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Conflitti, strategie e bene comune

di Fabio Falchi - 29/06/2011


 

Non v'è dubbio che con la fine del bipolarismo e la crisi irreversibile del cosiddetto "socialismo reale" (da non identificare con il "metaracconto" del tramonto delle ideologie, che può essere considerato esso stesso espressione ideologica della postmodernità, in quanto pretende di essere un problematicismo non situazionale, ma assoluto) si sia compresa la necessità di avanzare nuove proposte teoriche, al fine di superare schemi concettuali del tutto anacronistici. Ci si è così potuti anche rendere conto che la tradizionale dicotomia destra/sinistra, più che una adeguata rappresentazione del politico, "maschera" il fatto che, in Occidente, sono gli strateghi del capitale a svolgere la funzione politica che permette di adeguare il sistema sociale alla crescita dell'apparato tecnico-produttivo.

Partcolarmente significativo, al riguardo, è il lavoro teorico dello studioso "postmarxista" Gianfranco La Grassa che interpreta l'attuale fase delle società capitalistiche "occidentali" alla luce della politica di potenza degli Stati Uniti, dopo che il progetto americano di conseguire un'egemonia planetaria, mediante una serie di interventi militari in Eurasia, pare definitivamente abbandonato, per lasciare posto ad un "approccio indiretto", incentrato sulla "collaborazione" di gruppi sociali filo-occidentali (rivoluzioni colorate, destabilizzazione tramite l'esportazione dei cosiddetti "diritti umani", azione di "quinte colonne", sostegno all'american way of life etc.) presenti, sia pure in diversa misura, in qualsiasi Paese. Si tratta di un'analisi che, essendo attenta a cogliere l'importanza dei fattori geopolitici per una maggiore comprensione/spiegazione degli eventi storici, ma senza trascurare il conflitto sociale che è alla base della lotta politica, induce ad approfondire non solo la questione dell'interazione che i fattori geopolitici possono avere con i fattori economici, ideologici e culturali, ma pure quella concernente il rapporto tra l'imperialismo americano e la società di mercato. E' evidente, infatti, che, se non si critica la societa di mercato, non è facile giustificare la critica dell'imperialismo americano, dato che è del tutto logico che chi difende le ragioni della società di mercato ritenga che le stesse nozioni di sovranità e interesse nazionale intralcino la creazione di una comunità internazionale basata sul "libero mercato" e che il ruolo predominante degli Usa dipenda (quasi) esclusivamente dal fatto che il loro sistema sociale sia più avanzato e più progredito di qualsiasi altro sistema sociale. Mentre coloro che difendono un'idea di bene comune, a patto che siano coerenti, è naturale che vedano nell'imperialismo americano la forma più aggressiva e più pericolosa di mercificazione delle relazioni sociali, nonché la dissoluzione del legame comunitario e lo sradicamento di qualsiasi ethos diverso da quello angloamericano. D'altra parte, una volta che si sia ammesso che il conflitto strategico tra potenze è fondamentale per capire i fenomeni sociali (inclusi quelli economici), sembra impossibile poter mettere in relazione una nozione come quella di bene comune con quella di agire strategico, senza confondere due diversi ambiti di discorso: etico, o meglio apparentemente solo etico, il primo; politico e geopolitico il secondo.

 

