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Jim Morrison: 40 anni dopo

di Federico Zamboni - 29/06/2011

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C’era del talento, in Jim Morrison. Più da poeta e da performer che da cantante, ma quando muori dalla voglia di andare in scena, e di farti ascoltare-accettare-amare, una cosa così diventa un dettaglio. C’era il desiderio prepotente di affermarsi, inquieto e spericolato come un contrabbandiere che va e viene sul confine, insidioso, tra l’ambizione artistica e il bisogno psicologico. C’era un padre ingombrante (un alto ufficiale della Marina militare Usa, tutto affermazioni di principio e rigorosa osservanza dei regolamenti) e una madre succube di quel padre («Fai contento papà, Jim: torna a casa per il Giorno del Ringraziamento; ma prima tagliati i capelli») dai quali affrancarsi.

E tutto intorno, essendo nato l’8 dicembre 1943, c’era l’irripetibile America degli anni Sessanta, che ribolliva di energia e di sogni e di contraddizioni, sul confine minato tra l’establishment chiuso in se stesso e una gioventù aperta a tutto. Tra l’establishment arrogante e spietato di una superpotenza capitalista impegnata nella rincorsa all’egemonia planetaria, e una gioventù ingenua per un verso e sfrenata per l’altro, idealista per un verso ed egoista per l’altro, troppo inebriata di se stessa per padroneggiare a fondo i propri slanci e avere anche una meta precisa da raggiungere. Con una direzione nitida, e condivisa, e praticabile, che andasse bene non solo per i ragazzi in cerca di emozioni ma per un’intera nazione, ricchissima di risorse e poverissima di saggezza.

Jim Morrison sembrava fatto apposta, per aggiudicarsi un ruolo da protagonista nella nuova, nascente Hollywood del rock. Aveva la faccia giusta, di quella bellezza androgina e adolescenziale che è di per sé un inno alla giovinezza e al mistero di una sessualità ancora in cerca di definizione. Fremente ed enigmatica. Carnale e angelicata. Le note alte e lancinanti del femminile; quelle basse e profonde del maschile. Solida terra sotto un cielo imprevedibile: raggi caldissimi di sole e fantasmagorie notturne di luci che arrivano da chissà dove. Forse è esplosa una stella in una galassia così lontana da restarci sconosciuta. Forse sono i bagliori di un mondo che deve morire, affinché un altro ne prenda il posto nell’universo.

Universo? Jim Morrison avrebbe sorriso. Aveva letto William Blake. Aveva letto Aldous Huxley, che un secolo e mezzo dopo citava Blake nel titolo di un suo saggio sulle droghe. Impossibile sapere in quale ordine li avesse incontrati, ma l’importante non è seguire la cronologia originaria. L’importante è non fermarsi sul singolo tratto di strada sul quale ci si viene a trovare di volta in volta. Jim Morrison era un lettore accanito fin da ragazzo. Non soltanto un individuo fortunato che aveva ricevuto in sorte un Q.I. nettamente superiore alla media, ma uno che era curioso di vedere che cosa si riuscisse a illuminare, che cosa si riuscisse a scoprire, puntando quella grande torcia (quel piccolo laser) su questo o quel punto.

Cosa aveva detto William Blake? Cosa aveva ripetuto Aldous Huxley? «Se le porte della percezione venissero purificate, all’Uomo tutto apparirebbe per come realmente è. Infinito.» L’universo che si espande a dismisura. Che diventa un multiverso. Noi stessi siamo la porta. Noi stessi siamo la chiave. Solo che ammonticchiamo contro quella porta una miriade di carabattole, che raccattiamo dove capita e che faremmo molto meglio a buttare, fino a farne un mucchio talmente grosso che non c’è più modo di spostarlo. E anche la porta non si vede più, in effetti. O si intravvede a malapena.

Magari pensiamo di fare bene. Ci stiamo difendendo. Ci stiamo barricando. Perché lo sanno tutti: ci sono un mucchio di pericoli, là fuori. Lo affermano le grandi religioni monoteiste su cui si basa l’Occidente: l’esoterismo è male e la sete di conoscenza va placata altrimenti, acquietandola nella fede in Dio Padre Onnipotente e nella sottomissione alle verità rivelate. Lo ribadiscono gli adulti che detengono il potere politico ed economico, su un registro più ordinario ma altrettanto dogmatico: la realizzazione degli esseri umani non va ricercata in chissà quali mondi interiori o ultraterreni, che peraltro sono da considerarsi mera illusione in quanto la scienza non ne convalida l’esistenza, bensì all’interno delle rispettive società. Non c’è nessun bisogno di incantesimi o di magie. Basta un lavoro produttivo. Basta l’aspirazione a un maggior reddito e a un maggior benessere, per sé e per i propri cari. È semplice. È collaudato. Più soldi, più consumi, più soddisfazioni. Più felicita. Che altro?

E quanto alla chiave, la quasi totalità non si ricorda proprio dove accidenti possa essere finita. Anzi, a dire il vero non si ricorda neanche di averla mai vista.

