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Gli uomini, per Nietzsche, prima che pavidi sono pigri e temono la sincerità incondizionata

di Francesco Lamendola - 12/07/2011





Perché non siamo lieti di noi stessi?
Questa imbarazzante domanda è stata posta, circa un secolo e mezzo fa, da uno dei più fieri avversari della massificazione operata dalla società moderna: Friedrich Nietzsche, il grande ribelle (tuttora) incompreso.
Talmente incompreso che destra e sinistra non hanno mai smesso di tirarlo per la giacca nel tentativo di arruolarlo nelle loro file: i nazisti si sono inventati addirittura un libro, «La volontà di potenza», che egli non aveva mai scritto; e i marxisti delle ultime due generazioni hanno fatto a gara nel saccheggiare brandelli del suo pensiero per fargli dire, del pari, quello che non si era mai nemmeno sognato di pensare.
Il buon vecchio Friedrich, se sta assistendo a questo spettacolo da un’altra dimensione, senza dubbio si fa delle matte risate: perché era un uomo che sapeva ridere, a differenza dei suoi lugubri e interessati ammiratori, il cui unico scopo era ed è quello di mettere all’occhiello delle loro sconce ideologie il pensiero del grande ribelle, il cui dito mignolo vale più di cento e mille di questi intellettuali da strapazzo, senza dignità e senza onore.
Destino dei grandi anticonformisti: divenire le icone dei «conformisti di massa» (orribile ma veritiero ossimoro), i quali si appropriano, dopo la loro morte, di questo o quell’aspetto del loro messaggio e ne fanno una ennesima bandiera per la loro pigrizia mentale, per la loro inautenticità standardizzata.
Ma torniamo alla domanda iniziale: perché gli esseri umani non possono essere lieti di se stessi, cioè di essere così come sono, e non altrimenti?
O, se si preferisce: perché non sono grati ed entusiasti di essere delle creature uniche, originali, irripetibili; perché non esultano di gioia al pensiero che nessuno, in tutto il mondo, è mai stato né mai sarà uguale a ciascun altro e che, dunque, ogni vita é un capolavoro assoluto di autonomia e di libertà?
La risposta che dà Nietzsche è questa: perché hanno paura dei fastidi che deriverebbero loro dall’essere se stessi; per cui preferiscono indossare la loro brava uniforme, mettersi la loro brava maschera sul viso e andarsene in giro come tanti burattini, a dire e ripetere le stesse cose che dicono gli altri, a fare e rifare le stesse cose che fanno gli altri; in breve: a lasciarsi arruolare volonterosamente in quell’obbrobrioso cimitero della autenticità individuale che è la cosiddetta opinione pubblica.
Scrive Nietzsche nella Terza Considerazione Inattuale, del 1874, intitolata «Schopenhauer come educatore» (in: Nietzsche, «Considerazioni inattuali», traduzione italiana di Giulio Raio, Roma, Newton & Compton editori, 1993, pp.169-70):

«Un viaggiatore che aveva visto molti paesi e popoli e più continenti, interrogati su quale qualità degli uomini avesse ovunque ritrovato, rispose: essi sono inclini alla pigrizia. A molti parrà che, più giustamente e più validamente, avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi. Si nascondono dietro costumi e opinioni. Ogni uomo, in fondo, sa bene di essere al mondo sol per una volta, come un unicum, e che nessun caso, per quanto straordinario, riuscirà a una seconda volta a mescolare insieme quella molteplicità così eccentricamente variopinta nell’unità che egli è; questo l’uomo lo sa,  ma lo nasconde come una cattiva coscienza - perché? Per paura del prossimo che esige la convenzione e in essa si nasconde. Ma cosa costringe il singolo a tenere il prossimo, a pensare e agire come il gregge, a non essere lieto di se stesso? Per alcuni, ma sono rari, forse il pudore. Per la grande maggioranza è poltroneria, indolenza, in breve quell’inclinazione alla pigrizia di cui il viaggiatore parlava. Egli ha ragione: gli uomini ancor prima che pavidi sono pigri e soprattutto temono gli incomodi che procurerebbe una nudità e una sincerità incondizionata.  Soltanto gli artisti odiano questo indolente incedere ostentando maniere d’accatto e opinioni posticce e svelano il segreto, la cattiva coscienza di ognuno, il principio cioè che ogni uomo è un miracolo irripetibile:; essi soltanto osano mostrarci l’uomo nella loro peculiarità  e unicità fin nel più piccolo movimento muscolare, e, ancor bello e degno di osservazione, nuovo e incredibile come ogni opera della natura, e niente affatto noioso. Il grande pensatore che disprezza gli uomini, ne disprezza la pigrizia: poiché a causa di questa essi appaiono simili a prodotti di fabbrica, indifferenti, indegni di contatti e di ammaestramenti. L’uomo che non voglia far parte della massa non ha che da smettere di essere  accomodante con se stessi; segua piuttosto la propria coscienza che gli grida: “sii te stesso! Tu non se certo ciò che fai, pensi e desideri ora”.
