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La Turchia di Erdogan non rimpiange l’Europa

di Aldo Sofia - 16/06/2011

Fonte: laregione

 

 

Un trionfo che non è un plebiscito, si dice della Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che ha stravinto le elezioni per il rinnovo del parlamento. Senza tuttavia raggiungere il quorum di deputati (ce ne sarebbero voluti 367 su 550) che avrebbe offerto al premier la possibilità di cambiare la Costituzione senza il concorso di altri partiti. Certo, ad Ankara il “mercatino” dei voti non è pratica così inusuale. E per l’uomo che, col 50 per cento dei suffragi, diventa premier per la terza volta consecutiva, non dovrebbe essere impossibile conquistare un pugno di deputati con una disinvolta “campagna acquisti”.

Ma per farne cosa? Ufficialmente per dare alla Turchia un sistema presidenziale, portare Papa Tayyip ai vertici dello Stato, e consentirgli di diventare il “secondo padre della patria” quando nel 2023 si celebrerà il centesimo anniversario della Repubblica laica fondata da Kemal Atatürk. Detta così, sarebbe dunque unicamente o soprattutto l’ambizione dell’uomo che vuole entrare nella storia. Ma sarebbe un abbaglio.

In effetti, la Turchia di Erdogan, pur con tutti i progressi innegabilmente compiuti nel campo dei diritti umani, presenta ancora un netto deficit di democrazia.

La facilità con cui viene affibbiato il reato di “crimine contro lo Stato”; la detenzione di giornalisti accusati di attività contro la sicurezza del Paese; la presa della potente e oscura setta islamica di Fethullah Gülen su vari settori dell’amministrazione e della polizia; la minoranza curda costretta a presentarsi alle elezioni (con successo) sotto una sigla che non fa cenno alla loro appartenenza comunitaria: tutto questo, e altro ancora, giustifica l’allarme lanciato anche da giornali come l’Economist e il New York Times di fronte all’ipotesi che l’Akp potesse sbriciolare l’opposizione garantendosi non solo un altro governo monocolore ma addirittura un potere pressoché assoluto.

Una minaccia tutt’altro che teorica, visto che l’unico vero contraltare allo strapotere di Erdogan, cioè l’esercito un tempo garante del laicismo dello Stato, sembra essere definitivamente, e fortunatamente, rientrato nelle caserme.

In attesa dunque di capire come Erdogan gestirà la scontata vittoria, e soprattutto se non vi saranno defezioni da parte di deputati socialdemocratici e nazionalisti che potrebbero finire presto sotto pressing, il voto consolida l’immagine di una Turchia politicamente stabile sotto la guida di un partito islamico di impronta moderata. Una Turchia che da molte parti viene indicata quale possibile modello per i Paesi arabi in cerca di uno sbocco democratico. Una Turchia in bilico sulla cerniera fra Europa e Asia, il Paese più a est dell’Occidente e il più a occidente dell’Est. Che ha perso in gran parte la speranza che l’Europa gli apra la porta dell’Unione; ma che sembra aver già elaborato la delusione, e con successo.

Una crescita economica dell’8,5 per cento contro l’1,5 per cento dell’Europa. Un reddito pro capite passato da 2.300 a 11 mila dollari all’anno dal 2005. Quindicesima economia mondiale in base al Pil, spinto dal vettore degli investimenti stranieri. “E che da qui al 2050 potrebbe diventare la nona potenza economica, superando anche Germania e Giappone”, avverte lo specialista Charles-Henri Kerkove. E c’è chi, di fronte a queste cifre, ha detto che senza Europa la Turchia ci ha guadagnato più dell’Europa senza Turchia.