Sotto questo profilo, è comprensibile allora che la stessa distinzione tra pubblico e privato venga considerata secondaria o addirittura “fuorviante” rispetto alla strategia per lo sviluppo e l'innovazione di un sistema sociale, soprattutto in un contesto politico internazionale contrassegnato dalla instabilità derivante dal passaggio da una fase unipolare ad una multipolare. Nondimeno, non pare eccessivo sostenere che è la stessa analisi strategica del conflitto, politico ed economico, che richiede una tematizzazione della nozione di bene comune, posto che si sostenga che l'interesse generale sia superiore ad interessi settoriali o, se si vuole, che l'interesse nazionale prevalga rispetto agli interessi delle varie lobbies, in conflitto tra di loro. Né si dovrebbe trascurare che, sebbene sia corretto distinguere il politico dalla morale soggettiva, tipica dei moderni, ciò che si intende per “etica” può anche rimandare ad un preciso orrizzonte culturale e sociale (si pensi al linguaggio come istituzione cardine della vita di una comunità nazionale), con implicazioni di carattere antropologico e perfino ontologico. Tanto è vero che è su questo aspetto che si concentra la riflessione di Costanzo Preve, che, convinto anch'egli della obsolescenza del paradigma marxista, cerca di "declinare" il comunitarismo di de Benoist in senso aristotelico - evitando così il rischio di un "relativismo assoluto" – avvalendosi anche degli studi di antropologia economica, come quelli di Louis Dumont e di Karl Polanyi. Sì che è lecito ritenere che il discorso filosofico-politico sulla "comunità" – concepita come totalità superiore a (e distinta da) ciascuna della parti di cui si compone - dovrebbe essere intepretato come una riflessione non alternativa bensì complementare rispetto a quella teorica ed analitica sul politico, qualora si reputi essenziale delineare i tratti essenziali di un agire strategico rivolto a difendere non un (più o meno vago) "dover essere", ma ciò che si (di)mostra "essere" il bene comune. E che siano due pensatori di formazione marxista, a sostenere l'uno (La Grassa) la rilevanza dell'agire strategico, l'altro (Preve) quella del bene comune, per l'elaborazione di una (nuova) teoria critica dell'attuale società di mercato (indipendentemente dal problema delle diverse forme di capitalismo), (1) non pare essere casuale, se la crisi del marxismo si è generata, essenzialmente, dal fatto che si è dovuto prendere atto che non vi è alcun nesso necessario tra la crescita delle forze produttive e lo sviluppo sociale. Non però nel senso che non è, o non è più, la classe operaia il "motore" del progresso, bensì nel senso, assai più rilevante, che tra le forze produttive e lo sviluppo sociale (da differenziare dunque dal mero "progresso", che invece sembra ormai essere una sorta di fatalità "socialtecnologica") vi è un nesso contingente, "non necessario", dipendendo dalla "forma politica" che “articola” l'economico e i rapporti sociali, se il sistema produttivo sia o non sia al servizio dell'interesse dell'intera comunità, come anche la storia di questi ultimi decenni conferma. Venuta meno la concezione (hegelo)marxista di una storia "uni-versale" - ovvero di una progressiva ed inevitabile "auto-manifestazione” dell'essenza dell'uomo - è l'economicismo che non è più in alcun modo giustificabile. Ovviamente, per i liberisti il problema non sembra neanche porsi, giacché secondo loro l'economia di mercato comporterebbe (grazie alla "mano invisibile" del mercato) di necessità una "crescita sociale", allocando le risorse economiche nel miglior modo possibile, al punto che essi considerano la nozione di bene comune solo un "flatus vocis" oppure tendono ad identificarla con il mercato. Ciononostante, oltre a criticare il "dogma" di un sistema economico ritenuto capace di autoregolarsi (e che ancora una volta dopo la Grande Depressione del '29, non solo ha richiesto il massiccio intervento dello Stato per evitare il crollo del sistema, ma si è rivelato essere un formidabile mezzo di destabilizzazione economica e sociale, che tende ad avvantaggiare una parte a discapito di tutte le altre) coloro che criticano la società di mercato possono, come si è già accennato, riferirsi ad una nozione "sostanziale" di bene comune, basandosi non su presupposti ideologici “volgari”, ma sia sulla storia e l'antropologia economica che su una rigorosa ontologia sociale e politica.

