Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Con l'alibi della democrazia

Con l'alibi della democrazia

di Marco Tarchi - 15/06/2011

 http://www.ilgiornalista.unisa.it/sezioni/IIIbiennio_esteri/marzo%202011/29032011_libia3.jpg

Il mondo in cui viviamo, ci sentiamo ripetere un po' in tutte le sedi da un abbondante paio di decenni, ha oltrepassato l'epoca delle infatuazioni ideologiche e dei pregiudizi che a lungo ne erano derivati. Una volta lacerato il velo d'ignoranza che quei condizionamenti avevano tessuto, ci troveremmo dunque a dover fare i conti con le cose nude e crude e, congedate le astratte diatribe, saremmo obbligati a muoverci, finalmente, sul terreno della prassi. Le opinioni pubbliche, si dice con crescente frequenza, esigono risposte concrete a problemi reali. Gli eterei dibattiti sui modelli ideali di società, sui traguardi luminosi dell'umanità e sulle presunte incarnazioni del Paradiso in terra che hanno ubriacato le folle del ventesimo secolo sarebbero diventati relitti da museo, passatempi per sparute conventicole incapaci di prendere la misura dei tempi nuovi.
Così, non c'è dubbio, pretenderebbe che stessero le cose secondo la vulgata massmediale. Ma chiunque getti un'occhiata al di là della cortina fumogena delle interpretazioni che ci vengono somministrate quotidianamente da stampa, radio, televisione e siti internet, qualche dubbio fatica a non farselo venire. Davvero l'era della propaganda, delle versioni di comodo degli eventi propinate per servire gli interessi di questa o quella parte politica, economica o di altra natura, delle litanie allarmanti o consolatrici intonate per allargare la platea dei fedeli e zittire i riottosi si è conclusa, sostituita da una fase storica nella quale l'intelligenza e il senso critico degli individui possono finalmente liberarsi? Prendiamo qualche esempio di quest'ultimo periodo per sincerarcene.
Mentre scriviamo, è ancora in atto la più recente —almeno finora — delle "guerre umanitarie" scatenate dai garanti del presunto ordine mondiale, stavolta contro la Libia di Gheddafi. Voluta da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d'America, avallata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu, perpetrata dalle truppe della Nato e spalleggiata dalla Corte di giustizia dell'Aia, di nuovo propensa a dirigere le proprie malevole attenzioni solo nella direzione di chi disturba i sonni e i desideri dell'Occidente, la massiccia operazione militare è stata ufficialmente motivata dal proposito di «preservare la popolazione» libica dalle violenze di cui sarebbe stata oggetto da parte delle truppe del governo in carica. E formalmente si atterrebbe a questo limite di mandato imposto (si fa per dire) dalle Nazioni Unite (e travestito, in un primo momento, da «imposizione di una no fly zone»). È impossibile, a chi non abbia interessi da difendere nel conflitto, non rilevare la falsità di una simile lettura dei fatti. I quali, se vengono presi per quello che sono, ci dicono invece che l'intervento militare occidentale in Libia non è stato altro che il frutto della decisione di alcuni governi, che ne hanno trascinati altri meno convinti nell'avventura, di intromettersi in una guerra civile in atto, per determinarne le sorti ad esclusivo vantaggio di una delle parti, con la quale, come è pressoché immediatamente emerso, erano già stati sottoscritti accordi di sostegno (si pensi alla presenza sul campo di agenti delle forze speciali britanniche e alla disponibilità di armi pesanti da parte dei ribelli). Ogni altra argomentazione puzza di ipocrisia scientemente preparata. In nessun conflitto intestino, combattuto tra sostenitori di cause opposte all'interno di città, province e quartieri, spesso casa per casa, i civili sono indenni da rischi; ma sganciare in dosi massicce potenti bombe su zone abitate massacrando quelli che sono capitati dalla parte "sbagliata" a profitto di altri, residenti nelle zone controllate dai "buoni" — armati di tutto punto e arroccati nei caseggiati — e pertanto cannoneggiati dai "cattivi", significa obbedire ad un unico principio: fare agli altri, pur di sconfiggerli, quello che, se è fatto ai propri, viene giudicato inaccettabile.
