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Perché non voto – 1: Roberto Maroni

di Alessandra Colla - 12/07/2011

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Torno dalla solita passeggiata al parco, dove ho avuto una lunga conversazione con uno dei legionari più antichi — non un veterano come me, ma insomma un buon frequentatore.

Abbiamo parlato di tante cose, come ci càpita sempre, e anche di politica. Secondo lui, dovrei votare. Sa benissimo che non lo faccio da un’eternità, e sa anche perché, ma si fa un punto d’onore di ripetermelo tutte le sante volte che andiamo sul discorso  — per lui, che non si è mai perso un’elezione da quando è diventato maggiorenne, è un obbligo morale. E poi dai tempi dell’oratorio gli dev’essere rimasto un briciolo di quella voglia matta di convertire che sotto sotto alberga in molti di noi.

Stavolta non c’è stato il tempo di scendere nei particolari, così non sono riuscita a esprimergli fino in fondo le mie considerazioni di questi ultimi giorni.

Per esempio, non ho fatto in tempo a dirgli che, pur essendo matematicamente certo che mai e poi mai avrei potuto o potrei votare per il Pdl o per i suoi accoliti, partecipare alla farsa elettorale mi catapulterebbe immediatamente nel cuore di un sistema che legittima (tra gli altri, e l’elenco è più corposo del catalogo di Don Giovanni) personaggi come Roberto Maroni o Sergio Berlato — ciò che mi fa orrore. Il discorso è lungo, quindi lo dividerò in due parti e qui mi limiterò a parlare di Maroni.

Roberto Maroni, se a qualcuno fosse sfuggito,  è il ministro dell’Interno che or non è molto ha definito “tentato omicidio” i fatti occorsi in Val di Susa.

Ora, dalla biografia del ministro si apprende che «All’età di 16 anni, nel 1971, Maroni milita in un gruppo marxista-leninista di Varese; fino al 1979 frequenta il movimento d’estrema sinistra Democrazia Proletaria». Essendo nato nel 1955, è lecito supporre che perlomeno a partire dalla seconda metà degli anni Settanta il futuro ministro fosse pienamente consapevole delle sue azioni. Ammetto di ignorare quale fosse il “gruppo marxista-leninista di Varese” nel quale Maroni iniziò la sua carriera politica;  di Democrazia Proletaria — d’ora in poi DP —, invece, qualcosa ricordo.
Ricordo  che DP nacque nel 1975 come cartello elettorale (diventerà partito nel 1978) promosso, tra gli altri, anche da Avanguardia Operaia — AO. La quale AO rischiava proprio allora lo scioglimento in quanto “organizzazione paramilitare”, secondo le conclusioni del giudice Viola, al termine di una serie di indagini avviate l’anno prima: rintracciando un’auto rubata (una 500 di proprietà della dottoressa in medicina Silvia Lenzi, di Firenze) i carabinieri di Greve in Chianti avevano trovato, nascosti sotto il sedile dell’utilitaria, documenti definiti “compromettenti”, tra cui un fascicolo di sedici pagine ciclostilate dal titolo «Note per la formazione di unità operative plotoni». In un capitolo del fascicolo in questione, stava scritto: «Uno dei nemici che troverai davanti molto spesso è il reparto di polizia».
(Ricordo pure che il famoso schedario contenente migliaia di dati relativi a militanti fascisti o presunti tali, organizzazioni rivali e possibili obiettivi di attentati, rinvenuto nel covo di viale Bligny in seguito alle indagini sull’assassinio di Sergio Ramelli, era stato iniziato negli anni Settanta proprio da Avanguardia Operaia, che lo consegnò poi nelle mani di Democrazia Proletaria. Non c’entra molto, qui, ma credo nella validità delle libere associazioni).

Come passa il tempo, eh? Dal poliziotto come nemico al poliziotto come vittima. Bella carriera, quella di Maroni: quasi impensabile, per uno partito dalla sinistra extraparlamentare, passato attraverso la lotta per la secessione e finito a fare il ministro dell’Interno di Roma ladrona. Del resto, il Potere deve necessariamente preservare se stesso; e quando si arriva a ragionare in questi termini, è facile dimenticare che la prima violenza, quella che origina tutte le altre, scaturisce proprio dalla prepotenza del governante sul governato — il che si verifica precisamente quando il governante non ha più in vista il bene comune, bensì il vantaggio di pochi suoi sodali: proprio come il caso di specie, in cui si configura l’applicazione del diritto di resistenza.