Un urlo di libertà

Ma purtroppo non era esoterismo, quello di Jim Morrison. Non c’era nessuna linea sapienziale alla quale riagganciarsi. Nessuna disciplina da mettere in pratica per temprare lo spirito, liberandolo non solo dalla limitatezza dei sensi ma anche dai loro inganni. E da quelli della psiche.

La droga, e l’alcol, non erano affatto le chiavi che avrebbero dischiuso le porte della percezione, consentendo all’anima di proiettarsi in una dimensione enormemente più vasta e tuttavia, sia pure nelle sue illimitate stratificazioni, più compiuta e appagante. La droga e l’alcol erano solo microscopici spiragli che si aprivano e si chiudevano. O piuttosto delle sottilissime crepe, destinate ad allargarsi fino a minacciare la solidità di questa parte del muro.

Jim aveva grandi doti, e molte idee su come utilizzarle, ma gli mancava quella decisiva: la lucidità necessaria a distinguere in anticipo tra un tipo di gratificazione e un’altra. Tra la seduzione posticcia dei sogni ordinari (questi caleidoscopi che ruotano senza posa su se stessi e che poi, per lo più, si dissolvono al risveglio) e il richiamo illuminante e veritiero delle visioni generate dallo spirito, anziché dall’inconscio. Jim si inabissava dentro di sé e ne riemergeva con delle impressioni potenti, che a volte, soprattutto all’inizio, si trasformavano in parole. Ovverosia in versi.

Le poesie diventavano canzoni, grazie alla collaborazione degli altri membri dei Doors. Il tastierista Ray Manzarek, il chitarrista Robby Krieger, il batterista John Densmore. Musicisti che meritano di essere citati espressamente e ricordati a uno a uno, con la dovuta ammirazione e stando bene attenti a non liquidarli come semplici gregari di un leader carismatico. È vero: dopo la morte di Jim a Parigi, il 3 luglio 1971, non sono più riusciti a produrre nulla che fosse all’altezza dei loro brani migliori, ma la stessa discontinuità si era già manifestata in precedenza. La produzione della band è intermittente. Può raggiungere vertici di grandissima suggestione, a cominciare da The End e a finire con Riders on the Storm (assai più della celeberrima Light My Fire), oppure disperdersi in autentiche sciocchezze, come la pur conosciutissima, e vendutissima, Hello, I Love You.

La responsabilità delle defaillance, però, va suddivisa tra tutti, nessuno escluso, tanto quanto il merito delle pagine più riuscite, che restano tuttora memorabili. La spiegazione, a sua volta, va ricercata in quella che è stata al contempo la loro forza e la loro debolezza: quattro personalità profondamente diverse, che provavano a confluire in uno stesso crogiuolo ma che, al di là delle buone intenzioni, non sempre erano compatibili l’una con l’altra. E che inoltre, come quasi tutti gli artisti rock di successo, hanno dovuto fare i conti con le richieste esplicite e le pressioni implicite dei discografici. Nonché, più in generale, di tutti quelli che ruotano intorno alle star, ivi inclusi i fan. Tutti risucchiati nella logica squadrata, e perversa, della ripetizione di ciò che ha incontrato il favore del pubblico e che perciò si vorrebbe replicare a oltranza. Per un interesse economico. Per un amore malinteso. Per il bisogno di avere almeno questo genere di certezza, mentre la vita si aggroviglia e rinnega le sue splendide promesse.

Jim ne era conscio. Aveva capito molto presto che stavano cercando di inchiodarlo a un’immagine – che aveva tracciato egli stesso, ma che non per questo era tenuto a riproporre all’infinito – e la sola ipotesi lo faceva inorridire. Il suo non era uno show, concepito per indurre gli spettatori a pagare un biglietto. Non era una qualunque messinscena, che si accontenta di risultare attraente, in un modo o nell’altro, con un trucco o con un altro, e che si tiene a distanza di sicurezza dalla realtà, per evitare possibili e spiacevoli accuse di interferenza con la morale e con l’ordine pubblico.

La sua era una rappresentazione. Utilizzava una forma artistica, che serviva a completare la stesura originale della musica e delle parole con la gestualità e la presenza scenica (e con la tensione di uno sviluppo mutevole della scaletta e di ogni altro aspetto della comunicazione dal vivo), ma non come rifugio nell’astrattezza o come alibi per ciò che fosse risultato sgradito alle autorità o a qualunque altro paladino delle leggi, vuoi di Dio vuoi degli uomini. L’arte, per lui, era una sorta di iper-realtà. Un distillato di ciò che c’è di più importante e significativo nell’esistenza, sia individuale che collettiva. E in cima alla lista, com’è ovvio, c’era una parola – libertà – tanto frequente quanto abusata. Tanto consueta quanto incompresa.

Inutile ripeterla. Indispensabile reinventarla.

L’assassino si svegliò prima dell’alba / Si infilò gli stivali / E prese un volto dalla galleria degli avi / E camminò lungo il corridoio / E arrivò a una porta / E guardò dentro / «Padre?» / «Sì, figlio?» / «Voglio ucciderti.» / «Madre… voglio… fotterti»

I versi di The End.