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Umberto Cosmo e la polemica del 1918 su Caporetto come una seconda Novara

di Francesco Lamendola - 20/06/2011




Quando un Paese entra in guerra, coloro che si sono opposti a quella decisione costituiscono automaticamente dei “nemici interni” o, quanto meno, un fattore di debolezza morale, che potrebbe incrinare la saldezza della nazione ed, eventualmente, essere anche responsabile di un cedimento delle truppe al fronte?
Per rispondere a questa domanda, in primo luogo bisognerebbe distinguere tra guerra difensiva e guerra offensiva; e, nel caso dell’Italia nel 1915, non v’è il minino dubbio che si sia trattato di una guerra offensiva, per giunta contro le sue ex alleate della Triplice.
Ora, è vero che l‘Austria, intimando l’ultimatum alla Serbia senza minimamente informarne l’Italia (mentre  si era consultata, eccome, con la Germania), aveva dato a questa tutte le ragioni per non intervenire al suo fianco, tanto più che la Triplice era una alleanza difensiva e non offensiva; però, nell’evoluzione dalla neutralità all’intervento contro un ex alleato, ce ne corre, perché il passo è decisamente lungo.
In secondo luogo, bisogna distinguere fra regimi democratici e regimi autoritari. L’Italia del 1915 non era ancora una democrazia, ma piuttosto una monarchia parlamentare con elementi di democrazia in sviluppo: un Paese dove le elezioni erano largamente influenzate dalla corruzione e dalla violenza; dove gli scandali politici erano all’ordine del giorno; e dove, nonostante il nuovo orientamento di Giolitti, la forza pubblica tendeva a intervenire con mano pesante nei conflitti di lavoro, anche sparando sui lavoratori.
Sebbene il suffragio universale (maschile) fosse entrato in vigore proprio nel 1912, il peso della corona nella vita politica era ancora così grande da consentire a Vittorio Emanuele III di attuare una specie di colpo di Stato, allorché rifiutò di accogliere le dimissioni del presidente del Consiglio Salandra che, insieme al ministro degli Esteri, Orlando, aveva sottoscritto con le potenze dell’Intesa il Patto di Londra, venendo poi, però, sconfessato dal Parlamento, che era neutralista a larga maggioranza.
Secondo lo Statuto albertino, spettava al re e non al Parlamento dichiarare la guerra; per cui il respingimento delle dimissioni di Salandra metteva il Parlamento stesso nel grave dilemma di sconfessare il re medesimo, oppure di evitare una crisi costituzionale senza precedenti, uniformandosi alla volontà interventista del governo e del sovrano; e fu questo ciò che avvenne, in un clima di gravissime intimidazioni contro i neutralisti (con D’Annunzio che incitava la folla a linciare «il boia labbrone i cui calcagni di fuggiasco sanno la via di Berlino»), ossia il capo riconosciuto dello schieramento neutralista, Giovanni Giolitti.
Ora, se in una democrazia compiuta il consenso popolare ad una guerra offensiva è assolutamente indispensabile, perché diversamente l’esercito e il popolo non ne sopporterebbero i lutti e i sacrifici, specie in una guerra dura e prolungata, in un regime autoritario, come lo erano quello zarista e, in minor misura, quelli austriaco e germanico, vi è bisogno, sì, di un consenso dal basso, ma non attraverso la mediazione del Parlamento.
Abbiamo visto che l’Italia non aveva né un regime pienamente democratico, né un regime del tutto autoritario (eventualità, quest’ultima, profilatasi per un momento con il generale Pelloux e con la “crisi di fine secolo”, ma subito rientrata), in cui le masse non erano ancora entrare a pieno titolo, se non formalmente, nella vita politica del Paese; tanto è vero che solo a guerra finita nascerà il partito dei cattolici e si svilupperà in modo proporzionato il partito socialista.
Le istituzioni e la cultura politica dell’Italia del 1915 erano il risultato di un compromesso fra il Parlamento, che contava poco, e alcuni gruppi di pressione i quali contavano, invece, moltissimo (ad esempio, le pubbliche autorità avevano informato Giolitti di non essere in grado di garantire la sua sicurezza contro le violenze degli interventisti); esistevano, quindi, le premesse per una esautorazione del Parlamento stesso da parte di altri poteri, la monarchia in primis, ma anche, eventualmente, di gruppi extra-legali, come lo saranno, negli anni dell’immediato dopoguerra, quelli degli opposti estremismi socialista e fascista.
