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Così la follia demagogica e buonista sta distruggendo le basi della convivenza civile

di Francesco Lamendola - 13/07/2011







A UNA BELLA PERSONA DI NOME FEDERICA

Il fatto è accaduto recentemente, non importa il nome del paese, in un piccolo comune del Nordest: quel Nordest che la rozza Vulgata pseudo democratica si ostina a dipingere come ricco e ottuso (mentre sta diventando povero, ma salvando l’intelligenza) e che, a causa delle stupide intemperanze verbali di alcuni esponenti leghisti, gli Italiani delle altre regioni si immaginano popolato da energumeni impregnati di egoismo e di razzismo, mentre invece è pieno di brave persone, di onesti lavoratori, di padri e madri esemplari.
Un ragazzino di origine extracomunitaria (il neologismo può non piacere, ma sarebbe più bello bollarlo come “marocchino”, quasi che tutti i Marocchini fossero simili a lui?) ha rubato la bicicletta di un compagno di scuola; e il preside di quell’istituto, non che prendere provvedimenti disciplinari nei suoi confronti, se non altro per insegnargli che il furto non paga, ha stornato una somma dalla cassa scolastica per fargli acquistare una bicicletta nuova di zecca.
Motivazione: quel ragazzino non aveva rubato per “cattiveria”, ma perché povero; quindi è giusto e doveroso che la nostra società, ricca e comprensiva, lo risarcisca dell’ingiustizia di cui è vittima e gli consegni gratuitamente l’oggetto del suo legittimo desiderio.
Non fa una grinza, vero?
Così, in nome di un folle buonismo e di una demagogia tanto velleitaria quanto sfrenata, si manda a quel ragazzino, e a tutti i suoi compagni onesti, italiani e stranieri, un messaggio pedagogico semplicemente devastante: il furto è lecito e va premiato, se a commetterlo è un povero; l’onestà è un optional, riservato ai i figli dei ricchi; e tutto diventa giusto e legittimo quando si tratta di prendere la via più breve fra ciò di cui si è privi e ciò che si vorrebbe possedere.
Ebbene, a questi folli demagoghi, che abusano delle loro pubbliche funzioni per veicolare una filosofia di vita aberrante e totalmente diseducativa, bisognerebbe ricordare che innumerevoli padri e madri, negli anni durissimi della povertà delle nostre genti (perché il Nordest, prima di diventare la locomotiva d’Italia, è stato a lungo un’area Cenerentola, una terra di emigranti in cui si viveva di pane e polenta e ci si ammalava di pellagra e di malaria) hanno cresciuto i loro figli nella più onesta povertà, insegnando loro che nulla e nessuno avrebbero potuto giustificare il furto, non diciamo di una bicicletta, ma neppure di un pezzo di pane; e che il vero galantuomo non è colui che possiede un bel conto in banca, ma colui che, magari con le pezze al culo, non si abbassa né a mendicare, né a rubare, ma si sforza di vivere solo ed esclusivamente del proprio lavoro, per quanto ingrato e mal remunerato esso sia.
Se, viceversa, le istituzioni e, più in generale, il mondo degli adulti, incominciano ad insegnare che tutto è permesso e che la disonestà, non che essere punita, viene premiata, allora veramente i cerchioni della convivenza civile vengono incrinati fino a spezzarsi e la democrazia si trasforma in caos, dove al più furbo è concesso pressoché tutto e dove non importa come si arriva alla meta, magari calpestando gli altri e le regole più elementari della società, ma soltanto e unicamente il fatto di arrivare primi, senza gli altri e a danno degli altri.
Qualora un simile messaggio divenisse generalizzato, potremmo incominciare il conto alla rovescia della nostra fine; e, per essa, non avremmo da ringraziare altro che noi stessi, la nostra colpevole stupidità e la nostra inverosimile ciarlataneria.
Occorre, pertanto, correre ai ripari e, infischiandosene delle probabili accuse di autoritarismo, se non  anche di razzismo, ristabilire alcuni punti fermi della convivenza civile, senza i quali una società fatalmente si autodistrugge.
Il primo di tali punti fermi è il concetto di autorità, dal quale discende un altro concetto non meno importante, quello della giusta distinzione dei ruoli e delle funzioni.
