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Quel fascista di Hemingway. Quell’anarchico di Céline

di Miro Renzaglia - 30/06/2011

Fonte: glialtrionline


 



Un giorno soltanto separa le date della loro morte. Luis-Ferdinand Céline dipartì il primo Luglio. Ernest Hemingway “si” dipartì il due. L’anno era lo stesso: il 1961. Ricorre, quindi, il cinquantenario della loro morte. Ovvio: è una pura coincidenza.  E, fosse solo per questa, converrebbe senz’altro scriverne separatamente. Il fatto è che, invece, messi a confronto e pure in contraddizione, i loro casi ci offrono lo spunto per considerazioni a un margine che poi troppo a margine non è. Partiamo proprio dalle polemiche che le ipotizzate celebrazione della ricorrenza hanno suscitato in America e Francia. Se appaiono abbastanza scontate le resistenze francesi all’ufficialità per Céline, persistendo contro lui l’accusa di antisemitismo, meno comprensibile è la decisione della Ernest Hemingway Foundation di rinunciare all’evento. La causa sembra essere questa: meglio sorvolare su una data che, giunta per mano suicida, getta ombre non gradite sulla solare figura dello scrittore americano per eccellenza. Fateci caso, nonostante l’asimmetria delle motivazioni, il ragionamento ostativo sembra avere la stessa radice: quella della vergogna nazionale da cancellare, da rimuovere e, appunto, da non celebrare.

Entrambi volontari nella Prima guerra mondiale, vi si comportarono eroicamente, fino a rimanere tutti e due feriti fisicamente: alla testa, Céline; ad un piede e ad una rotula, Hemingway. Uscirono dalla prova con sentimenti di orrore e disgusto in apparenza identici: «Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine», scriverà l’americano. E il francese di rimando: «Ci sono per il povero a sto mondo due grandi modi di crepare, sia con l’indifferenza generale dei suoi simili in tempo di pace, sia con la passione omicida dei medesimi quando vien la guerra». Eppure, dalla stessa esperienza e dallo stesso sentimento sorgeranno atteggiamenti diametralmente opposti, sia sul piano esistenziale che su quello letterario. Hemingway diventerà corrispondente di guerra di quasi tutti i conflitti  successivi. Evidentemente, in lui, la repulsione bellicista non fu sufficiente a domare la fascinazione che in gioventù aveva provato e della quale vorrà continuare ad essere testimone diretto. Una fascinazione che lo porterà a esaltare nella sua opera letteraria, la figura del soldato e dell’eroe. Céline, invece, si convertì alla causa della pace arrivando a darsi dell’imbecille per aver creduto, fino all’evidenza della prova contraria, al pacifismo di Hitler. E i suoi personaggi, più che al sole, tenderanno verso lo scavo abissale e tellurico delle miserie umane.

E con i loro personaggi letterari, a ben vedere, furono entrambi coerenti. Hemigway si darà ad una vita avventurosa, fra entusiasmi per la tauromachia, per il pugilato (incrocerà i guantoni sul ring anche con Ezra Pound), safari africani, matrimoni e divorzi, successi letterari (vinse il premio Pulitzer nel 1953 e il Nobel nel 1954), pesche di altura, viaggi ultraoceanici, missioni spionistiche. Un attivismo, insomma, senza pausa e senza paura. Perseverante, nella sua frenesia vitalista, anche quando le condizioni fisiche, vuoi per qualche incidente di percorso (rimase seriamente ustionato nel corso di un incendio in Africa) vuoi per gli ultradosaggi alcolici ai quali si concedeva senza alcun risparmio per il suo fegato (pare siano di sua invenzione i famosi cocktail cubani a base di rum: il mojito e il daiquiri) tutt’altro gli avrebbero dovuto consigliare. Fino a cadere in depressione quando le forze fisiche con l’età presero a scemare e, da qui, al suicidio.