Sta di fatto che la maggioranza degli Italiani, nel 1914-15, era indubbiamente contraria alla guerra, per di più a una guerra offensiva contro le sue ex alleate; e anche la maggioranza del Parlamento lo era, come testimoniarono le centinaia di biglietti da visita recapitati a Giolitti dai deputati per sostenerlo nella sua scelta neutralista, durante i giorni convulsi che precedettero le “radiose giornate” del maggio 1915.
Trascinato in guerra da una minoranza aggressiva ma eterogenea, che andava dai liberali moderati, ai nazionalisti, ai democratici come Salvemini, agli irredentisti, ai socialisti moderati come Bissolati, a un socialista massimalista come Mussolini, fino ad alcuni sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Corridoni (gruppi che avevano motivazioni ed obiettivi totalmente diversi gli uni dagli altri), il Paese e l’esercito, nel complesso, non mostrarono grande entusiasmo fino a Caporetto, quando la guerra si trasformò da offensiva in difensiva e il pericolo incombente dell’invasione creò una concordia nazionale che, prima, non c’era mai stata.
Caporetto, appunto: è il momento della svolta, non solo militare, ma anche morale: è il momento a partire dal quale i partiti serrano le file e l’esercito in fuga serra i ranghi, dando prova, sul Grappa e sul Piave, di un nuovo spirito di lotta, preludio alla vittoria finale del 1918. Ma, prima di Caporetto, c’era stato un momento in cui sembrava che stesse per ripetersi, in Italia, l’Ottobre bolscevico: in particolare, durante la sommossa di Torino dell’agosto 1917.
Poi, dopo lo sfondamento del fronte dell’Isonzo da parte degli Austro-Tedeschi e prima che la nuova linea difensiva si consolidasse dai monti al mare Adriatico, vi erano state le settimane cupe e angosciose del novembre e del dicembre, le giornate della battaglia d’arresto, quando pareva che nemmeno il Piave sarebbe riuscito a contenere la marea nemica e che questa sarebbe traboccata fino alla Pianura Padana ed oltre.
Passata la grande paura, subito, nel Paese e in Parlamento, si era scatenata la polemica sulle cause morali della disfatta dell’ottobre 1917 (quella sulle cause tecniche, demandata ad una apposita commissione d’inchiesta, si sarebbe risolta, a guerra finita, con un verdetto all’italiana, ossia con l’assoluzione e la promozione del maggiore responsabile del disastro: il generale Pietro Badoglio, l’uomo che un quarto di secolo dopo avrebbe firmato la pagina più vergognosa della nostra storia nazionale, l’8 settembre 1943).
Ansiosi di individuare un responsabile, alcuni giornalisti e uomini politici cominciarono, fin dall’indomani di Caporetto, a insinuare che esso andava cerato tra le file degli ex neutralisti, i quali, essendo sempre stati contrari alla guerra, avevano fatto in modo di sabotare lo sforzo bellico della nazione e, agendo sul piano psicologico e morale, erano riusciti a minare la compattezza dello spirito patriottico e a indebolire la volontà combattiva dei soldati.
Non solo tra i nazionalisti, ma anche tra i moderati prese piede questa interpretazione dei fatti, ad esempio per bocca del liberale Francesco Ruffini che, nel marzo 1918, paragonò Caporetto, in un discorso tenuto al Parlamento, alla disfatta di Novara del marzo 1849.
All’equazione fra Caporetto e Novara rispose fieramente il socialista Umberto Cosmo, insigne dantista e docente universitario, con due articoli su «La Stampa» di Torino, sempre nel marzo 1918, sostenendo l’impossibilità di quel paragone, negando ogni responsabilità morale dei neutralisti nella sconfitta e attribuendo quest’ultima, in primo luogo, ad errori da parte degli alti comandi militari (tesi che, in seguito, la maggioranza degli studiosi ha finito per condividere, anche se rimangono alcuni tenaci difensori del generale Cadorna e della sua strategia delle “spallate”, come lo storico Emilio Faldella, a mostrare quanto l‘argomento sia controverso e, ancor oggi, non completamente risolto sul piano del giudizio tecnico).
A quel punto un collega di Cosmo nella Università di Torino, Vittorio Cian, storico della letteratura e membro dell’Accademia delle Scienze, lo accusò di disfattismo e lo denunciò sia alla magistratura che al Provveditorato agli Studi.
Cian era stato membro fondatore, nel 1910, del Partito nazionalista; ed è difficile dire se vi fossero, oltre alle ragioni di grave dissenso politico, anche delle antipatie e delle rivalità di carattere personale nello scontro fra i due professori: entrambi studiosi della letteratura italiana, entrambi docenti all’Università d Torino, entrambi veneti e quasi conterranei (nativo di Vittorio Veneto il Cosmo, di San Donà di Piave il secondo; ma laureato a Padova il primo, a Torino il secondo); e, comunque, la cosa esula dal significato profondo dell’episodio.
