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La cultura non si mangia. E’ lei che mangia te

di Luciano Lanna - 12/07/2011


Che in Italia sia in moto una riscossa contro la logica tremontiana secondo cui “la cultura non si mangia” è sotto gli occhi di tutti. Ultima iniziativa quella degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma che hanno indetto, a proposito di mangiare, lo sciopero della fame.

«L’Italia è l’unico paese occidentale – spiega per tutti loro Dionigi Mattia Gagliardi, 24 anni, studente di scenografia a via Ripetta – che non ha ancora riconosciuto alle Accademie lo status universitario». Ghettizzati e «sotto il fuoco incrociato di resistenze (e interessi) sindacali, ministeriali e governativi» docenti e studenti hanno deciso di unire la loro protesta a quella degli addetti allo spettacolo e all’occupazione, sempre a Roma, del Teatro Valle. Gli studenti dell’accademia ci tengono a spiegarlo: «Qui si sono formati Canova, Bernini, Michelangelo, Umberto Boccioni, Renato Guttuso, Pino Pascali, Jannis Kounellis, e adesso… ».

A Madrid, la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, dove ha studiato Pablo Picasso, è facoltà di Belle Arti dal lontano 1976. Ma in Italia, in particolare da quando si governa con una mentalità economicista (basta ricordare le tre “i”), si ritiene che la cultura sia solo decorazione edonistica o inutile dispendio di denaro pubblico.

E da tempo tira davvero un’ariaccia, come ha recentemente osservato lo scrittore Marco Lodoli commentando la chiusura di moltissime librerie: «Di chi la colpa di questo stillicidio continuo? Chi sono i cattivi e quando arriverà il Settimo Cavalleggeri? Nessuno può saperlo, di certo molto meno gente entra in libreria o va a teatro, le nuove generazioni percorrono altre strade, e poi in fondo da tempo è passato il messaggio che bisogna solo divertirsi, che la cultura è la malinconia dei sessantottini…».

Espressione davvero azzeccata, quest’ultima, che sintetizza al meglio il pensiero dei Tremonti, dei Brunetta, dei Bondi, forse pure delle Gelmini, sul senso del cosiddetto sociale immateriale, vale a dire sui giacimenti culturali ed estetici che secondo la vulgata pidiellina sembrerebbero rappresentare soltanto una fonte di sperperi e di rallentamento della crescita economica oppure, nel migliore dei casi, una voce di spesa destinata a foraggiare un’area di assistiti. Ma che la questione sia estremamente diversa lo dimostrano i tanti studi e le stesse relazioni di Federcultura che tornano sempre sul fatto che la cultura sarebbe una fonte di crescita e di attività anche produttive.

Lo slogan che le idee non farebbero mangiare sarebbe in realtà solo il sintomo della mentalità vecchia, ottocentesca, però egemone nel centrodestra italiano. Ha fatto quindi bene la giornalista Marina Terragni a prendere carta e penna e scrivere al neoassessore milanese Stefano Boeri, rappresentandogli tutta un’altra versione e premendo sulla differenza tra sfera economica e dimensione culturale. «Dove ti giri ti giri – gli ha spiegato – la litania è sempre quella: non ci sono soldi, neanche in Comune. Mancano per il pane, figuriamoci per le rose della cultura (anche se quelle rose si mangiano, eccome). Frugo nelle mie tasche, e come Tom Sawyer e Huck Finn ci trovo una fionda, qualche biglia, una rana morta, ma pochi soldi. E in casi come questi si tratta di torcere il difetto, anzi il deficit, in opportunità. Se si prova a intendere la cultura come cultura della carenza, allora siamo ricchi…».

La tesi della Terragni è che se per un attimo si mettesse da parte la logica economicistica si potrebbe riscoprire il significato autentico della cultura in sé: una cultura del dono, della gratuità, del diletto, dell’amicizia che s’è sempre riuscita a farsi largo quando l’onnipresenza dell’attenzione all’accumulo di denaro, misura onnivora, le lascia un po’ di spazio. «Ecco – prosegue la giornalista – si tratta forse di fare di questa cultura del dono di cui siamo già naturalmente tanto ricchi l’asse portante di una politica culturale, in continuità con quella diffusa generosità che abbiamo visto in azione in questi mesi e che ha prodotto il miracolo della svolta civica milanese.

Questa è l’occasione che ci viene offerta dal deficit di bilancio». E via, allora, con una proposta concreta tutta giocata sul fattore della partecipazione dei singoli: «Poter dare, ciascuno per ciò che ha e che può, alla città, ristabilirebbe anche quel senso di comunità che ci è mancato dolorosamente e per troppo tempo, e sarebbe un fatto culturale, anzi Culturale in sé».

Qualcuno potrebbe offrire direttamente soldi: ci sono infatti ancora cospicui patrimoni privati. Qualcun altro idee: i creativi, non solo tra i giovanissimi, non mancano. Altri ancora del loro tempo libero, della loro buona volontà, delle loro relazioni. Si metterebbe così in campo una generale  mobilitazione civica che, in realtà, è già cultura e fa cultura: «la cultura della comunità, dell’amicizia, del dono del gratis: concetto inattuale ma fondamentale, perché la grazia è già abbondanza…». Sarebbe questo il vero evento culturale, insomma, non i tanto sbandierati “grandi eventi” che lasciano il tempo che trovano.

Marina Terragni conclude con un esempio concreto: invitare gli architetti, gli stilisti, i creativi che, ad esempio, tanto hanno avuto da Milano, a restituire cultura “adottando” un pezzetto di città meno fortunato del Quadrilatero per farci qualcosa di bello, visto che loro con il bello hanno una certa dimestichezza. E poi chiedere agli artisti in ogni campo, dal cinema al teatro, dalle arti figurative alla musica, di fare il loro “dono” alla città con una performance in sottoscrizione, come si diceva una volta, finalizzata a qualche obiettivo specifico.

Sarebbe il modo per dimostrare l’infondatezza dello slogan tremontiano e confermare invece la giustezza delle parole del poeta coreano Lee Chang-dong, che è stato anche ministro della Cultura del suo paese: «Mi sono battuto per cambiare la percezione che la cultura dovesse dipendere dall’economia». Altro che malinconia dei sessantottini, altro che – per dirla ancora con Lodoli – «palla al piede per chi vuole soltanto ballare sul dorso del mondo».