Vicenda sofferta, quella del diritto di resistenza nella storia della Repubblica italiana — nel corso dei lavori per l’elaborazione della prima parte della Costituzione, il 5 dicembre 1946 la Sottocommissione incaricata inserì nel Progetto di Costituzione, al 2° comma dell’art. 50, la seguente disposizione: «Quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino». Proposta dal democristiano Giuseppe Dossetti e dal demolaburista Cevolotto, la disposizione era manifestamente ispirata all’art. 21 della Costituzione francese del 1946: «Qualora il governo violi la libertà ed i diritti garantiti dalla costituzione, la resistenza, sotto ogni forma, è il più sacro dei diritti ed il più imperioso dei doveri». Ma nel maggio 1947, quando il Progetto di Costituzione venne discusso dall’Assemblea Costituente in seduta plenaria, alcuni deputati si opposero all’inserimento della norma; e così nel dicembre dello stesso anno, quando si votò il testo dell’art. 54 («Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge»), sostitutivo dell’art. 50 del Progetto, il diritto di resistenza risultò soppresso, nonostante il voto favorevole di comunisti, socialisti e autonomisti. Non è irragionevole pensare che sull’esito del voto influisse una certa apprensione motivata da un vizio di interpretazione del concetto di resistenza, confuso con quello di rivoluzione e suggerito dalle recenti vicende del Paese: tra i due termini, infatti, c’è una profonda differenza — la rivoluzione è sovversiva, cioè tende al rovesciamento del regime politico vigente; invece la resistenza è restauratrice, cioè mira al recupero e alla conservazione del regime politico vigente ma percepito come snaturato. Dunque la resistenza si configura a buon diritto come strumento di garanzia per l’esistenza del regime politico. (A questo punto, ci si potrebbe chiedere se l’antifascismo post 25 luglio 1943 non abbia fatto opera di rivoluzione piuttosto che di resistenza; e se in quest’ottica il termine di “resistenza” non vada invece applicato ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana — ma temo che finiremmo molto lontano). In ogni caso, con uno di quegli escamotages che hanno reso l’Italia famosa nel mondo si può affermare orgogliosamente che «Il diritto di resistenza è sostanzialmente (ed implicitamente) accolto dalla nostra Costituzione, in quanto rappresenta una estrinsecazione del principio della sovranità popolare, sancita dall’art. 1 della Costituzione e che quindi informa tutto il nostro Ordinamento giuridico».

Come che sia, attualmente il ministro Maroni (che qualcuno considera il peggiore che abbiamo mai avuto) sembra essersi calato alla perfezione nella parte, ed aver fatto tesoro degli insegnamenti elargiti a suo tempo da un ex ministro dell’Interno poi divenuto presidente della Repubblica — Francesco Cossiga. (Ora che mi ricordo, gli anni in cui Cossiga fu ministro dell’Interno coincidono con quelli della militanza di Maroni in DP: ed erano gli anni in cui Maroni e i suoi compagni di merende scrivevano Kossiga con la “k” e con la “ss” runica. L’ho già detto che il tempo passa, no?).

Si scrive così, ma la pronuncia è uguale.

Dunque Cossiga, ex ministro dell’Interno, ex presidente della Repubblica e verosimilmente ex mandante dell’omicidio di Giorgiana Masi, così si esprimeva il 23 ottobre 2008 in un’intervista pubblicata da “Resto/Giorno/Nazione”:

«Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interno. [...] In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito… [Gli universitari, invece, lasciarli] fare... Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. […] Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri […] nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano […], soprattutto i docenti […] non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale! [...] questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio».
Sta’ a vedere che Crispi&Lavriano nel 1893 e Rudinì&Bava-Beccaris nel 1898 erano campioni di democrazia e non se n’è mai accorto nessuno. Io, quando penso a “democrazia”, ho in mente un’altra cosa — che non è quella dei signori appena menzionati, e non è neppure quella di Cossiga o di Maroni. Non mi stupisce, perché siamo diversi. E meno male.