Cosmo, che fu difeso da Benedetto Croce e dal giovane Antonio Gramsci (che era stato suo allievo all’università), uscì assolto dal procedimento penale, mentre ebbe tre mesi di sospensione dallo stipendio da parte del Provveditorato agli Studi.
Al di là dell’esito contingente di questa vicenda, rimane il suo valore esemplare come cartina al tornasole dei malesseri che la nazione, portata in guerra nel modo che abbiamo detto, continuò a vivere tra coloro che avevano fortemente voluto l’intervento e quanti vi si erano opposti; e, più in generale, come occasione per riflettere su quali dinamiche vengano a crearsi allorché una parte consistente di una nazione, e specialmente della sua intellighenzia, abbiano avversato la guerra e, poi, l’abbiano subita malvolentieri.
Scrive Pier Paolo Brescacin nella sua monografia «Umberto Cosmo e la pratica della libertà» (Vittorio Veneto, 1991, pp. 60-63):

«Di fronte a tale campagna di denigrazione, Cosmo sentì la necessità di uscire dalla contemplazione e dal silenzio in cui volontariamente s’era confinato.
Finché la teoria era rimasta confinata a livello di Parlamento, Cosmo non aveva sentito la necessità di replicare. “Non ci eravamo costituiti in tribunale di accusa contro alcuno, e non bisognava turbare il raccoglimento e la preparazione del paese alla sua prova suprema.”(U. Cosmo, “Memoriale di Autodifesa”, p. 6). Ma quando abilmente orchestrata dai nazionalisti cominciò a dilagare sui giornali, nelle discussioni pubbliche, “e Novara diventò , a chi la brandiva, un’arma per colpire i propri avversari politici” (ibidem), Cosmo ruppe gli indugi, e spezzò anch’egli una lancia per il bistrattato partito del neutralismo.
“Intendere la storia per certe ore - dice - non basta: bisogna cooperare a farla” (p. 7). “Urgeva snidare dagli animi quelle persuasioni pervertitrici, dissipare quei misteri svigoriti, dire al paese una parola di verità e concretezza”. E soprattutto spiegare perché “quei soldati che avevano gettato le armi ed eran poi fuggiti, erano pure quegli stessi che ora sul Piave, disorganizzati, senza munizioni, senza armi, compivano miracoli di valore e stupivano il mondo con l’incredibile umanità delle proprie gesta” (“La Stampa”, 7 marzo 1918). “I soldati non sollevano [infatti] l’animo alla vittoria quando s’insinua nel loro sangue il veleno della diffidenza verso i compagni pronti a gettare turpemente le armi al primo assalto nemico. Non [muoiono] al proprio posto solo perché la consegna è di morire, quando dopo tante sofferenze durate, tanti eroismi compiuti, si è rappresentati  ai propri concittadini come dei fuggiti. Non si avanza contro il nemico, non si regge al suo assalto quando l’anima impallidisce” (“Memoriale di autodifesa”, pp. 6-7).
Ed è i questo stato d’animo e con questo intendimento che Cosmo inizia la sua collaborazione con “La Stampa” di Torino del Frassati, di ispirazione giolittiana, uno dei pochi giornali rigorosamente neutralisti sin dagli inizi, che non solo appoggerà in pieno, anzi farà sua la battaglia portata avanti dal Cosmo.
Il suo esordio giornalistico su “La Stampa” avvenne appunto con due articoli all’insegna della confutazione delle tesi avanzate dal Ruffini: “Come ci avviammo a Novara” e “La fatal Novara”, pubblicati rispettivamente il 16 e il 17 marzo 1918.
Documenti storici alla mano, Cosmo smonta pezzo per pezzo, portando fatti e ragioni, l’equazione neutralismo = sconfitta. Iniziando da dove avevano cominciato i detrattori, cioè da Novara.
Le pagine della relazione di inchiesta sul disastro di Novara, dice Cosmo, indicano sì i dissensi tra i partiti, e le manifestazioni di questi dissensi come coefficienti morali  del disastro stesso, ma adducono ben altri fatti come responsabili diretti della sconfitta.
Anzitutto l’impreparazione dell’esercito piemontese. “Si credeva di avere 135.000 uomini… ma in effetti la forza arrivava a neppure 90.000 uomini da mettere in campo, […] di cui la metà uomini troppo avanzati negli anni, padri d famiglia anelanti … a tornare a casa e poco disposti a cimentare la vita; e per la maggior parte del resto nuove reclute non ancora ammaestra tené ritte alla disciplina”. (“La Stampa”, “La fatal Novara”, 17 marzo 1918).Ma la guerra “non si fa coi desideri, né colle speranze, né coll’immaginazione: la guerra si fa coi fatti.” (ibidem.)
