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Disperso in Libia il generale Sarkozy

di Cesare Martinetti - 20/06/2011




Chi ha visto il generale Sarkozy? A tre mesi dall’inizio delle operazioni in Libia il presidente appare disperso in battaglia. L’Eliseo ha celebrato sabato il 71° anniversario dell’appello di De Gaulle alla Francia occupata: «La fiamma della resistenza francese non si spegnerà...». Ma dell’altro anniversario, nessuna notizia.

Più ravvicinata e più modesta, anche la campagna contro Gheddafi era cominciata con un proclama: «Accompagniamo la Libia verso un nuovo avvenire...». Sono passati novanta giorni e non si è detto una parola. Sul sito dell’Eliseo (www.elysee.fr) campeggia tuttora una grande foto del vecchio De Gaulle. E del «generale» Sarkozy non c’è traccia.

Eppure il presidente francese s’era lanciato da tempo in un forcing diplomatico irresistibile. Mentre i «Mirages» da giorni scaldavano i motori nella base di Solenzara (alta Corsica), fin dal 24 febbraio la Francia aveva chiesto una riunione urgente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, quello stesso giorno monsieur le président ne aveva parlato al telefono con Obama, tre giorni dopo con il premier inglese Cameron e subito dopo con il presidente Ue Van Rompuy. Il Consiglio europeo si riuniva finalmente l’11 marzo, il 17 il consiglio di sicurezza dell’Onu approvava la risoluzione n. 1973 in difesa della popolazione civile libica.

Il 18 marzo Sarkozy è finalmente in condizione di indirizzare un «messaggio molto chiaro» al colonnello Gheddafi parlando a nome di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e con il sostegno dell’emiro del Qatar: «Siamo pronti ad usare tutti i mezzi necessari, in particolare militari, per bloccare l’azione criminale e assassina del governo libico contro il proprio popolo... È nostro dovere intervenire». Cominciano i raid aerei. Il 22 Sarkozy fa un blitz a Solenzara per congratularsi con i piloti impegnati negli attacchi che, dichiara, «hanno già permesso di limitare il numero di vittime civili». Poi chiama Obama al telefono per «fare il punto». Il 24 il presidente francese comunica al Consiglio europeo che gli Emirati Arabi si sono uniti alla coalizione. Il 28 marzo, riuniti in videoconferenza, Sarkozy, Cameron, Obama e una riluttante Angela Merkel si esprimono a favore della «transizione politica» in Libia. Intanto la Francia è il primo Paese a riconoscere il governo «ribelle» di Bengasi: il ministro degli Esteri Alain Juppé lo annuncia al suo primo manifestarsi dalla piazza cairota di Tahrir e il «presidente» Jalil viene ricevuto con una certo solennità all’Eliseo.

Sono passati, appunto, tre mesi e il dossier libico è praticamente scomparso dai radar dei media francesi: nulla di nuovo sul sito dell’Eliseo, silenzio sulle operazioni militari, il generale francese Abrial dal comando della Nato dice che se i combattimenti continuano si rischia di rimanere a corto di mezzi, eppure i giornali ne riportano appena la notizia. Nessuna polemica, nemmeno dall’opposizione, perché vige la regola «repubblicana» secondo cui la politica estera non è quasi mai oggetto di contesa tra i partiti. L’unica vera querelle, secondo un rito tanto caro ai parigini, è stata culturale: l’interventista pentito Claude Lanzmann (il grandissimo regista di Shoah e tuttora direttore della rivista di Sartre Les Temps Modernes) contro l’interventista convinto Bernard-Henri Lévy, ispiratore di Sarkozy. Eppure anche i socialisti hanno approvato. Nessun dibattito in Parlamento. L’ultima audizione di Juppé all’Assemblée è del 4 maggio: «Gheddafi deve andarsene...», ha detto il superministro degli Esteri. Ma Gheddafi è sempre là.

Com’è accaduto che l’astuto Sarkò rischia di impantanarsi in una nuova guerra d’Algeria? «Atavismo bonapartista», risponde Edwi Plenel, ex direttore della redazione di Le Monde ora alla guida del quotidiano online Mediapart (www.madiapart.fr), grintosissimo giornale di opposizione. Ma c’è qualcosa di più: calcolo politico, tentazione neocoloniale e naturalmente business. La Francia è stata colta impreparata dalle rivolte arabe, il ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie ha dovuto dimettersi per la sua vicinanza al tiranno tunisino Ben Ali, il primo ministro François Fillon ha rischiato la stessa fine per la prossimità con il regime di Mubarak. Lo stesso Sarkozy ha lasciato la sua firma (che Chirac aveva invece rifiutato) sul libro d’oro degli ospiti del colonnello Gheddafi a Bab Azizia: «Sono felice d’essere qui a parlare del futuro». Erano solo due anni fa e in quel «futuro» c’era Total, Alstom e Areva, petrolio, trasporti e un reattore atomico per dissalare l’acqua del mare. Ma Wikileaks ha rivelato un dispaccio con la delusione dei diplomatici francesi sul finire del 2010: «Questi parlano parlano ma non comprano mai niente».

In questo contesto le rivoluzioni arabe offrono all’Eliseo il modo di rientrare nella partita mediterranea, sfuggita all’ambizione sarkozista affermata all’inizio della presidenza di rilanciare il ruolo francese sul Maghreb. Il tam tam delle rivolte di Tunisi e del Cairo consente anche alla Francia di indossare l’abito che le si addice di difensore perenne di diritti umani dei giovani arabi, strizzando insieme l’occhio alle sue banlieues inquiete.

Un calcolo sbagliato? Vedremo. Liberatosi dall’incubo di dover affrontare Strauss-Kahn tra un anno alle presidenziali, si trova a fare i conti con il fantasma di Gheddafi. E per ora, rimesso nell’armadio il képi blanc, il generale Sarkò deve cedere le insegne all’unico vero generale transitato per l’Eliseo: De Gaulle.