al comando dato una prima volta dal Duce Eterno; queste opere magnifiche e docili, sono per l’uomo e insegnamento ed esempio ed esportazione e rimprovero: e l’uomo al contemplare, non può non adorare e non dire fra sé e sé: là mi parla e mi comanda Iddio, come mi parla e mi comanda in questo interno santuario della mia anima.
Parlano dunque e comandano all’uomo due voci: l’interiore della coscienza e l’esteriore della natura. - Ma la loro parola è ella tale che, all’udirla, dovesse intendere specificamente la sua propria legge in guisa da non potere errare? La conoscesse come volere espresso del suo Creatore; e vedesse tanto chiaro il danno del trasgredirla, da non osare di metterla in dubbio, di ricusarla? Anco nel suo primitivo stato d’innocenza, gli affetti non avrebbero mai turbato la tranquillità del suo animo, così che sempre sentisse e seguitasse i soavi impulsi del sentimento morale? - L’immaginazione avrebbe sempre sopportato pazientemente le lentezze dell’osservare e del confrontare; non avrebbe mai annuvolato la lucentezza serena dei concetti? Non avrebbe mai precipitato i giudizi?
E poniamo anco. Ma l’uomo (dico pure l’uomo innocente) il quale fosse venuto in cognizione della legge morale, solamente per un proprio sentimento interiore, e per interpretazione fatta da se medesimo nel linguaggio della natura, avrebbe egli considerato, e considerato sempre, come obbligatoria e immutabile una regola che non aveva a’ suoi occhi altra autorità fuor quella d’un proprio giudizio, né altro obbligo fuor quello d’un proprio volere? Su sarebbe egli tenuto astretto a non mutar mai di volontà e di sentenza? Sarebbe egli riuscito a non mutarle, assalito ed illuso da appetito contrari a quella regola, fossero pure appetiti non disordinati, come ora sono? No, non è da credere. Né Iddio giudicò che ciò potesse essere; perché anco all’uomo innocente, per cui la para della coscienza e la parola delle opere di Dio erano più espressive e meno contraddette, diè una terza parola più distinta, più efficace, la Parola sua stessa, in forma di espresso comandamento.
La proibizione fatta ai Progenitori di tutta l’umana stirpe che non gustassero il frutto dell’albero della Scienza del bene e del male, proibizione sancita con comminazione di pena, fu un precetto pieno di mistero. Fu ad un tempo e un mettere a prova la fedeltà dei primi uomini, e un dichiarare la insufficienza dell’umano spirioto a ben governarsi coi soli lumi della ragione e della coscienza. Fu supplire all’infermità dell’umano  intelletto, e rintuzzarne l’orgoglio; fu corroborare la debolezza della volontà, e fermare la incostanza, e piegarne la durezza; sottomettendo l’uno e l’altra ala suprema Sapienza, alla suprema Giustizia, alla suprema Santità di Dio Legislatore. Fu bandire la necessità della RIVELAZIONE: della rivelazione come ammaestramento, della rivelazione come comando.»

Ora, mentre la prima parte del suo ragionamento potrebbe trovare orecchi disposti ad un benevolo ascolto anche fra molti intellettuali laici del nostro tempo, in quanto basata sulla convinzione che dalla coscienza e dalla natura vengano all’uomo le indicazioni per compiere una giusta scelta morale, la seconda, in cui Lambruschini si sofferma sulla condizione umana prima e dopo il peccato originale, certamente suona male a tutti quei filosofi ed educatori che non possono ammettere che vi sia bisogno di un Dio per stabilire la legge morale.
Eppure, a parte il fatto che tale parte è necessaria per capire pienamente il pensiero di questo pedagogista, che non per nulla era un sacerdote cattolico (per quanto progressista e vicino agli uomini del gabinetto Viesseux) e che, quindi, non si può comprendere se si fa astrazione dalla sua prospettiva cristiana, a noi sembra che proprio qui si annidi la parte decisiva del suo modo di intendere l’idea stessa di educazione.
L’uomo non è autosufficiente: non è in grado di darsi da sé la propria legge; né, se anche lo fosse, sarebbe capace di osservarla e di rispettarla sino in fondo.
La disobbedienza di Adamo ed Eva, che ai non cristiani può anche sembrare una favoletta per bambini, e tuttavia contiene una profonda verità psicologica e morale, è il simbolo di questa debolezza costituzionale della natura umana, unita alla libertà che pure lo caratterizza e lo distingue da altre creature.
Ora, è proprio qui che si gioca la contraddizione fondamentale della cultura moderna, debitamente scientista e riduzionista, laicista e progressista; è proprio qui che sta il nodo centrale di ogni discorso sulla libertà dell’uomo, che gli intellettuali odierni non vogliono ammettere né riconoscere, temendo, altrimenti, di vedere sminuita la grandezza dell’uomo.
Da un lato, essi esagerano questa grandezza, fino al punto di fare dell’uomo la sola creatura esistente in natura che sia soggetto di diritti, alla quale riservano, perciò, la prerogativa di disporre illimitatamente degli altri enti, manipolandoli a piacere; dall’altro, davanti alle evidenti debolezze dell’uomo ed alla sua manifesta incapacità di vivere in armonia anche solo con i propri simili, oltre che con se stesso, oscillano continuamente fra il desiderio di assolverlo da qualunque responsabilità, dichiarandolo privo di ogni libero volere, e il timore, se così facessero, di appannare la sua gloria e, più ancora, di smascherare la fallace promessa delle magnifiche sorti e progressive che la ragione e la scienza, imprudentemente, hanno fatto.
Forse è giunto il tempo di ripensare la “hybris”dell’uomo moderno e di riconoscere, con umiltà, la sua debolezza fondamentale: non per umiliarne la supposta grandezza, ma per rendere ragione del male morale che sempre imperversa, che nessuna rivoluzione riesce a estirpare e nessuna religione seria ha mai promesso di sradicare, ma, semmai, di limitare e circoscrivere, per quanto possibile.