Ogni giovane anima sente giorno e note questo appello e ne trema; infatti presagisce, rivolgendo il pensiero alla sua reale liberazione, la misura di felicità destinata dall’eternità; felicità che non riuscirà mai a raggiungere se incatenata dalle opinioni e dalla paura. E quanto assurda e desolata può divenire l’esistenza senza questa liberazione! Nella natura non c’è creatura più vuota e ripugnante dell’uomo che è sfuggito al suo genio e ora volge di soppiatto lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un tale uomo alla fine non li si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio, un fantasma agghindato che non può ispirare paura e tanto meno compassione. E se a ragione si dice del pigro che ammazza il tempo, allora ci si deve preoccupare sul serio che un tempo che pone la propria salvezza nelle opinioni pubbliche, e cioè nelle pigrizie private, sia ucciso una buona volta: venga, intendo dire, cancellato dalla storia della vera liberazione della vita. Con quanta ripugnanza si occuperanno le generazioni future dell’eredità di un’epoca in cui a governare non erano uomini viventi ma parvenze di uomini con un’opinione pubblica; per questo forse la nostra epoca apparirà a una qualche lontana posterità il periodo della storia più oscuro e più ignoto perché più inumano. Vado per le nuove strade delle nostre città e penso che di tutte queste orribili case, che la generazione dell’opinione pubblicasi è costruita, tra un secolo non rimarrà nulla, e che saranno finalmente crollate anche le opinioni dei costruttori di tali case. Quante speranze debbono nutrire, invece, tutti coloro che non si sentono cittadini di questo tempo; se lo fossero, infatti, si adoprerebbero a uccidere il proprio tempo e a perdersi con esso - mentre vogliono piuttosto ridestare alla vita il tempo per continuare essi stessi a vivere in questa vita.»

Basterebbe questa pagina per mostrare quanto siano e siano stati assurdi i tentativi del nazismo e del marxismo, due tipiche manifestazioni dell’ideologia dell’uomo-massa, di appropriarsi del pensiero di Nietzsche; perché qui egli mostra, con estrema chiarezza, quale distanza abissale lo separi non solo da qualunque totalitarismo, ma da qualunque moda, da qualunque etichetta, da qualunque forma di pensiero prefabbricato e, magari, debitamente liofilizzato (perché anche fra i nazisti ben pochi avranno letto non diciamo «Il mito del XX secolo» di Rosenberg, ma anche solo il «Mein Kampf» di Hitler; e, fra i marxisti di parecchie generazioni sparse in tutto il mondo, i lettori de «Il capitale» sono certo stati e sono tuttora un’infima minoranza).
Ma entriamo nel merito della questione.
Per Nietzsche, la cosiddetta opinione pubblica altro non è che la somma di tutte le pigrizie private: intellettuali,  psicologiche, morali e spirituali; un gigantesco sistema di distruzione dell’autenticità il cui scopo e la cui ragion d’essere è l’annullamento di quanto, nell’uomo, vi è di singolare, di autentico, di unico.
Non si tratta di critiche nuove; qualche decennio prima di lui un altro grande anticonformista, Sören Kierkegaard, si era espresso in maniera molto simile contro le “gazzette” e l’appiattimento delle intelligenze da esse veicolato, trovandosi esposto in prima persona all’aggressione e al dileggio della stampa scandalistica e restando completamente isolato dalla cultura “ufficiale” nella lotta intrapresa per difendersi contro di essa.
(Kierkegaard e Nietzsche, il teologo e l’ateo: due anime molto più affini e due intelligenze molto più simili di quello che la mediocre Vulgata dei professori di filosofia, che è - essa stessa, un monumento all’ipocrisia conformista - sia disposta ad ammettere.)