Occorre, su questo punto, un sovrappiù di chiarezza. Una considerazione realistica della politica — anche, e soprattutto, quando se ne constata una classica estensione sul terreno bellico — non porta a scandalizzarsi di avvenimenti di questo tipo: da sempre, infatti, le potenze hanno sfruttato ai propri fini i dissidi tribali, gli scontri di fazioni e/o gli odii etnici esistenti in paesi meno forti, per imporre loro alleanze o sudditanze e guadagnare influenza, risorse e basi strategiche. E non sono mai andate per il sottile nell'impiego dei mezzi per raggiungere i risultati. Quello che non può non lasciare interdetti è che, a più di vent'anni dalla definitiva chiusura di quella guerra fredda nel cui nome erano state giustificate le azioni più discutibili dei paesi-guida del "mondo libero", disposti a sostenere ogni tiranno, per sanguinario che fosse, e a dargli una mano magari pesante nell'annientamento di insorti e ribelli che gli si opponevano, purché costui si prendesse la briga di svolgere un'azione di «contenimento della minaccia comunista», i paesi che inalberano il vessillo della democrazia insistano nel non ammettere le vere ragioni dei comportamenti che adottano in casi del genere e continuino ad attingere abbondantemente al repertorio della mistificazione e della menzogna. Spacciando gli interessi da cui sono mossi per irrinunciabili presupposti etici e negando sistematicamente gli atti di violenza che commettono.
Lo scenario libico ci sta offrendo un esteso repertorio di questi comportamenti disdicevoli: uccisione di un figlio e tre nipoti del rais (nel tentativo sin qui non riuscito di sbarazarsi di lui), stragi di religiosi, bombardamenti omicidi di edifici pubblici privi di qualsiasi rilievo bellico e così via. E anche di fronte alle riprese televisive che mostrano macerie e sangue dei luoghi colpiti, l'atteggiamento degli aggressori, e — dato ancor più spregevole — dei canali di comunicazione che li spalleggiano - è lo stesso: negare, minimizzare, fornire evasive scuse per i «danni collaterali» involontari (perché, va da sé, involontarie sono le vittime provocate dai bombardieri della Nato nei loro raids di spaventosa potenza, mentre volontarie sono quelle causate dai carri armati, dai cannoni e dai mortai dei governativi libici). Né si può tacere di fronte al fatto che anche sul terreno più immediatamente politico, ancora una volta, sono le giravolte improvvise, le inversioni di rotta frettolosamente operate, le furbe amnesie a farla da padrone, per consentire di designare come nemici da sempre esecrati gli amici di ieri: Gheddafi come Saddam Hussein e come i tanti altri che sono stati costretti a recitare questo ruolo prima di loro (1).Cosa consente di mascherare questa realtà e di annegarla nelle "cornici di senso" (i frames ben noti agli studiosi di comunicazione politica) spacciate dai mass media, per suscitare l'avallo, o quantomeno l'indifferenza, dei cittadini di paesi lontani, psicologicamente ancor più che fisicamente, dal palcoscenico del conflitto? La risposta a questa domanda è: una ideologia. Assoluta, impenetrabile al dubbio, circonfusa di un alone di sacralità ed intoccabile a rischio di severissime punizioni per i trasgressori —né più né meno di quelle che l'hanno preceduta nel contesto del tanto deprecato "secolo breve" nel quale hanno celebrato i loro successi i regimi totalitari. L'ideologia liberale dei diritti dell'uomo, sotto la cui egida ogni brutalità è possibile, ogni aggressione è giustificata, ogni distorsione della verità è ammessa e auspicata, ogni diffamazione dei dissidenti viene attuata, ogni divieto di espressioni sgradite è lecito, purché ognuna di queste lesioni ai principi astrattamente proclamati vada a profitto della "giusta causa". E sulla scia di questa ideologia, la parola d'ordine del «niente libertà per i nemici della libertà», che ha contrassegnato le pagine più oscure della rivoluzione del 1789 e molti dei successivi sviluppi di quello stato d'animo che le aveva rese possibili, è ritornata in auge — semmai si fosse per qualche tempo eclissata, e per molti versi c'è da dubitarne.
