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Il progressismo reazionario

di Alessio Bava - 20/06/2011



Riceviamo e pubblichiamo

Ciò che apparentemente sembra un ossimoro si profila con sempre più concretezza nella realtà effettuale odierna: il “progressismo reazionario”. I due termini sono storicamente antitetici, ma nell'attuale fase politica hanno trovato la loro sintesi.

Nella maggior parte dei casi coloro che vengono annoverati nella schiera dei progressisti sono, consapevoli o meno, promotori di politiche di fatto reazionarie.

Il progressismo rimane più che altro di facciata, o per meglio dire “laterale”, cioè applicato solo a questioni secondarie, come la morale e il costume, a discapito delle questioni primarie, come quella nazionale e geopolitica, o socio-economica ed energetica. Passando, per dirla con Marx, da una critica della struttura ad una critica della sovrastruttura, rafforzando così solo lo status quo.

Questa degenerazione iniziò a delinearsi all'interno dei movimenti di sinistra e progressisti a seguito del Sessantotto, prendendo particolare forza e vigore nei decenni successivi fino all'attuale raggiungimento del suo apice.

Dal progressivo distacco dall'URSS al progressivo avvicinamento agli USA, dalla difesa dei diritti socio-economici dei lavoratori alla difesa dei diritti civili degli omosessuali e degli immigrati (non che queste siano battaglie sbagliate, ma di certo non così prioritarie ed il riconoscerlo non significa essere omofobi o razzisti, bensì prendere semplicemente atto di questo cambio di priorità).

Questo è stato il “progresso” della sinistra italiana e di quella occidentale in senso lato.

Un progresso dunque a carattere reazionario, indirizzato lungo la completa subordinazione agli USA e volto alla promozione di politiche neo-liberiste e conservatrici o, nel “migliore” dei casi, all'acquisizione di concezioni distorte e “ultra-sinistre” dei rapporti di forza internazionali.

La sinistra italica si muove dunque fra opportunismo ed utopismo, facendo propria l'ideologia dell'anti-berlusconismo, ormai cavallo di battaglia anche di una parte consistente di Confindustria.

A dimostrazione di ciò basterebbe guardare gli ultimi tre mesi, caratterizzati dalla guerra in Libia, dalle amministrative e dai referendum abrogativi.

Qual è stato il ruolo svolto dalla sinistra?

Nella crisi libica ci sono state inizialmente simpatie unilaterali da parte di tutte le forze di sinistra, rivolte ovviamente verso i ribelli libici, che, secondo questi partiti, stavano cercando di ottenere la “democrazia” e la “libertà”, due concetti in realtà ormai svuotati di significato e strumentalizzati con l'unica finalità d'imporre l'egemonia statunitense sui paesi “non-allineati”, tramite “rivoluzioni colorate”.

Tale mantra diritto-umanitarista è stato definitivamente smentito dalle bandiere della (vecchia) monarchia di re Idris I, impugnate dai ribelli, e dal proclama del primo ministro ad interim del governo di Bengasi, Mahmud Jibril, che poco più di un mese fa aveva dichiarato alla stampa estera: ''Non possiamo escludere la monarchia come sistema di governo”.

Proprio due giorni dopo il 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia, tanto per festeggiare un’indipendenza sempre più fantomatica e surreale, siamo entrati di fatto in guerra con la Libia, contro i nostri stessi interessi e calpestando un trattato di Amicizia e Cooperazione, pur di giurare “eterna fedeltà” al Patto Atlantico.

Lo scopo di questo nuovo “intervento umanitario” è in realtà quello di tracciare una nuova spartizione del bottino energetico libico (petrolio e gas) e di eliminare una volta per tutte il leader libico, Muammar Gheddafi, inviso da sempre agli americani e agli inglesi. Per l'Italia, insomma, una nuova guerra imperialista per conto terzi.

A seguito dell'intervento militare, la sinistra più radicale ha iniziato a porsi qualche domanda sulla crisi libica, uscendosene di soppiatto con un sempreverde pacifismo militante. La sinistra moderata è rimasta più intransigente e ha continuato a farsi promotrice dell'intervento, sebbene con qualche sporadica riserva di facciata.

Ecco servita l'ennesima “guerra umanitaria”, con la connivenza di tutta la sinistra, che, sul piano della propaganda, ha persino giocato la carta dell'amicizia fra l'Italia e la Libia, nonché fra Berlusconi e Gheddafi, come fosse una discriminante, per muovere critiche al governo.