E poi i numerosi errori tecnici dei comandanti: basti rileggere le motivazioni della sentenza di morte del generale Ramorino, per rendersi conto del’incidenza di queste cause dirette sull’esito della battaglia.
Ci sono insomma - come dice lo stesso Frassati in un successivo articolo(“La Stampa” del 24 marzo 1918) a difesa del Cosmo - cause e cause: e “le cause secondarie di un fatto non possono essere assunte a coefficienti essenziali.. altrimenti il naso di Cleopatra diventerebbe la causa della sconfitta di Antonio” (ibidem).
Ma non solo: contrari alla guerra, dice Cosmo,sono anche Mazzini e Cavour. E si può dire che essi fossero traditori, venduti al nemico?
Da qualsiasi parte lo si guardi, il sillogismo,  secondo il quale avversare una guerra significa fare del disfattismo e portare alla sconfitta, non sta in piedi. E se ciò è vero per Novara, non si vede perché non possa esserlo anche per Caporetto.
Gli articoli di Cosmo, che usciranno in regime di censura che impietosamente ne taglierà alcune parti, non mancarono di trovare “acconsentimento in tutta Italia, di uomini venerandi per dottrina e per virtù patrie, di cittadini e di sodati di ogni ordine”(“Memoriale di Autodifesa”, p. 7) per la copiosità dei fatti addotti e la logica stringente delle ragioni riportate. Lo stesso Ruffini ed il “Corriere della Sera” finirono per riconoscere, implicitamente, errata la tesi che addossava al disfattismo morale la sconfitta di Novara (Anonimo = Antonio Gramsci, “Professori ed educatori“, in Avanti!”, 27 aprile 1918, dando così ragione alle argomentazioni di Cosmo.»

Avevamo iniziato questa riflessione chiedendoci se i cittadini che si oppongono a una guerra diventino inevitabilmente, una volta che essa sia scoppiata, dei “nemici interni”; e ci rendiamo conto di non essere riusciti a rispondere in maniera chiara ed univoca.
È chiaro che una guerra, che è il cimento supremo nella vita di una nazione (almeno quando si tratta di una guerra per i suoi interessi vitali), avrà tante maggiori prospettive di vittoria per quel popolo che, a parità di armamenti e di abilità strategica dei comandi rispetto al nemico, sappia accettarla e sopportarne i relativi sacrifici con animo forte, il che è possibile solo se esso è realmente persuaso che sia in gioco qualcosa di essenziale.
Nel caso dell’Italia del 1915, ma un discorso analogo si potrebbe fare per il 1940, è evidente che il popolo italiano non aveva tale intima persuasione: la trovò solo dopo Caporetto, quando vide la Patria gravemente minacciata; mentre, dopo lo sbarco alleato in Sicilia del luglio 1943, non la trovò affatto, anzi vi furono l’8 settembre e la “morte della Patria”, quel collasso morale dal quale, probabilmente, non siamo ancora usciti neppure oggi, a tanti anni di distanza.
Ma, per tornare alla questione di ordine generale: in che misura le critiche, il dissenso, che sono essenziali a una democrazia, possono conciliarsi con lo sforzo bellico di una nazione e con l’evidente necessità di non minare lo spirito combattivo delle forze armate, di non “pugnalarle alle spalle” mentre si stanno battendo contro il nemico?
Anche a questa domanda è difficile dare una risposta certa: le critiche sono, effettivamente, dannose per il morale di un Pese in guerra: ciò dimostra la fondamentale incompatibilità tra guerra e democrazia.
Bisognerebbe dunque che un governo democratico, allorché decide di fare una guerra, si assumesse la responsabilità di sospendere le garanzie costituzionali.
E di non farlo in maniera strisciante, ipocrita, come negli Stati Uniti dopo il settembre 2001, quando un semplice sospetto è divenuto sufficiente per spedire nell’inferno di Guantanamo i nemici esterni e per arrestare qualsiasi “nemico interno”, senza neppure uno straccio di “habeas corpus”, sbattendolo in prigione a tempo indeterminato.
«Ma tanto, si tratta dei malvagi più malvagi», si giustificò tranquillamente, all’epoca, il presidente statunitense Bush junior: abolendo di fatto, con queste poche parole, la chiave di volta dell’intero sistema giuridico liberaldemocratico.
L’ipocrisia democratica, però, diventa ancora più grande e veramente insopportabile, quando - come ormai abitualmente avviene - ci si rifiuta di dichiarare la guerra a un altro Stato: la si fa, ma non la si dichiara; peggio: la si denomina “operazione di pace”…