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Il racconto di viaggio? Riparte dalla Sicilia

di Stenio Solinas - 23/06/2011




«Per molto tempo mi sono svegliato presto la mattina»: nel calco proustiano (il piccolo protagonista della Recherche a lungo andrà presto a dormire) con cui Stefano Malatesta apre l’ultimo capitolo di La pescatrice del Platani e altri imprevisti siciliani (Neri Pozza, pagg. 224, euro 16) c’è la chiave malinconica di un libro affascinante e a tratti irritante, sempre ben scritto, completo eppure come non finito. Rispetto ai precedenti Il cammello battriano e Il grande mare di sabbia, La pescatrice del Platani ha un di più di natura biografica e che sta all’inizio e alla fine, fra il racconto di una magica estate di molti anni fa, «quasi un’altra vita», e la consapevolezza che nemmeno la nostalgia è più quella di un tempo e insomma, quando si fanno dei bilanci, ci si accorge che la delusione l’ha avuta vinta sull’illusione. Non è un caso che le ultime righe del libro riprendano quei versi di Auden così quietamente disperati e così veri e che è un peccato tradurre perché se ne uccide la musicalità. E dunque: «He was my North, my South, my East and West/ My working week and my Sunday rest/ my noon, my midnight, my talk, my song;/ I thought that love would last forever: I was wrong».

Per sua stessa ammissione, Malatesta soffre di quella sindrome che i francesi definiscono aimer s’écouter, il piacere di ascoltarsi: non importa ciò che dicono gli altri, è il suono della tua voce che ti incanta e con essa l’idea che comunque incanterai chi ti sta a sentire. Nella semplice conversazione come nella scrittura, il rischio è l’eccesso, o più semplicemente la noia, e nei tanti ritratti di luoghi, miti, manie, figure e figuri presenti nel libro è un rischio che l’autore corre coscientemente: quasi sempre lo salva il mestiere, la vena narrativa e l’autoironia, ma qualche volta, estenuato, il lettore vorrebbe un po’ di pietà.
Il fatto è che Malatesta è un siciliano honoris causa, con tutti i pregi e gli inconvenienti che ne derivano. È sì consapevole della artificialità della «costruzione Sicilia», quell’«attitudine isolana a creare da sempre un mondo parallelo, fatto di mezze verità, finti miti, di abitudini mai veramente sentite, ma simulate con grande abilità, sostanzialmente un falso» e tuttavia quella recita, la finzione dell’eccezione, lo incanta. Si prenda il ritratto di Ciccio Belgiorno, il collezionista di traduzioni dell’Ulisse di Joyce. Colpito da questa eccentrica ossessione, Malatesta presta poco interesse a ciò che ci potrebbe veramente essere dietro: «Quando scrisse un libro ad imitazione della Spoon River Anthology, dove venivano ritratti tutti i diseredati e gli sfigati di Modica, nella prefazione lo trattai con una certa sufficienza». Solo dopo morto, nel riprendere in mano quel testo si rese conto che aveva creduto «fosse un’opera faticata di un dotto di provincia e invece aveva quella tensione malinconica del grande scrittore che non vuole rivelarsi come tale».

«Una certa sufficienza», insieme alla «patologica tendenza a rinviare tutto quello che non mi è gradito» è forse un tratto distintivo di Malatesta. Qualche anno fa, in un memorabile elzeviro sulla Repubblica, raccontò un romanzo di Giorgio Montefoschi come l’emblema di quella narrativa d’argomento medio borghese e romano-centrico dove non succede mai nulla, ma sempre con dovizia di particolari e uno stile che alla fine, come le spire di un serpente, avvolge il lettore e lo stritola... Nella Pescatrice del Platani, la sufficienza in questione si posa per esempio di sfuggita su Patrick Leigh Fermor, definito «un autore di libri di viaggio molto celebrati e anche molto noiosi» (ma Tempo di doni è un capolavoro e Mani resta un bel libro) e colpisce in modo curioso Leonardo Sciascia, di cui si professa comunque ammiratore. Lo presenta come la vittima di «un ex giornalista, ex senatore», il mai citato Lino Jannuzzi (e anche qui c’è «una certa sufficienza»...) e delle sue «esercitazioni e divagazioni sulla politica da scompartimento ferroviario prese come verità rivelate»: l’immagine di Sciascia che se ne ricava è quella di un qualunquista per disperazione... Proprio perché amava «il Pasolini delle metafore», scrive Malatesta, non aveva appreso pienamente «la lezione che queste metafore contenevano e che si concentravano in un divieto che doveva essere assoluto: “Gli uomini per bene non dovevano mettere piede nel palazzo a nessun costo, nemmeno quando fossero eletti dal popolo”». Il che, con buona pace di tutti, è un’altra forma di qualunquismo, disperato o poetico che sia.

Malatesta è un inviato di lungo corso della Repubblica, nel tempo specializzatosi in quello che gli inglesi chiamano travel’s writing e i francesi récit de voyage, e che in Italia sarebbe la narrativa o il racconto di viaggio, genere da noi oggi fin troppo praticato ma, tranne rare eccezioni, mai all’altezza della tradizione d’oltremanica e d’oltralpe (il già citato Leigh Fermor, Chatwin, Bouvier, Thubron, Maillart, Morris, per dirne solo alcuni). Malatesta lo padroneggia ampiamente, sia per la ricchezza culturale, dilettantesca nel senso nobile del termine, che possiede, sia per una qualità di scrittura nervosa e come divertita, mai tirata via e mai banale.

Così il fascino di questo libro, oltre che nel racconto a tutto tondo di un palazzo, un giardino, un’architettura o una persona fisica, sta soprattutto nei dettagli, nelle annotazioni psicologiche, in una riflessione fulminante o un ricordo grottesco, nel senso panico che spesso abita le descrizioni, in quelle passeggiate a mare che sono la croce e la delizia dei camminatori, nel dandismo con cui si illustrano indumenti desueti portati con un pizzico di spavalderia, nel rimpianto e nel ricordo mitico di un’Italia assolata e come dimenticata quale era quella ancora fino a tutti gli anni Sessanta, prima che la modernità di massa la sommergesse definitivamente. «Pensavo che l’amore fosse per sempre, mi sbagliavo» aveva scritto Auden nella sua poesia...