 

Del resto, è noto che le ricerche di Polanyi (ma si devono tener presenti anche i celebri studi di Marcel Mauss e Georges Bataille sull'economia del dono) dimostrano che, prima dell'avvento della moderna società capitalistica, non vi era alcuno spazio economico autonomo (il termine mercato è cioè, a differenza di quel che ritengono i liberisti, un termine equivoco, dato che può denotare realtà affatto diverse e niente affatto una “realtà naturale”) mentre erano le relazioni comunitarie e le istituzioni politiche e religiose a regolare la vita sociale ed economica. (Epperò, è giusto rammentare che anche Marx aveva già messo in luce l'influenza dei fattori non economici nel corso della storia, senza avallare una interpretazione deterministica del rapporto tra struttura economica e sovrastruttura politica, tanto che, anche se aveva fatto l'apologia del progresso capitalistico, nell'ultima fase della sua vita ebbe a sostenere che era possibile passare direttamente ad una società socialista, ossia senza dover passare prima per uno "stadio capitalistico") (2). Inoltre, è merito dello studioso ungherese aver prestato particolare attenzione alla "mistificazione" su cui si deve fondare la società di mercato per poter funzionare, giacché moneta, terra e lavoro, pur essendo essenziali per il mercato, non sono merci (nessuno di essi è "prodotto per la vendita"); cosicché fingere che essi lo siano è sì possibile, anche se «nessuna società potrebbe sopportare gli effetti di un simile sistema di rozze finzioni neanche per il più breve periodo di tempo a meno che la sua sostanza umana e naturale, oltre che la sua organizzazione commerciale, fossero protette dalle distruzioni arrecate da questo diabolico meccanismo». (3) Un'osservazione, quest'ultima, che rinvia anche al ruolo svolto dalla tecnologia sociale per la produzione e/o manipolazione del consenso, onde poter controllare gli effetti negativi di tale meccanismo per quanto concerne quel "mondo della vita", senza il quale nessun tipo di comunità umana sarebbe possibile. Ma è pure degno di nota che, grazie anche agli studi di Polanyi, sempre più si faccia strada la consapevolezza dell'importanza della filosofia di Aristotele per un approccio di tipo anti-individualistico all'analisi dei fenomeni sociali, dato che allo Stagirita era ben chiaro che solo la funzione politica, subordinando la funzione economica alle "ragioni" dell'intero organismo sociale, poteva impedire alla crematistica ("l'arte di guadagnare") di alterare il rapporto tra mezzo (denaro) e fine (bisogni della comunità) e che si generasse, trasformando il mezzo in fine, un processo ("senza fine") di accumulazione di ricchezza. Ed invece «è esattamente questo il mondo in cui [oggi] viviamo», asserisce de Benoist,«dove il capitalismo finanziario non è connesso all’economia reale (la maggioranza degli scambi di capitale non corrispondono più agli scambi di prodotti), dove l’economia reale si sviluppa senza considerazione dei limiti». (4) A giudizio di de Benoist, però non è sufficiente «appellarsi a soluzioni “umane” di contro alla disumanità dell’ordine finanziario», dato che occorrono «idee precise sulla natura dell’uomo e sull’essenza del politico [per] contestare la globalizzazione in nome dei popoli» e si dovrebbe piuttosto cercare di realizzare «un diverso rapporto degli uomini nei confronti dell’economia stessa [per] finirla con [...] il feticismo del mercato ed il primato dei valori mercantili»; (5) ovverosia, si dovrebbe "oltrepassare” l'homo oeconomicus, facendo leva su una diversa idea dell'uomo, ma senza dimenticare la "lezione" del realismo politico (da Tucidide a Carl Schmitt). E ciò non è altro che rendersi conto del rapporto che sussiste tra agire strategico e bene comune (e usare espressioni quali minimo comun denominatore nazionale o interesse nazionale, non cambia "i termini" del problema); un rapporto che è a fondamento del politico, in quanto opposizione e scelta necessaria tra amico e nemico, anche se i liberali tendono a confondere la critica dello Stato con quella del politico, come se, con la scomparsa lo Stato nazione, dovessero scomparire pure il politico e le funzioni degli apparati coercitivi. D'altronde, se la scienza dei fenomeni economici può, e in qualche modo deve, “astrarre” dalle concrete relazioni sociali e "supporre" che siano fenomeni "isolati" (ma perfino le scienze della natura non possono prescindere completamente dalla cultura e dal linguaggio, come ha dimostrato l'epistemologia contemporanea), è innegabile che, se l'uomo è un animale politico, l'economico non possa non essere parte di una “totalità politica”; e, sotto questo punto di vista, la critica marxiana alle “robinsonate” dell'economia politica è certo da non rifutare, ché l'individuo non può non “essere insieme con” altri individui, secondo ben definite relazioni politiche e sociali, che distinguono nettamente il rapporto tra uomini dal rapporto tra uomini e cose, considerate come “utilizzabili”, ossia come semplici mezzi (famosa è la dialettica “servo-padrone”, grazie alla quale Hegel mostra come la riduzione di un altro uomo a mezzo, instauri un processo storico assai differente da quello che può condurre l'uomo ad ampliare il proprio “dominio” della natura). E allora pare si debba insistere ancor più sul fatto