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Autoritratto dell’immondizia

di Mario Grossi - 14/06/2011


Per raccontare la storia della civiltà si possono assumere molteplici punti di vista che, smarcandosi dal contesto generale, acquistano carattere puntuale ma altrettanto potentemente descrittivo del percorso dell’umanità, dal suo comparire ai giorni d’oggi.

Così ci sono storici del costume che ci raccontano fogge e colori dei vestiti. Altri minimalisti che si sono interessati alla vita quotidiana, abbandonando l’ottica eroica dei personaggi famosi e mettendosi dalla parte dei comuni mortali, descrivendone usi, abitudini, difetti e credenze. Altri ancora, ci raccontano l’evoluzione dell’alimentazione, passando al microscopio, materie prime, ricette, gusti di ogni epoca. I maliziosi si sono messi a guardare dal buco della serratura, per capire come si sono sviluppati i costumi sessuali dell’uomo.

Altri infine si sono piazzati nei gabinetti per raccontarci che anche dai cessi, dalle deiezioni, dai rifiuti e dall’immondizia si può tracciare un percorso che attraversa tutta l’umanità.

Ed è forse questo l’approccio più coerente, perché, da che mondo è mondo, l’uomo ha prodotto rifiuti ed i rifiuti, poco o tanti che siano, sono nati con la sua nascita.

È possibile tracciare dunque una storia delle civiltà a partire proprio da quei disgustosi oggetti che possono essere catalogati in due categorie distinte e convergenti: i liquami e il pattume.

Ci prova, non certo per primo, visto che l’argomento attrae da sempre il nostro interesse, come è testimoniato dalla corposa bibliografia disponibile sul tema, Lorenzo Pinna che ha pubblicato, nello scorso mese di maggio, per Bollati Boringhieri, Autoritratto dell’immondizia, un saggio che vuol dar conto del peso che i rifiuti hanno per l’umanità in tutti i periodi storici della sua cavalcata temporale.

Io, che mi considero un modesto cultore dell’argomento, non me lo sono lasciato sfuggire anche perché di questi tempi, e lo sarà sempre di più in futuro, il tema è attualissimo e s’intreccia con l’altro altrettanto importante che è quello dell’acqua.

Agire su rifiuti e deiezioni vuol dire come disfarsene (e l’acqua gioca un fattore fondamentale) e vuol dire anche costituire delle basi igieniche ( e qui l’acqua gioca un ruolo ancor più importante), per evitare che un trattamento del problema superficiale non dia inizio a epidemie o, peggio ancora, non provochi l’inquinamento delle falde di acqua potabile con conseguente innesco di pestilenze e morti.

A testimonianza che l’autore tratta un tema non certo originale cito due libri che l’hanno, tra i molti, preceduto.

Il primo, letto quando ero ancora un ragazzo, è Civiltà in bagno di Wright che racconta in modo ironico e divertente le abitudini igieniche dell’Occidente con particolare riguardo al gabinetto.

Il secondo è Il grande bisogno, perché non dobbiamo sottovalutare l’ultimo tabù: la nostra ca**a di George, di cui ho parlato su Il Fondo in un passato assai più recente, e che è una ricognizione sulle condizioni igieniche di quei paesi, considerati sottosviluppati.

Il primo è un libro umoristico, benché solido nella sua ricerca, il secondo è un reportage giornalistico, anch’esso molto documentato.

Lorenzo Pinna invece costruisce, da giornalista e divulgatore scientifico qual è, il suo Autoritratto dell’immondizia in una cornice che potrebbe essere definita saggio di storia della scienza e della tecnica applicata, in questo caso alla monnezza.

Le idee guida del saggio sono semplici e lineari.

Nell’epoca che precede la rivoluzione industriale il problema dei rifiuti, pur presente, non era particolarmente sentito e non veniva quasi preso in considerazione.

Agli albori della civiltà, la popolazione era scarsissima, l’attività prevalente era la caccia e la conseguente vita nomade di piccoli nuclei umani non poteva, neanche volendolo, creare i presupposti del problema.

I primi problemi cominciano con la stanzialità e con l’inizio dell’inurbarsi della popolazione. Ma l’antichità non ha conosciuto grandi agglomerati urbani e il problema era notevolmente circoscritto.

In questa parte del saggio si erge ad esempio la Roma imperiale, una città che arrivò a contare un milione di abitanti e che, date le sue dimensioni, cominciò ad avere seri problemi per lo smaltimento dei rifiuti.

Problemi che si tentò, in modo soddisfacente, di risolvere, da un lato con la costruzione della grande rete fognaria cittadina collegata alla Cloaca Massima, e dall’altro con lo sviluppo degli approvvigionamenti idrici di acqua potabile che servivano, oltre che le Terme, le 1352 fontane disseminate per i 14 quartieri cittadini.

All’epoca a Roma confluivano un milione di metri cubi d’acqua al giorno, circa 1000 litri procapite. Se si pensa che il consumo odierno del cittadino italiano è di circa 400 litri al giorno si può ben capire, seppure il consumo era molto diseguale, a che punto erano giunti i nostri avi.

Tutto questo sparì con la caduta dell’Impero, Roma si spopolò e le nuove città che sorsero nei secoli successivi crebbero sì ma senza raggiungere dimensioni considerevoli.

Ci fu progressivamente un inurbamento della popolazione, una crescita caotica senza presupposti igienici e l’inizio di quella che Pinna definisce la città pestilenziale che la fece da padrona per molto tempo.

Gli esempi di Londra e Parigi sono significativi. A Londra sorsero interi quartieri fatti di baracche, privi di fogne, di acqua corrente, di un sistema di allontanamento dei rifiuti che venivano interrati in pozzi neri o lasciati marcire nelle strade sterrate originando quel pestilenziale fango, fonte, insieme alle infiltrazioni in falda dai pozzi neri, di quelle epidemie di peste, di tifo, di colera che si abbatterono sulla popolazione con una regolarità impressionante.

Ma il vero picco, e anche il punto di svolta, nella lotta alla città pestilenziale si ebbe con la Rivoluzione industriale che provocò da un lato una brusca impennata della dimensione delle città e dei suoi problemi igienici, dall’altra tutta una serie d’innovazioni (che poi erano un ritorno, in modo più scientifico, ai dettami che i Romani avevano fatto propri) che portarono da un lato ad un aumento esponenziale dei rifiuti e delle deiezioni, dall’altro ad un approccio moderno teso a risolvere il problema.

È a questo punto che si affermano i due eroi di Pinna, a noi sconosciuti, che portano il nome di Joseph Bazalgette, ingegnere capo del Metropolitan Board of Works e George Eugène Hausmann, Prefetto della Senna. Il primo costruì il sistema fognario di Londra, il secondo quello di Parigi, intorno al 1850.

Gli enormi progetti che eseguirono, trasformarono le due città che da allora in poi non furono oggetto più di epidemie e nelle quali scomparvero i rifiuti per le strade e di conseguenza il puzzo mortifero che le dominava.

È un approccio moderno, fatto di progetti funzionali, di appalti trasparenti, di controlli rigorosi che uniti alle conoscenze in campo medico e igienico, frutto delle nuove tecniche sviluppate durante la Rivoluzione industriale, che permise alle cose di funzionare.

Per contro viene citato il caso di Napoli e di come alla fine dell’Ottocento un approccio premoderno, statalista, già compromesso con la camorra, con le tangenti, con i veti incrociati dei potentati locali, portò un analogo progetto alla più clamorosa delle sconfitte.

L’autore compara i casi di Londra e di Napoli per rendere evidenti le cose.

«Nel caso londinese la direzione e la responsabilità dei lavori spettavano al Metropolitan Board of Works, cioè erano affidate a un ente pubblico e non date “in concessione” a una società privata…. L’opera fu suddivisa in grandi sezioni, ognuna delle quali venne data in appalto. Per ogni contratto d’appalto gli uffici tecnici del Metropolitan Board of Works preparavano le mappe e i disegni dei luoghi e dei lavori da svolgere, specificando le dimensioni e le misure delle opere, le tecniche di costruzione, i materiali da impiegare e le loro specifiche tecniche. L’ufficio quantificava il lavoro da eseguire. Il piano così elaborato veniva sottoposto da Bazalgette all’approvazione del Board e in caso positivo si procedeva alla gara d’appalto. Tutte le informazioni tecniche, insieme ai metodi di pagamento previsti venivano rese pubbliche per una gara il cui annuncio appariva su riviste specializzate. Gli interessati potevano richiedere la documentazione completa. In possesso di tutti i dati utili, le imprese concorrenti preparavano e inviavano al Board un’offerta molto dettagliata. Sulla base dell’offerta più conveniente e di alcune garanzie veniva poi assegnato l’appalto. Una volta iniziati i lavori, Bazalgette presentava mensilmente al Board un rapporto sul loro andamento. Le partite dei materiali consegnati venivano passate al vaglio del sistema di controllo…».

A Napoli invece «emerge una realtà completamente diversa. I progetti sono fatti male, in fretta, da incompetenti, sono imprecisi, non quantificati. Dimentichiamoci la trasparenza di gare pubbliche annunciate su giornali specializzati. Dimentichiamoci i controlli rigorosi e i rapporti mensili. Dimentichiamoci infine la logica tecnologica e scientifica del capitalismo industriale ed entriamo nel mondo della macropredazione o, come l’abbiamo definito, del vero anticapitalismo. Un mondo dove è possibile perdere l’unica copia di un contratto, a tutto vantaggio dell’impresa che senza il capitolato tecnico potè farsi pagare, come lavori extra, anche quelli previsti da un contratto ormai svanito. Un mondo dove solo il 25 per cento degli impiegati comunali è stato assunto con regolare concorso o per particolari titoli di idoneità. Un mondo, infine, dove la produzione, cioè la costruzione, il risanamento,sono solo il paravento, una copertura, per la predazione».

Traspare da questi estratti la convinzione dell’autore.

Il problema delle città pestilenziali, dei rifiuti e delle deiezioni è stato risolto a Londra e a Parigi perché affrontato in modo scientifico, moderno, in cui il progresso dovuto al capitalismo industriale ha permesso strumenti e conoscenze adeguate.

A Napoli il problema è naufragato in una sconfitta perché le forze antiprogressiste, anticapitaliste, premoderne hanno fatto prevalere logiche diverse e non compatibili con la modernità.

A questo punto appare chiaro quello che Pinna lascia sottinteso. Il capitalismo industriale ha sì generato una produzione esponenziale, oltre che di merci da consumare, anche di rifiuti sempre più imponente da smaltire ma ha in sé la forza, la volontà, l’ottimismo, la capacità, le risorse, le conoscenze per affrontare questa emergenza e tenerla sotto controllo.

Solo chi non accetta questa logica, scegliendo opzioni premoderne e anticapitaliste, va incontro a una sonora sconfitta facendo ingigantire ancora di più il problema.

Tutto risolto dunque con questa affermazione fideistica nel potere salvifico della modernità capitalista?

Non sembra proprio. E non sembra neppure all’autore che fa apparire, timidamente nelle ultime pagine del saggio, lo scenario che questo sviluppo dissennato sta producendo nella postmodernità.

Scrive Pinna: «Abbiamo visto come la città pestilenziale sia stata ampiamente sconfitta e per il momento non minacci di tornare. Ma tutte le fatiche e le opere realizzate dai primi anni dell’Ottocento ad oggi rischiano di sembrare un gioco da bambini di fronte alle sfide cui le città dell’Asia, Africa e America Latina sono chiamate. Nel 2008 è stata varcata, a livello planetario, una soglia storica: più del 50% dell’umanità vive ormai nelle città. Quello che avviene in Africa, in America Latina, ma anche nel Sud dell’Asia, è spesso un’urbanizzazione senza industrializzazione: il modello non è la Londra dell’Ottocento, ma la Napoli dei fondaci ottocenteschi. Il risultato di queste colossali migrazioni sono gli slum, le baraccopoli,che crescono a dismisura intorno alle città. C’è il rischio che le città del futuro avranno amorfe e sterminate distese di casupole e baracche costruite con il cartone, le assi di legno, la paglia, i mattoni cotti male e gli ondulati di lamiera, addossate lungo stretti vicoli sterrati e fangosi. L’immagine moderna di un’antica conoscenza: la città pestilenziale con tutto il suo corteo di orrori. Ma questa è un’altra storia».

Non basterà fare come a Londra. Forse perché proprio Londra, insieme a tanti altri, oggi, per tenere pulito il giardino di casa sua, non si fa scrupoli di scaricare la sua immondizia eccessiva e crescente, nel giardino del vicino. È lo stesso Pinna che lo scrive nel suo saggio, descrivendo il caso dei rifiuti tossici in Campania.

E questa non è un’altra storia. È la solita storia!