La forza cogente della propaganda che questa ideologia riesce a suscitare è tale da sottrarre, in molte menti, il giudizio sui fatti al dominio della logica. Nessun individuo normalmente raziocinante, per fare un esempio evidente, presterebbe infatti fede alle motivazioni che il governo statunitense ha addotto per giustificare la procedura quantomeno anomala adottata prima, durante e dopo l'eliminazione di Osama bin Laden: a partire dalla mattanza del nemico disarmato, passando per il rifiuto di mostrare le foto del cadavere a un'opinione pubblica troppo impressionabile e infine giungere al frettoloso funerale religioso (almeno la forma politically correct va salvata!) in alto mare con conseguente inabissamento della salma. Nella meno peggiore delle ipotesi, gli risulterebbe lampante che la sconcertante messinscena doveva servire a due scopi: sostituire la vendetta sommaria alla giustizia, per compiacere una propensione della mentalità yankee ben nota a chi ne frequenta letteratura e cinema, e nel contempo impedire allo "sceicco del terrore" (formula di successo ben studiata per impressionare ulteriormente il pubblico) di servirsi di un'aula di tribunale per far conoscere all'opinione pubblica dei paesi islamici, e non solo, le ragioni del proprio operato, replicando per la prima volta in via diretta e sotto i riflettori dei media all'accusa di non essere soltanto un folle terrorista assetato di sangue "infedele", così come è sempre stato descritto dai suoi nemici. E probabilmente gli insorgerebbe più di un dubbio sulla bontà di alcune delle provvidenziali "scoperte" effettuate dal commando a stelle e strisce nel covo pakistano del leader di Al-Qaeda, tutte convergenti a squalificarne post mortem la figura agli occhi dei potenziali sostenitori: prima i flaconi di "viagra vegetale" (sic), poi i televisori atti agli "svaghi borghesi" (si è letto anche questo), infine — per ora — le pubblicazioni e i video pornografici. Invece, grazie all'assicurazione che «senza Bin Laden il mondo sarà migliore» — affermazione fatta, pari pari, dall'amministrazione Usa e da molti commentatori dopo la cattura, e la successiva impiccagione, del "mostro" precedente, Saddam Hussein, ed è passato abbastanza tempo per poterne valutare la fondatezza —, tutte queste evidenti prove di ipocrisia e falsificazione della verità sono scivolate via in fretta dalle prime pagine dei quotidiani e dal prime time televisivo, e con esse è svanita ogni curiosità dell'opinione pubblica. Alla faccia di quelle esigenze di trasparenza delle azioni dei governanti che già Norberto Bobbio aveva inserito nel suo attento catalogo delle «promesse non mantenute della democrazia».
Citando quest'ultima parola tocchiamo il nervo più scoperto della questione. Perché la grande droga ideologica del nostro tempo, che condiziona l'immaginario collettivo in gran parte dei paesi del globo, intorpidisce le coscienze di molti individui e stimola a comando le reazioni delle popolazioni si fa forte del richiamo al concetto-talismano di democrazia. Distorcendone strumentalmente ed efficacemente i contenuti originari, lo stesso etimo, e piegandolo alle esigenze della potenza che, vestendo i panni più ampi dell'Occidente ma mantenendo saldamente il domicilio a Washington e dintorni, dispiega passo dopo passo i propri progetti di definitivo e incontrastato dominio planetario.
L'ideologia dei diritti dell'uomo appare di fatto sempre più, come la dottrina ideata per fornire ad Usa, alleati e complici l'alibi per debellare ogni focolaio di possibile opposizione, con ogni mezzo, ovunque si manifesti. E a sostenerla è una visione della democrazia — termine "magico", che evoca ormai agli occhi di una larga maggioranza di individui l'idea del migliore dei mondi possibili, il punto d'arrivo del lungo cammino della Storia destinato a dar vita ad un Eterno Presente ormai alle porte — che ha ormai pochissimi rapporti con il significato che la radice etimologica le assegnerebbe. Nella visione dei suoi apologeti liberali, questa forma di regime non sta infatti più a sancire il diritto dei cittadini ad autogovernarsi, scegliendosi le guide che preferiscono, e non indica nemmeno più un insieme di procedure che regolino correttamente questa scelta. Si riduce ad etichetta da apporre sui governi amici e da negare a quelli nemici, comunque siano stati nominati e di qualunque grado di consenso godano. Adottando questa versione stravolta del concetto di democrazia, è possibile oggi dichiarare democratica un'insurrezione gradita contro i poteri costituiti di uno Stato e negare analogo valore alle manifestazioni di sostegno, per moltitudinarie che siano, che dimostrano l'appoggio di cui gode la parte sgradita — lo si vede oggi in Libia nella sperequazione dei giudizi fra quanto avviene a Bengasi o a Tripoli, ma anche a Damasco piuttosto che in altre città siriane, e lo si è visto anche in Libano o in Iran, quando le piazze dei sostenitori di Hariri o della "rivoluzione verde" erano dichiarate spontanee e quelle di Hezbollah o di Ahmadinejad obbligate e teleguidate —, salvo magari un domani rovesciare retroattivamente il giudizio nel caso in cui gli esiti dell'insurrezione smentissero le speranze (insediando, magari, un governo integralista al posto di quello laico caduto) e derubricare le folle già esaltate a masse di ottusi fanatici. Si può, in questa prospettiva, giungere a negare il valore delle elezioni ed elogiare i colpi di Stato che ne sovvertono gli esiti (2). Perché quello che conta, per i cultori della nuova egemonia ideologica, soffocatrice di ogni autentico e dichiarato dissenso, è che ad esercitare il predominio sulle mentalità e sui comportamenti siano i Sacri e Immortali principi da loro osannati.
