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L'Italia, il Paese dove a comandar è un signor "Nessuno"

di Massimo Fini - 27/06/2011

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Luigi Bisignani, allora oscuro cronista dell’Ansa, comparve all’onor del mondo quando nel 1981 il suo nome fu trovato fra i quasi mille iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli. Un peccato, anche se non innocente, di gioventù (aveva 27 anni), perché sono sempre stato convinto che la P2 fosse un’associazione a delinquere solo nei suoi vertici (Gelli, Ortolani, Calvi e Tassan Din) mentre per il resto si trattava, per lo più, di una framassoneria di stracciaculi per fare carriera alla svelta.
Dieci anni dopo troviamo però Bisignani in una vicenda che non è framassonica o paramafiosa ma penale. Divenuto nel frattempo capo delle relazioni esterne del Gruppo Ferruzzi (Raul Gardini/Sam) è colto con le mani nel sacco nella supertangente Enimont («la madre di tutte le tangenti») e condannato a due anni e otto mesi di reclusione. Una brillante carriera spezzata. Mi stupii quindi quando lo rividi ricomparire nella cosiddetta «Tangentopoli 2» ascoltatissimo consigliere di Lorenzo Necci, l’amministratore delegato delle Ferrovie, la più grande azienda di Stato italiana, poi condannato per vari reati. Pensavo infatti che nei confronti di tipetti alla Bisignani scattasse una sorta di sanzione sociale e che almeno nella Pubblica amministrazione nessuno volesse averci a che fare. Invece Bisignani era sempre lì, più riverito che mai, ricevuto in tutte le case che contano.
La settimana scorsa ho aperto il giornale e ho letto: «Ricatti, arrestato Bisignani». Arieccolo. Se la cosiddetta «P4» sia un’associazione a delinquere lo giudicherà la magistratura, ma mi ha colpito la definizione che di Luigi Bisignani ha dato il Gip di Napoli: «Ascoltato consigliere dei vertici delle più importanti aziende controllate dallo Stato, di ministri della repubblica, sottosegretari e alti dirigenti statali... un personaggio più che inserito in tutti gli ambienti istituzionali con forti collegamenti con i servizi di sicurezza».
«È amico di tutti» ha detto Gianni Letta, per giustificarsi. Ma proprio questa è la cosa grave. Altro che «sanzione sociale». Questa non opera per le mele marce, inserite in tutti i gangli dello Stato, con un crescendo impressionante negli ultimi trent’anni, che si annusano, si fiutano, si riconoscono e si cooptano, ma per quelle sane, temutissime perché non sono ricattabili. Vade retro Satana. È con i Bisignani che ci si intende.
L’Italia è davvero uno strano Paese. Nel 1981 scoprimmo che il vero burattinaio non stava né a Roma né a Milano né a Torino ma a Castiglion Fibocchi, non abitava i Palazzi della politica, era un modesto dirigente della Permaflex oltre che uomo volgarissimo e di un’ignoranza quasi comica (Angelo Rizzoli mi raccontava che «manager» lo pronunciava «managè» e, piccandosi di parlar francese, diceva «debals» al posto di «debacle»). Si chiamava Licio Gelli. Chi era costui? Gli italiani non ne avevano mai sentito parlare. Ma quelli che contano sapevano benissimo chi fosse e quanto potesse. Tutti. Se è vero che persino Indro Montanelli sentì il bisogno di andare in pellegrinaggio da lui all’hotel Excelsior di Roma, dove teneva base. Oggi, 2011, scopriamo che chi determina i presidenti e gli amministratori dei grandi Enti di Stato, decide chi deve dirigere la Rai, influenza ministri e sottosegretari più che Silvio Berlusconi è un signor Nessuno, noto alle cronache solo per squallide vicende giudiziarie, di nome Luigi Bisignani.