Il genitore deve ricominciare a fare il genitore, non l’amico dei propri figli.
L’insegnante (non osiamo dire: l’educatore) deve ricominciare a fare l’insegnante, non il compagnone dei propri studenti: pretendendo, tanto per cominciare, che essi gli diano del lei e che si alzino in piedi quando entra in classe.
Il preside deve ricominciare a fare il preside e non lo zelante missionario di un libertarismo fumoso e di un democraticismo astratto e sconsiderato.
Il prete deve ricominciare a fare il prete e non il logorroico tuttologo: a cominciare da quei preti che stanno sempre in tv a pontificare su ogni cosa, con un misto di narcisismo perfino imbarazzante e di massimalismo buonista senza freni e senza cervello.
L’adulto deve ricominciare a fare l’adulto nei confronti di tutti i bambini e di tutti i ragazzi, non solo dei propri, togliendosi i panni del Ponzio Pilato che vede le cose sbagliate, ma non agisce e si lava le mani della responsabilità che gli deriva naturalmente dall’esperienza.
L’uomo deve tornare a fare l’uomo e la donna, la donna, abbandonando la confusione dei ruoli e riconoscendo le naturali differenze di genere: non nell’ottica di sottomettere l’uno all’altro, ma in quella di renderli reciprocamente collaborativi e non perennemente conflittuali.
Dire che l’uomo deve tornare a fare l’uomo non significa che egli deve regredire allo stato di neandertaliano, come subito pensano le femministe, per un riflesso condizionato, quando sentono una affermazione del genere. Significa semplicemente che deve tornare alla propria virilità, alla parte migliore di se stesso, che non è affatto priva di dolcezza e di delicatezza nei confronti dell’altro sesso.
E dire che la donna deve tornare ad essere donna significa, né più né meno, che dovrebbe smetterla di giocare a fare l’uomo, di imitare i modi del maschio, ma ritornare alla pienezza della propria femminilità: cioè, anch’essa, alla sua parte migliore, più vera e più autentica; che non è affatto priva, laddove sia il caso, di manifestazioni d’energia e di risolutezza.
Quanto agli omosessuali, con tutto il rispetto dovuto a ogni essere umano, bisognerebbe smetterla di presentare la loro condizione come parimenti naturale e dignitosa di quella degli eterosessuali, quasi che l’una equivalesse all’altra e che la società debba considerarle come ugualmente utili e necessarie, anzi, come una mera questione di libertà individuale, da tutelare con apposite leggi, nella più assoluta indifferenza di quel che sia bene o male per la società nel suo insieme.
I governanti, poi, devono tornare a governare, cioè ad agire nel pubblico interesse e non limitarsi a scaldare le poltrone, occupare il potere, tirare a campare il più a lungo possibile, con l’unico obiettivo di impedire che altri possano aspirare a sostituirli.
I giudici devono tornare ad amministrare la giustizia, non ad erigersi a contropotere dello Stato e meno ancora a svolgere un ruolo di tipo spettacolare.
I politici, a loro volta, devono tornare ad occuparsi di politica e non del loro profitto privato, né ad abbandonarsi a crociate contro la magistratura. Devono smetterla, per esempio, di commentare con toni aggressivi e velenosi le sentenze dei tribunali: le sentenze, in qualsiasi Paese civile del mondo, non si commentano, si rispettano e basta; meno ancora si cerca di delegittimare coloro che le hanno emesse, se davvero si ha a cuore l’ordinato funzionamento della società.
E così via.
Ciascuno deve ricominciare a svolgere il proprio ruolo, con umiltà e dedizione, rinunciando alla smania di apparire e, più ancora, alla facile moda di piacere a tutti, di assecondare tutti, di avallare qualsiasi cosa.
È ovvio che l’autorevolezza delle persone non riposa sul ruolo sociale che esse ricoprono, ma sul modo in cui lo svolgono; e che, pertanto, bisogna che ciascuno se la conquisti e se la meriti mediante l’esercizio di una capacità che sia riconosciuta dagli altri.
E tuttavia, da ciò non consegue affatto che qualunque ruolo sia uguale a qualunque altro e che chiunque possa fare tutto e dire tutto, improvvisando competenze che non possiede e saperi che non sa nemmeno dove stiano di casa.
