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Jim Morrison: la lucertola brucia ancora.

di Miro Renzaglia - 29/06/2011

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Bello, era bello. Di una bellezza apollinea. Guardatelo con la barba: non vi sembra un poeta greco? E seminudo? Non lo scambiereste per un androgino? Uno di quegli esseri meravigliosi e puri che per poter toccare un attimo, Pasolini diceva essere disposto a morire. Ma nello sguardo – in quel suo sguardo! –  c’èra Dioniso: il dio della frenesia estatica, dell’ebbrezza, delle forze vitali liberate dai condizionamenti che costringono l’essere alle catene delle regole condivise ed accettate dall’ “umano, troppo umano”. Jim Morrison, uno e bino: metà Apollo, metà Dioniso. E dove cominciava una metà e finisse l’altra non è certo. Anzi e meglio: lui era il luogo dove le due metà si confondono nella poesia. “Muore giovane chi è caro agli Dei” dice una massima greca. Non sono convintissimo della saggezza del detto. Ma se così fosse,  morire a ventisette anni deve essere una garanzia del particolare occhio di riguardo che i signori dell’Olimpo gli hanno riservato. Quarant’anni fa: il 3 luglio del 1971.

Jim Morrison, il cantante, il leader dei Doors: quel gruppo musicale che diede al rock il timbro della psichedelica. Dice l’etimo: psyckhé, anima; dêlos, chiaro. Ovvero: l’estensione della coscienza oltre il limite dato dalla “normale” (?) percezione della realtà. Mhmhmmhmmh: brutta storia. Presa questa via, è difficile poi tornare a riadattarsi ai canoni del ragionevole buon senso. Tuttavia, “Sesso, droga e rock‘n’roll” è una formula riduttiva e banale per uno come lui.  Con la sua hybris poetica, sapeva fare meglio, molto meglio. Cantava: «Cavalca il serpente, cavalca il serpente…». Chi sa di Nietzsche – e Jim ne sapeva abbastanza – conosce bene cosa simboleggia il serpente del Grande Solitario: la via dell’estremo amore per la vita, quella dell’eterno ritorno. Una via che può soffocare (come soffocò il pastore nella cui gola il serpente si introdusse nell’apologo nicciano). «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!», suggerirà inutilmente Zarathustra al pastore posseduto dal serpente. Paradossalmente, Morrison è ancora più nicciano del Maestro: non uccidere il serpente – dice – cavalcalo, cioè: dominalo. Del resto, era Nietzsche stesso che pretendeva dai suoi allievi di superarlo. Non a caso, il titolo della canzone che contiene i versi riportati, e che considero il suo manifesto poetico, è “The end”: la fine.  «The end, my only friend». Andate a riguardarvi il video su youtube: mentre canta, mima un quasi amplesso con il microfono (e la sua asta): vado troppo in là con la fantasia se immagino che lo avverta e voglia che gli altri lo avvertano come la testa del serpente, tentato dal morso? Guardatelo mentre recita i versi finali: «padre: ti voglio uccidere, madre: ti voglio…». Devo spiegarvi dove arrivano le suggestioni? Suvvia, un po’ di immaginazione anche da parte vostra…

Jim non capiva niente di musica, lo sanno tutti. Non sapeva suonare nessuno strumento e il suo rapporto con la musa Euterpe si deve all’incontro con il compagno di studi universitari,  Ray Manzarek (poi, tastierista dei Doors). Studiavano cinema. Il padre, in realtà, voleva fare di quel figlio un po’ stralunato, un militare di carriera, come era lui. Figuratevi: ce lo vedete voi Jim Morrison in uniforme che canta le marcette dei marine e spara ai Vietcong? Quello aveva già la testa – per dirla con Guccini – persa «dietro alle nuvole e alla poesia». Amava – e come ti sbagli? – Rimbaud e Baudelaire. I maledetti, insomma. Ma non si era fermato all’Ottocento poetico: echi surrealisti e dada non gli erano per nulla estranei e ne farà uso. Probabilmente, non era nemmeno un grande poeta.  Non, almeno, per la sola forza delle parole scritte su carta o cantate su disco. La sua forza era nel riuscire a creare, nei concerti, un impasto poetico dove parole, voce e musica erano fuse nella sua irripetibile interpretazione. Una interpretazione assolutamente fisica che nel parossismo ipnotico dell’esecuzione cancellava tutti gli elementi primari e, rifondandoli in se stesso, evocava l’altro da sé.