Invece le riserve e le critiche sulla guerra libica sono provenute prevalentemente dalla Lega e da alcuni redattori de Il Giornale e di Libero, cosa che risulta abbastanza grave, ma non così sconvolgente, poiché questo è stato solo l'ennesimo ed eclatante smascheramento della sinistra e della sua funzione filo-atlantica all'interno del panorama nazionale.

Si badi bene, però, che le riserve provenienti da destra, e in particolare dalla Lega, sono più che altro dovute a un timore, in parte anche legittimo, per l'eventuale ondata migratoria che il conflitto libico potrebbe scatenare.

Sappiamo che la guerra è storicamente un banco di prova per le forze politiche, per individuarne la loro natura e finalità. E, oggi come ieri, tutti gli scenari di guerra hanno potuto evidenziare l'opportunismo e il servilismo della sinistra nostrana, trincerata dietro la “protezione dei civili” minacciati da “dittatori sanguinari”. La ricetta è sempre quella, il pasticcio pure, se non peggiore di volta in volta.

Ormai il PDL e Berlusconi vertono in una crisi sempre maggiore. Dalla Libia alle amministrative e infine ai referendum possiamo cogliere l'inizio della fine della parabola berlusconiana. Ma in realtà la prospettiva di cambiamento riguarda esclusivamente il padrone a cui asservirsi: secondo la logica sinistroide, l'importante è che non si chiami Berlusconi. Intanto Luigi De Magistris ha già avuto il suo primo incontro internazionale, presso la base USA di Capodichino, con il vicepresidente americano Joe Biden, tramite il quale ha invitato Obama a visitare il suolo partenopeo.

Gli stessi referendum, che da un lato hanno accentuato la crisi politica del governo, dall’altro hanno evidenziato sia l'opportunismo di Vendola e Bersani in merito alla gestione delle risorse idriche, sia l'approccio reazionario verso il nucleare da parte di tutta la sinistra.

Né governo né opposizione hanno cercato di affrontare un dibattito razionale e scientifico sul nucleare, lasciando quindi prevalere i luoghi comuni e l'ondata emotiva post-Fukushima, all'insegna di un terrorismo mediatico e psicologico, non curanti delle conseguenze energetiche, poiché il “no” al nucleare significa un “sì” al carbone e al gas, più che alle rinnovabili.

Ovviamente, per quanto riguarda i partiti, i motivi sono tutti politici, poiché supportare il nucleare sarebbe stata una scelta impopolare, che non avrebbe certo raccolto voti e simpatie.

C'è chi dice che sia una vittoria del “popolo”, ma l'illusione “democratica” del referendum nasconde la vera volontà dei pochi dietro la presunta volontà del popolo.

Non è nemmeno così vero che verrà negata la possibilità di privatizzare la gestione delle risorse idriche e non ci si illuda neanche di vedere condannato il Presidente del Consiglio. Addirittura, fra gli ultra-sinistri, le tesi antinucleariste si basano su presunte istanze anti-capitaliste, secondo le quali il nucleare nasconderebbe forti interessi economici, favorendo l'Enel. Oppure sarebbe controindicato perché rafforzerebbe un paese capitalistico e filo-atlantico come l'Italia. La prima argomentazione è davvero sconclusionata, se si tiene conto che, oltre alle lobby dei combustibili fossili che ostracizzano il nucleare, anche dietro le rinnovabili ci sono forti interessi e speculazioni. Ci si dimentica, forse, che la stessa Enel, con il progetto Enel Green Power, sovvenziona le rinnovabili.

La seconda argomentazione di carattere quasi neo-primitivista e simil-luddista, vorrebbe vedere declassare il paese ad una condizione di debolezza e ulteriore subalternità, senza rendersi conto di fare così un favore all'imperialismo statunitense.

La sovranità nazionale, nonché energetica, è uno dei presupposti che consentono una reazione contro la subordinazione imperialistica, una reazione vera, fatta non di slogan e parole, ma di fatti concreti.

Finché i progressisti o i presunti tali non lo capiranno, continueranno a svolgere un ruolo reazionario nella politica nazionale e internazionale, e l'Italia continuerà ad essere uno stato vassallo degli USA. Bisogna dunque capire che anche se stanno cambiando le “marionette” non cambia il “burattinaio”. Noi italiani dobbiamo riappropriarci del “teatrino”. Come diceva un patriota veramente progressista del Risorgimento: “L'Italia non è serva delli stranieri, ma de' suoi”.