che, proprio perché la crescita dell'apparato tecnico-produttivo “può” sia promuovere che ostacolare o “distorcere” lo sviluppo umano, è il politico che "decidendo" quale debba essere la "forma" (proprio in senso aristotelico, ovvero intesa come principo che ordina un molteplice, in continuo divenire, secondo un particolare "telos") (6) del mutamento sociale, si rivela essere la "chiave" per cercare di risolvere le contraddizioni della società di mercato. E che siano non semplici opposizioni, ma autentiche contraddizioni non è affatto strano perché, se la società di mercato si compone di forze opposte (semplice opposizione reale, come, ad esempio, tra lavoro e capitale; ma gli esempi si possono moltiplicare) che necessitano di una "mediazione" politica - vuoi per istituzionalizzare il conflitto vuoi per rimuovere qualsiasi "limes" (culturale, "ambientale" e ovviamente politico) che sia di ostacolo alla crescita illimitata del mercato - lo Stato dovrebbe invece, pur con tutti i possibili distinguo, non interferire o interferire il meno possibile con il mercato, per garantirne l'autonomia. Inoltre, la società di mercato “negando” quella sostanza, naturale e umana ( terra e lavoro), senza la quale - come si è già notato - essa stessa non potrebbe esistere, si configura non come l'impossibile “contenuto” di una contraddizione, ma come un “reale” contraddirsi, (7) che essa può “sostenere” solo perché il politico è in grado di gestire le ricorrenti crisi che ne conseguono, mediante la potenza militare, l'innovazione tecnologica e l'industria culturale. Non meraviglia allora che, nella “realtà storica”, per così dire, che “dietro” la potenza economica non possa che esserci il “pugno” politico e militare e che sia decisivo il controllo dello Stato (prima di tutto della potenza dominante, poi delle potenze subdominanti), di modo da poter “decidere” la strategia che si deve seguire: rafforzamento del Warfare State, finanziamenti pubblici alle banche, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, (s)vendita del patrimonio pubblico, subordinazione del sistema educativo agli imperativi del mercato, acquisizione del "dominio" di determinate aree geografiche, "ristrutturazione" di equilibri geopolitici, “guerre umanitarie” etc. Perciò, "conditio sine qua" di un'alternativa (reale, non velleitaria o immaginaria) alla società di mercato non può che essere il controllo (non necessariamente la proprietà) politico della moneta e di quei mezzi di produzione che si debbano ritenere strategici per la sovranità e lo sviluppo di un Paese; nonché di quei beni e servizi che, indipendentemente da ogni considerazione economica, non possono non essere privatizzati senza favorire la legittimazione della “colonizzazione” della “res publica” da parte del mercato, alterando radicalmente quell'orizzonte di senso condiviso (costumi, tradizioni, memoria storica, lingua etc.), che permette, in linea di principio, a tutti i membri di una comunità di avere una conoscenza "pre-riflessiva" del bene comune; ovvero di quei mondi vitali che, come struttura intersoggettiva dell'esperienza, precedono (onto)logicamente ogni altra attività umana, compresa la tecnoscienza, in quanto anch'essa, nonostante tutto, è una scienza dell'uomo (genitivo soggettivo). Da ciò, però, non deriva in alcun modo che si debba favorire l'ipertrofia della macchina (tecno)burocratica dello Stato (ossia il cosiddetto "statalismo"), funzionale, perlopiù, agli interessi di lobbies e di un ceto medio "semicolto" (come lo denomina La Grassa), che sottraggono ingenti risorse ai settori più dinamici della società e impediscono che si venga a creare un “circolo vitrtuoso” tra le forze produttive e l'azione politica ed economica dello Stato. Non ne consegue quindi che si debba difendere il settore pubblico solo perché pubblico, giacché vi può essere anche un settore pubblico che sia al servizo non della comunità, bensì di potenti gruppi di interesse, nazionali ed anche stranieri. Necessario è invece che lo Stato, allo scopo di contrastare la logica aberrante dell'oligarchia atlantista e dell'imperialismo, ormai manifestamente criminale, degli Stati Uniti, possa “incastonare” il mercato in un ampio ventaglio di istituzioni, facendo valere ordini, misure e proporzioni in ogni ambito sociale, senza comprimere oltre “misura” la sfera personale, ché anzi responsabilizzazione e autonomia decisionale devono essere sempre incoraggiati, laddove sia possibile. (Si tenga presente che, a differenza del totalitarismo, una concezione olistica della società non nega che vi sia una tensione strutturale tra “esistenza” e storia, poiché il singolo è pur sempre capace di trascendere, in un certo senso, il proprio “ambiente”. Le relazioni sociali e culturali cioè non “esauriscono” la sfera personale, dato che il singolo individuo non è “soltanto” parte di una totalità sociale, sebbene quest'ultima sia l'indispensabile “sostegno” affinché vi possa essere una effettiva trascendenza della concreta situazione storica in cui si radica il nostro “Esser-ci"; tanto che come scrive Luigi Ruggiu, «la nostra identità è insieme duplice ed una: quella segnata dalla comunità alla quale ciascuno di noi appartiene, e quella di ciascuno di noi il cui sé si pone come membro attivo di una comunità storica concreta »). (8) 

A tale proposito, non è possibile non considerare che in guerra, ovvero allorché può essere in gioco addirittura l'esistenza stessa di un'intera comunità nazionale, è lo Stato che dirige tutte le forze di una nazione per il raggiungimento di un obiettivo comune. Che ciò dipenda dal fatto che sia una situazione eccezionale è indubbio, ma come insegna Carl Schmitt è l'eccezione che ci fa comprendere la regola, non viceversa. La guerra come “stato d'eccezione” rivela cioè sia la natura metaindividuale (che la tradizionale concezione politica del liberalismo non “com-prende”) della comunità politica sia la “possibilità” che ha lo Stato di “in-formare” e dirigere una collettività non solo in quanto detentore del monopolio dell'uso legittimo della forza, ma anche e soprattutto come  "ragione pubblica" su cui si fonda l'unità di un popolo. Per questo motivo, come von Clausewitz comprese perfettamente, lo Stato può “condurre” quella “ impresa” che è la guerra, non in quanto “macchina”, ma in quanto organizzazione politica “razionale”, ovvero, secondo il teorico prussiano, in quanto intelligenza “personificata” avente la “forza morale”, ossia la "potenza", per chiedere ai cittadini di essere pronti a sacrificare anche la propria vita per il bene della comunità e che ordina, comanda e dispone agendo come un “soggetto unitario” (se per Sun Tzu la guerra può conseguire uno scopo politico basandosi sul Tao, sull'armonia tra il popolo e il sovrano, e se per Machiavelli la strategia dipende dalla saldezza dello Stato, per von Clausewitz, cui non sfugge il ruolo  delle masse nella guerra moderna, "razionalità" politica ed azione di comando devono essere appunto la messa "in forma" delle passioni che caratterizzano un popolo, cioè  della "volontà di potenza" di un popolo). Ed è pacifico che nessun gruppo “privato” possa agire in tal modo, se non trasformandosi in una forza politica (e tantomeno “l'impresa militare” può essere affidata al “libero mercato”, se non per alcuni aspetti della logistica). Parafrasando von Clausewitz allora si potrebbe affermare che l'economico ha una sua grammatica ma non una sua logica, ché solo una logica politica conferisce quell'unità d'azione senza la quale il conflitto sociale e la competizione economica degenerano inevitabilmente in “spirito di fazione”. Un pericolo però, quest'ultimo, che, in effetti, non corre la talassocrazia americana (come non lo correva quella inglese) dato che – e proprio in quanto “talassocrazia” - essa si basa sull'alleanza strategica tra il grande capitale finanziario (per sua “natura” apolide) e lo Stato, di modo che l'apparato tecnico-produttivo si sviluppi secondo una logica politica che favorisca la potenza capitalistica dominante (che può anche contare su una miriade di organizzazioni ed enti internazionali), nonché i “gruppi” e gli Stati subdominanti (come Israele e la Gran Bretagna), e che diffonda in tutto il mondo l'ideologia americanista, onde assicurarsi il consenso delle “masse popolari”, senza il quale la “forza morale” necessaria per alimentare la gigantesca “macchina da guerra” (in senso letterale e figurato) statunitense e dei principali alleati degli Usa verrebbe rapidamente meno. Di fatto, il mercato, lungi dall'essere "politicamente neutro" (né lo sono la maggior parte delle organizzazioni umanitarie e delle Ong che promuovono, anche se sovente in modo surrettizio, la privatizzazione dei diritti sociali) – si rivela essere il “veicolo” attraverso il quale gli Usa e, in generale, il capitalismo finanziario possono conservare e rafforzare la propria egemonia politica e culturale; a tal punto che, in Eurolandia, si è potuto quasi smantellare lo Stato sociale e si è giunti persino a ridurre in “servitù per debiti” interi Paesi. Mentre la crisi irreversibile della socialdemocrazia e del socialismo reale ha originato non il generico indebolimento degli Stati nazione, a vantaggio di organismi cosiddetti “sovranazionali”, ma di quegli Stati nazione, come l'Italia, privi di autentica sovranità nazionale.

 

Si deve pertanto constatare che, perlomeno in Europa, nonostante la gravissima crisi economico-finanziaria che attanaglia il “mondo occidentale”, e in specie l'America, non vi sono né le condizioni politiche né le condizioni culturali per contrapporsi in modo efficace alla “volontà di potenza” atlantista e, di conseguenza, alla società di mercato. Da un lato, la strumentalizzazione, in funzione antifascista o anticomunista, della “memoria storica”, ovvero dell'estremismo nazionalista e dell'involuzione totalitaria dello Stato nella prima metà del secolo scorso, non solo rende difficile comprendere che l'olismo ed il totalitarismo sono concezioni del tutto diverse, ma blocca ogni tentativo di superare il sistema liberaldemocratico al fine di evitare che gli egoismi corporativi “soffochino” l'unità dello Stato, che non è una “astrazione metafisica”, bensì una “forza reale”, anzi l'unica forza che possa arginare gli “appetiti” illimitati dell'oligarchia atlantista” (e questo lo si deve ribadire “contro” ogni forma “ingenua” di comunitarismo). Dall'altro - pur se è vieppiù palese che la lottizzazione della cosa pubblica, l'abuso dei privelegi, la separazione tra eletti ed elettori e gli innumerevoli “difetti” della democrazia liberale sono inconvenienti strutturali del sistema di potere “occidentale” - l'americanismo, che è appunto un “ismo”, continua ad essere l'orizzonte politico-ideologico delle masse popolari (“occidentali” e non); e si sa che in politica, come in guerra, l'intenzione ostile non basta, ché occorre anche il sentimento ostile; ossia per governare, nel vero senso della parola, occorre il consenso. In questa situazione, quindi è irrealistico pensare che sia possibile smarcarsi dagli Usa o che alcuni membri della classe dirigente di un Paese europeo siano disposti a farlo, magari sfruttando il conflitto tra dominanti (che è inevitabile sia perché non v'è struttura politica che sia monolitica, sia per quella eterogenesi dei fini che fa sì che nessun sistema possa mai considerarsi del tutto autoreferenziale), giacché verrebbe a mancare proprio il consenso popolare, a meno che non si riuscisse a valorizzare le competenze generali e strategiche per ridefinire il bene comune in funzione di un progetto politico e culturale il più possibile “condiviso”. Comunque sia, tenendo conto pure che la quasi totalità delle relazioni personali, culturali e politiche (“libertà” inclusa) in una società di mercato sono mediate dal “potere” del denaro, ciò equivarrebbe più a formulare correttamente il problema del “giusto” rapporto tra il politico e l'economico che non a risolverlo. In ogni caso, anziché immaginare improbabili soggetti rivoluzionari, rischiando di finire nelle file dei “rivoluzionari colorati”, si dovrebbe almeno mirare a (far) comprendere le ragioni politiche per cui converrebbe dar vita ad un "grande spazio" geopolitico opposto a quello angloamericano (tanto più adesso che l'euro sembra rendere inevitabile il fallimento politico dell'Ue, o, se si preferisce, di “questa” Ue). Non perché si debba sostituire la filosofia con la geopolitica, bensì perché “Stato e potenza” dovrebbe essere una “formula politica” tanto realistica quanto “giusta”. Vale a dire che, anche sotto questo rispetto, si conferma che vi è bisogno di una posizione che sappia mettere in relazione l'agire strategico con la difesa di una idea di giustizia. Il che è, in definitiva, il riconoscimento della perenne validità dell'insegnamento della filosofia (politica) dei Greci.