Céline, invece, divenne il medico dei poveri (si era laureato in medicina nel 1924) quasi mai pagato per le sue prestazioni  professionali. Cadde in disgrazia editoriale, dopo i successi di Viaggio al termine della notte e di Morte a credito, a causa della pubblicazione del pamphlet “antisemita” Bagattelle per un massacro. Verso la fine della Seconda guerra mondiale, fu condannato a morte per l’accusa di collaborazionismo con i tedeschi (falso: non solo non collaborò ma i nazi diffidavano molto di lui, tanto da vietare in Germania la diffusione dei suoi libri accusati, non a torto, di nichilismo). Costretto alla fuga, fu catturato e imprigionato in Danimarca per 14 mesi. Liberato, rimase in esilio fino al 1951. Al rientro in patria fu condannato alla confisca dei beni e, ovviamente, al disinteresse della critica letteraria francese capitanata da quello stalinista di Jean Paul Sartre. Praticamente recluso nella modesta abitazione di Meudon, alle porte di Parigi, più povero dei poveri che riprese a curare gratis, morirà per cause naturali, nell’indifferenza generale.

Tratteggiate per sommi capi le loro traiettorie esistenziali e le loro poetiche, se volessimo fare il vecchio giochetto delle interpretazioni idealistiche della letteratura, le patenti politiche che ancora oggi connotano i due potrebbero essere tranquillamente invertite. Ad Hemingway, campione di un vitalismo attivistico ai limiti dell’esaltazione eroica, non fosse per il suo sbandierato antifascismo («Il fascismo è una menzogna detta da prepotenti») spetterebbe honoris causa la medaglia d’oro della cultura di destra. A Céline, non fosse per il suo radicale anticomunismo (di derivazione antiebraica ai quali, ebrei, attribuiva qualsiasi colpa, compreso il comunismo, appunto) quella della sinistra o, almeno, di una certa sinistra libertaria, forse finanche anarchica.

Ma questo giochetto piace, ormai, e grazie al cielo, solo ai poveri se non di spirito, sicuramente di criteri più nobili e atti a stabilire i limiti della grandezza poetica. In un articolo di qualche anno fa, Giovanni Raboni scriveva: «Le idee di uno scrittore contano, e come; solo che si nascondono – e, insieme, si rivelano – nelle sue metafore, nelle sue iperboli, nelle sue immagini, nello spessore materiale della sua voce. E allora? Allora rileggiamoli i Grandi Reprobi di oggi e di domani; rileggiamoli badando non solo a ciò che dicono, né solo a come lo dicono, ma al continuo riversarsi e convertirsi dell’una cosa nell’altra, alla dialettica che essenzialmente e inesauribilmente si instaura tra forma e contenuto o, meglio, tra forma del contenuto e contenuto della forma, insomma all’infinita circolazione del senso in ogni fibra visibile e invisibile dell’indivisibile realtà testuale. E a quel punto, solo a quel punto, scopriremo forse che se il muro di Berlino, per la letteratura, non è ancora caduto è perché per la letteratura, forse, non è mai esistito».

Ora, è chiaro che l’invito di Raboni a rileggere i Grandi Reprobi senza le lenti deformanti delle ideologie si addice assai di più e meglio a Céline che non ad Hemingway che reprobo, né grande né piccolo, non lo è stato manco un po’ in vita sua. Eppure… eppure quel neanche tanto sottile imbarazzo che la Fondazione Hemingway prova per il suo suicidio, al punto di decidere di celebrarne solo la nascita e non il cinquantenario della morte, rivela ancora una volta il tentativo di interpretare l’Autore secondo un canone idealistico che, nel caso, è di chiara impronta puritana. Ma se il suicidio rappresenta l’onta della sconfitta per un uomo che si vuole ricordare vincente a tutti i costi (lui stesso in un eccesso di autostima si definiva “Papa”) perché, allora, insieme a Bagattelle per un massacro, non mettere all’indice degli illeggibili anche Il vecchio e il mare? In fondo, quella hemingwyana «Vela rattoppata con sacchi da farina [che] quand’era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne» fa tremendamente rima con il convincimento céliniano: «La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte».