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Il segreto degli stregoni

di Tiziano Terzani - 18/07/2011


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Cousins era andato in Africa, nel Gabon, a trovare il famoso filosofo-musicista-medico tedesco (Schweitzer) per scrivere di lui.


Una sera a cena, forse per fare un complimento a quello straordinario europeo che aveva portato la sua scienza in mezzo alla giungla. Cousins gli disse: «Sono fortunati qui ad aver un medico come lei e a non dover ricorrere agli stregoni ».

Schweitzer non prese bene quella osservazione « Che ne sa lei degli stregoni? »
Cousins dovette ammettere che non ne sapeva granché. Il giorno dopo il grande medico lo portò in una radura della foresta, poco lontano dal suo ospedale, per presentargli quello che definì un suo « collega », un vecchio stregone, appunto. Schweitzer costrinse l'americano a osservare per due ore il lavoro dello stregone: ad alcuni pazienti, dopo averli ascoltati, dava un cartoccio di erbe: ad altri soffiava semplicemente addosso, recitando formule magiche; ad altri ancora indicava invece il dottor Schweitzer, li vicino.

Schweitzer spiegò a Cousins che i pazienti del primo tipo soffrivano di un male che lo stregone pensava di curare con le sue erbe; quelli del secondo avevano disturbi che lo stregone riconosceva come di origine psichica e da trattare con la sua forma di psicoterapia. I pazienti invece con problemi decisamente fisici, come un'ernia, una gravidanza extrauterina, un tumore o una frattura ossea, li mandava all'ospedale del dottor Schweitzer.

Ma Cousins insistette: «Come si può pensare d'esser guariti da uno stregone? » «Lei mi chiede di rivelarle il segreto che tutti i medici, a cominciare da Ippocrate, hanno sempre tenuto per sé.» «Quale segreto?»
«Gli stregoni guariscono allo stesso modo di noialtri medici. Il paziente non lo sa, ma il vero medico è quello che ha dentro di sé. E noi abbiamo successo quando diamo a quel medico la possibilità di fare il suo lavoro.»

Pochi anni dopo Erich Fromm diceva la stessa cosa a un allievo andato a parlargli di un suo caso difficile. «Non preoccuparti troppo. In fondo non siamo noi a curare i nostri pazienti. Noi semplicemente stiamo loro vicini e facciamo il tifo mentre loro curano se stessi.»


Dal libro: Un altro giro di giostra