 

Note

 

1) Per quanto concerne Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa, ci si riferisce specialmente alla loro produzione intellettuale negli ultimi due decenni. Saggi e/o articoli di entrambi sono disponibili anche in rete (vedi, ad esempio, per Preve, http://www.petiteplaisance.it/ebooks/e-books_free_01-20.html; mentre per La Grassa http://conflittiestrategie.splinder.com/).

2) Interessanti considerazioni in relazione a questo problema si trovano in Angelo d'Orsi, "Piccolo manuale di storiografia", Bruno Mondadori, Milano, pp.13-16.

3) Karl Polanyi, "La grande trasformazione", Einaudi, Torino, p. 95.

4) Alain de Benoist, "Decolonizzare l’immaginario dall’utilitarismo", http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=39052

5) Ibidem.

6) Ciò, di per sé, implica una critica dell'ideologia della crescita, e, in generale, di quel che si suole denominare “il regno della quantità”, ma non per questo si deve giustificare (perlomeno dal punto di vista politico) un semplicistico “rifiuto” della modernità, rinunciando a cercare di «imprigionare la tecnica scatenata, domarla e [...] metterla in un ordinamento concreto» (Carl Schmitt, "Dialogo sullo spazio", in Carl Schmitt, "Terra e mare", Giuffrè, Milano, 1986, p.108). E forse è questo problema che i teorici della decrescita, anche loro più attenti agli aspetti quantitativi della crescita che non a quelli qualitativi dello sviluppo, pare non prendano in sufficiente considerazione.

7) Sulla "realtà" della contraddizione non si può che rimandare all'eccellente saggio di Emanuele Severino "Tramonto del marxismo. Discusssione con Lucio Colletti e risposta semiseria a Paolo Rossi", in Emanuele Severino, "Gli abitatori del tempo", Armando , Roma, 1978, pp. 36-115. Naturalmente, se e solo se si concepisce la società di mercato ("capitalistica") secondo una metodologia diversa da quella delle scienze della natura, ossia come "soggetto" - anziché come semplice aggregato, più o meno stabile, di individui, negando quindi che le relazioni sociali siano costitutive per l'individuo – è lecito affermare che la realtà sociale può "contraddirsi", altrimenti ciò sarebbe assurdo.

8) Luigi Ruggiu, "Riconoscimento e conflitti", in Luigi Ruggiu e Francesco Mora ( a cura di ), "Identità, differenza, conflitti", Mimesis, Milano, 2008, p.89.