Insomma, se la vera autorevolezza discende dalle doti personali dell’individuo, sarebbe auspicabile che così fosse anche per l’autorità; ma, dal momento che così, di fatto, non sempre avviene, bisogna accontentarsi di una autorità che tragga legittimazione non solo dal valore del singolo individuo, ma dalla credibilità dell’istituzione che egli serve.
Così, per fare un esempio concreto, sarebbe auspicabile che ogni dirigente scolastico godesse di una vera autorevolezza, frutto dei suoi meriti e delle sue capacità personali; in assenza di ciò, bisogna che la sua autorità, ossia il suo ruolo gerarchico, sia almeno legittimato dal prestigio dell’istituzione di cui è funzionario, in questo caso la pubblica istruzione.
Se vengono a mancare entrambe le cose: l’autorevolezza personale e la credibilità istituzionale, allora ogni principio di autorità scompare, vuoi per l’inadeguatezza della persona, vuoi per il discredito in cui è caduta l’istituzione stessa; e qualsiasi cosa un tale funzionario possa fare di buono o di eccellente, sarà vanificata dal mancato riconoscimento sociale.
Ecco perché è importante che il prestigio delle istituzioni sia alto, anche se non sempre appare alto il livello di autorevolezza di chi le rappresenta; purché esista un rapporto fiduciario tra la società e le istituzioni e purché il singolo funzionario, anche se scarsamente capace, agisca nel solco di una tradizione che gode, comunque, di sufficiente prestigio, la coesione sociale non ne risente troppo e il cittadino si confronta con le istituzioni secondo modalità complessivamente accettabili e compatibili con il buon andamento della vita pubblica.
Il problema diventa drammatico allorché un mediocre rappresentate di una istituzione, che a sua volta gode di un basso livello di credibilità, si abbandona a comportamenti improvvidi e discutibili, interpretando in modo fantasioso e strampalato le norme e le leggi e gettando ulteriore confusione nel rapporto tra cittadino e Stato, per esempio col premiare incomprensibilmente comportamenti scorretti e censurabili e con l’ignorare o lo svalutare comportamenti degni, responsabili e altamente meritori.
Come se ne esce?
Si ha un bel dire, infatti: «bisogna che», «è necessario che»: sono tutte belle petizioni di principio, ma, ahimè, hanno il non trascurabile difetto di risolvere le cose solo nell’ambito delle chiacchiere e non già in quello dei fatti.
Per restituire prestigio alle istituzioni, fiducia ai cittadini e autorevolezza a chi svolge una funzione socialmente rilevante, quel che serve è ripartire da un sano progetto educativo, tanto nell’ambito familiare che in quello scolastico, cosa che necessariamente richiede uno sforzo di consapevolezza da parte del singolo individuo; senza di ciò, nessun cambiamento culturale - e, quindi, politico ed economico - sarà mai possibile.
Gira e rigira, si torna sempre allo stesso punto: al socratico «conosci te stesso».
Se non sai chi sei, inevitabilmente generi confusione e disorientamento anche negli altri e non puoi svolgere in modo efficace, cioè autorevole, alcun ruolo sociale.
Tutti questi alti papaveri che si iscrivono alle logge massoniche per acquisire potere mediante amicizie occulte, non sanno chi sono: la loro consapevolezza e la loro autostima sono così basse, che hanno continuamente bisogno di stampelle, di supporti, di raccomandazioni.
E questi ambigui faccendieri, questi finanzieri spregiudicati, questi imprenditori d’assalto che giocano sporco, non sanno chi sono: bastano un paio di manette e due o tre notti in carcere, come accade ai comuni mortali, per far crollare il loro debole ego e spingerli a confessioni fiume, a delazioni disonorevoli, a progetti o tentativi di suicidio.
Quando si sa chi si è, si vedono le cose con chiarezza e si procede nel cammino della vita con passo fermo e dignitoso, anche se può accadere di sbagliare strada, di dover tornare indietro, di attraversare momenti di difficoltà, di ansia, di dubbio.
La persona consapevole di sé non è un superuomo o una superdonna; è soltanto un onesto viandante alla ricerca del vero, del bene e del bello: e scusate se è poco.