Come a dire: cambiano le epoche e i colori scelti dalle fazioni in campo, ma non è ancora nato chi possa cambiare la sostanza della politica, che al di là delle rappresentazioni di comodo rimane succube, in ogni sua forma, della brama di potere e delle contese scatenate per raggiungerlo, e ad esse subordina ogni altra considerazione. Come sempre, se non ancor più che nelle epoche precedenti, il fine giustifica i mezzi, di chi comanda e di chi vorrebbe prenderne il posto. Cambiano solo, adeguandosi allo spirito dei tempi che si succedono, le formule scelte per mascherare questo dato di fatto. Ci si può appellare al popolo, alla nazione, alla classe, alla democrazia, alla tradizione, ai diritti dell'uomo e magari a Dio. Ma la sopraffazione e l'inganno continuano a farla da padroni.

NOTE
1. In questo contesto, l'Italia non ha mancato di fare la sua pessima figura, con le straordinarie esibizioni del ministro degli Esteri Frattini, che non perde occasioni per sputare veleno e disprezzo sul presidente libico, rivendicando una ostilità di lunga data nei suoi confronti, quando i dati di fatto dimostrano tutt'altro atteggiamento. Basti pensare che solo il 17 gennaio 2011, intervistato da Maurizio Caprara,
Frattini dichiarava testualmente "Credo si debbano con forza i governi di quei paesi [...] nei quali ci sono re o capi di Stato che hanno costruito regimi laici tenendo alla larga il fondamentalismo. [...] Adesso il processo deve continuare» e, alla domanda «Come, secondo lei?», rispondeva: «Faccio l'esempio di Gheddafi. Ha realizzato una riforma che chiama "dei Congressi provinciali del popolo": distretto per distretto si riuniscono assemblee di tribù e potentati locali, discutono e avanzano richieste al governo e al leader. Cercando una via tra un sistema parlamentare, che non è quello che abbiamo in testa noi, e uno in cui lo sfogatolo della base popolare non esisteva, come in Tunisia. Ogni settimana, Gheddafi va lì e ascolta. Per me sono segnali positivi» («Arginare il fondamentaiismo. E questa la priorità dell'Europa». Frattini indica Gheddafi come modello per il mondo arabo», in «Corriere della Sera», 17.1.2011, pag. 13).

2. Esemplare, in proposito, l'articolo di Giovanni Belardelli, Tunisi e la rivolta dai troppi lati oscuri, in «Corriere della Sera», 16.1.2011, pagg. 1 e 32, dove si legge fra l'altro: «Fu un bene o un male che nel 1979 il regime autoritario di Reza Pahlavi venisse abbattuto dalla rivoluzione khomeinista? O che nel 1991 un colpo di Stato militare in Algeria evitasse la presa del potere per via elettorale del Fronte islamico di salvezza? Proprio l'episodio appena citato rappresenta uno degli esempi più noti di quali siano i problemi collegati all'introduzione della democrazia, intesa in primo luogo come libere elezioni a suffragio universale, fuori dei confini europei e nordamericani. [...]  in molte aree, in particolare negli Stati di cultura e religioni islamiche, l'introduzione di procedure elettorali può aprire la strada all'affermazione, per via appunto democratica, di partiti fondamentalisti». Si noti come i corifei dell'ideologia liberale giudichino i costi umani dell'introduzione per via di violenza di regimi che considerano affini, o comunque meno peggiori di quelli avversati. In Algeria, si tessono le lodi di un colpo di Stato che non solo ha cancellato la decisione democratica di un popolo, espressa secondo corrette procedure elettorali, ma ha provocato centinaia di migliaia di vittime. Meglio quella carneficina di un governo «di partiti fondamentalisti», a prescindere da ogni considerazione sui suoi atti concreti, che con ogni probabilità, se i militari fossero rimasti nelle caserme, sarebbero stati del tutto pacifici. Lo stesso ragionamento lo abbiamo sentito esprimere dai liberali in relazione all'Iraq o all'Afghanistan: molto meglio aver provocato centinaia di migliaia di cadaveri — quasi tutti civili innocenti — che aver mantenuto al potere Saddam Hussein o il mullah Omar, godessero o no del consenso di una maggioranza delle loro rispettive popolazioni(una ipotesi che il grado estremo di resistenza degli insorti antioccidentali rende assai credibile). E questi ayatollah del liberalismo hanno il coraggio di chiamare democratiche affermazioni di questa natura...