Non sono il primo a definire le sue performance in concerto “sciamaniche”.  Proprio Ray Manzarek dirà del Nostro: «Non era un musicista. Non era un attore. Non era un uomo di spettacolo. Era uno sciamano. Era posseduto». E ne era consapevole anche lui. Tanto da ricostruire come e dove avvenne la possessione: «Vidi un camion rovesciato –  dirà – per un incidente stradale, c’erano decine di indiani morti sparsi sulla strada. Gli spiriti di molti di quegli indiani sono entrati dentro di me, e sono ancora lì». Sarà vero o falso? Che importa? Le costruzioni della mente hanno valore identico alla realtà, per chi ha rotto l’incantesimo che separa il visibile dall’invisibile. A tal punto che il nome del suo gruppo musicale The Doors (Le Porte), viene dritto dritto da una poesia del poeta mistico-religioso William Blake che così recita: «Se le porte della percezione  fossero purificate, tutte le cose apparirebbero agli uomini come sono veramente: infinite». E che lo stesso Jim Morrison perifraserà: «Ci sono il noto e l’ignoto, e in mezzo ci sono le porte». Materialisti di tutto il mondo che pure lo amate e continuerete ad amarlo: fatevene una ragione.

Era e per moltissimi ancora è un mito. Diceva Jim: «A volte mi piace guardare la storia del rock’n’roll come l’origine della tragedia greca, che iniziò su un’aia nelle stagioni cruciali e all’inizio era un gruppo di fedeli che ballavano e cantavano. Poi, un giorno, un indemoniato balzò fuori dalla folla e cominciò a imitare un dio». Che pensasse se stesso come l’indemoniato aspirante dio greco, mi pare fuor di dubbio. Che convinse gli altri a considerarlo tale, anche. Sosteneva Carl Gustav Jung, uno che di miti se ne intendeva: «Lo spirito primitivo non inventa i miti: li vive. I miti sono, originariamente, rivelazioni dell’anima pre-cosciente, involontarie testimonianze di processi psichici inconsci e tutt’altro che allegorie di processi fisici». È lo “spirito primitivo”, dunque, che riconosce il mito vivente e ne resta stregato. Magari solo per un po’, come succede a chi evolve naturalmente e/o culturalmente verso stati più adulti della coscienza e del mito.

E chi non evolve? Eh! qui vengono i guai. Perché gli “spiriti primitivi” mica si rassegnano facilmente alla scomparsa dell’oggetto del loro culto: ne va del proprio equilibrio psichico. Nel migliore dei casi, organizzano incessanti pellegrinaggi sulla sua tomba. E, infatti, il cimitero parigino di Père-Lachaise, dove è sepolto, conta migliaia di visite ogni mese, ancora oggi. E nel peggiore? Nel peggiore, regrediscono verso consolatorie alchimie mentali: lo ha ucciso la Cia per liberare la gioventù americana dai suoi influssi degenerativi; non è vero che è morto nella sua vasca da bagno, dove lo hanno trovato: è morto nel cesso di una discoteca mentre tirava eroina per la seconda volta in vita sua; anzi, no: Jim Morrison non è mai morto, ha messo in scena la sua dipartita e si è ritirato alle Seychelles con l’amata Pamela (morta in realtà tre anni dopo di lui, sempre per overdose); nel cimitero di Père-Lachaise non è sepolto il suo cadavere ma quello di un altro: lui vive ancora e per sempre. Eh! che volete farci? I miti viventi, per gli “spiriti primitivi”, sono destinati a non morire. A non poter morire. Strano destino, il loro: indicare l’oltre e restare incatenati per sempre all’al di qua. Ma, in fondo, qualche volta se la cercano.