Dunque: posto che il meccanismo psicologico fondamentale del conformismo è la pigrizia, rimane da vedere se i poteri occulti che controllano la cosiddetta opinione pubblica (proprietari di reti televisive, di giornali e di case editrici) sfruttino questa debolezza intrinseca dell’uomo-massa in maniera estemporanea, unicamente per vendere meglio i loro prodotti, o se agiscano in base a un piano definito e concertato a livello mondiale, il cui obiettivo finale è il controllo e il dominio delle menti e delle anime per assoggettarle anche in senso politico, sociale, economico e poter trascinare le masse in qualunque direzione, come un gregge di pecore sospinto dal pastore e dai suoi fedeli cani da guardia.
La domanda, in altri termini, è se esista un piano deliberato per strappare l‘anima del mondo, facendo leva sul conformismo, attraverso la diffusione di una cultura nichilista e relativista, in cui il male viene sistematicamente spacciato per bene e in cui ci si compiace di dissacrare, deridere, distruggere qualunque valore positivo, qualunque visione nobile dell’uomo, qualunque senso del dovere, della solidarietà e del rispetto di se stessi.
Da parte nostra, siamo decisamente propensi a rispondere affermativamente a un tale interrogativo, anche se non esistono prove incontrovertibili in proposito, ma solo una serie di indizi; e anche se ben sappiamo che una tale lettura della realtà viene oggi bollata con i termini dispregiativi di delirio complottista e oscurantismo antiscientifico e relegata fra le leggende metropolitane o nella cosiddetta subcultura reazionaria e antimoderna.
Quest’ultima accusa, in particolare, non ci turba minimamente e anzi la accogliamo volentieri: sì, siamo antimoderni, se la modernità è quell’insieme di religione del progresso illimitato, di rozzo e arrogante materialismo, di disprezzo per la tradizione, per la spiritualità, per tutto ciò che è nobile puro e disinteressato (laddove i cattivi maestri Marx e Freud insegnano che nulla v’è di nobile e disinteressato, ma che tutto è un gioco di potere e di sessualità aberrante).
Ora, ritornando al nostro assunto iniziale, ci sembra che una conclusione - sia pure provvisoria - di segno positivo, potrebbe essere che il modo migliore per reagire alla massificazione delle coscienze e all’appiattimento degli intelletti, è proprio quello di riscoprire il valore della sincerità con se stessi, l’orgoglio della propria unicità, la giusta fierezza del porsi in maniera autonoma, critica e creativa nei confronti del reale.
Ovunque si vedono persone che reagiscono in base a dei meri riflessi condizionati, scandalizzandosi davanti a tutto ciò che tuba le loro certezze preconfezionate e biascicando giaculatorie allorché odono mettere in dubbio quei ritornelli rassicuranti e conformisti che, ripetuti come dei mantra, sono divenuti per esse delle verità di fede, per quanto non si siano mai prese la briga di verificarne l’attendibilità in base a un qualche ragionamento personale.
Lasciamo, dunque, che simili individui, merce all’ingrosso sul mercato della società di massa e pecore belanti di un gregge totalmente deresponsabilizzato, si scandalizzino e si straccino le vesti come i farisei o i sacerdoti del Tempio, quando sentono una voce pensante fuori dal coro: è inutile offrire strumenti di crescita personale a chi ha fermamente deciso di restare aggrappato a delle verità di comodo.
Costoro non hanno mai provato la gioia di sentirsi vivi, di essere se stessi; nemmeno arrivano a immaginare quale entusiasmante esperienza potrebbe essere la loro vita, se cercassero di viverla realmente.
Non è a loro che ci rivolgiamo, ma ai coraggiosi viandanti in cammino lungo le strade faticose della consapevolezza.
Ad essi vogliamo dire che non devono sentirsi soli, né scoraggiarsi: sono più numerosi di quel che non credano, perché il loro passo è silenzioso e viene sovrastato dal disordinato scalpiccio delle pecore belanti.
Ma le pecore girano in tondo e non arrivano da nessuna parte; mentre loro, sia pur lentamente e pagando il prezzo dell’onestà e della coerenza, si stanno avvicinando, poco a poco, alla meta più importante di tutte: il ritorno a se stessi, il ritorno alla luminosa casa dell’essere.
Coraggio, dunque, viandanti solitari: se aprite bene gli occhi, certamente vedrete brillare nel buio le fiammelle che serviranno a indicarvi la giusta via da tenere.