Difficile uscire di scena. Questa difficoltà non riguarda solo i personaggi (di cui parlano i media) al vertice della politica, o della grande finanza, o delle Università. Ognuno di noi, nel corso della vita, deve a volte abbandonare una scena. Un lavoro, una posizione, un ambiente sociale, una città.
Questi cambiamenti sono poi, oggi, sollecitati dalla postmodernità, in continua trasformazione. Ma più grande è il potere, più avanzata è l’età, e più uscire di scena sembra difficile.
Ancora più difficile poi in un paese come l’Italia, dove la mobilità sociale è abbastanza scarsa, la popolazione è piuttosto avanti con gli anni, il tasso di natalità è il più basso d’Europa, e i vertici sono per la maggior parte occupati da persone anche molto anziane. L’idea che chi è avanti negli anni debba farsi da parte è invece forte, infatti, nelle società più giovani, dove la spinta al cambiamento è più intensa.
L’uscita di scena, però, non è solo un problema di età. Come il teatro rappresenta molto bene, sono proprio le scene, gli ambienti, i contesti, le situazioni a cambiare. Così l’attore che dominava in un atto precedente si trova, poco dopo, spaesato. Spesso non accetta la situazione, vuole rimanere al centro; ma non ha più la battuta giusta, gli altri non capiscono di cosa parla. Allora resiste, diventa rissoso, e alla fine deve appunto uscire. È un rischio frequente.
Per evitarlo occorre esercitare la dote più richiesta dalle società postmoderne: la flessibilità. Una qualità nota da tempo, descritta anche in detti popolari delle regioni del sud Italia, che celebrano la capacità della canna di piegarsi all’infuriare del vento, per poi riprendersi quando il vento cambia. La flessibilità postmoderna, però, non richiede solo di sapersi piegare (evitando così di venire spezzati), ma anche di trapiantarsi in altri terreni.
Chi scrive ha fatto a lungo il giornalista, prima di calarsi nella psiche delle persone, e di tornare poi agli insegnamenti universitari da cui era partito (in altri paesi); molti hanno lasciato le loro imprese per entrare nel no profit; mentre invece il portiere Buffon difende ancora le sue porte, ma ha intanto comprato la Zucchi, una delle più tradizionali imprese tessili italiane. Insomma, per uscire felicemente di scena occorre prestare grande attenzione ai cambiamenti che in essa (soprattutto dietro le quinte), ed anche in noi, stanno avvenendo, per prepararsi alla scena successiva. Che l’ex protagonista farebbe bene anzi ad allestire attivamente (anziché rimanere impigliato nella precedente), dato che la vita umana, soprattutto oggi, non ha al massimo tre atti cui siamo abituati a teatro, ma molti di più.
Sia la rapidità dei cambiamenti sociali che quella delle trasformazioni delle cellule cerebrali ci consente di interpretare molti ruoli durante la vita, e di muoverci all’interno di scenari impensabili fino a poco prima. Per farlo, però, è necessario accettare il cambiamento come fatto non certo ideologico, ma innanzitutto biologico (e forse trascendente: l’invito a «nascere di nuovo» che fa Gesù a chi gli chiede consiglio).
Il nostro cervello è plastico, pronto ed anzi desideroso di cambiare: per farlo, però, attende istruzioni, vuole sapere come, e in che direzione andare. Siamo noi che dobbiamo «immaginare» la scena successiva, siamo noi che dobbiamo essere capaci di «visione», come la chiamano gli anglosassoni. Il cervello poi, come un bravo regista-produttore, ci aiuterà a trovare il modo di realizzarla.
Una cosa, però, è indispensabile: accettare il cambiamento. Anzi farne la propria nuova, grande passione.