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«Esistono - dice Niccolò Machiavelli - tre categorie di cervelli…»

di Francesco Lamendola - 18/07/2011





Di quante specie sono le personalità umane, in rapporto alla loro intelligenza e soprattutto alla loro capacità di comprendere le cose?
Niccolò Machiavelli, ne «Il Principe » (XXII, 2; versione in italiano moderno di Piero Melograni, Milano, Rizzoli, 1995, p. 207) afferma, con la sua abituale concisione e lepidezza, che esse sono tre, e precisamente:

"Esistono tre categorie di cervelli: quelli che capiscono da soli,  quelli che per capire hanno bisogno degli altri, e quelli che non capiscono né da soli né grazie agli altri. I primi sono eccellentissimi, i secondi eccellenti e i terzi inutili".

Il mio amico Ruggero, più severo e ancora più conciso, sostiene che sono due: perché, di solito, se uno non arriva da solo a comprendere le cose, allora - e a meno che sia già arrivato, per così dire, sulla soglia di esse - non vale nemmeno la pena di spiegargliele.
E a questa prima, impietosa sentenza, ne aggiunge una seconda, a mo’ di completamento: che a voler spiegare le cose, per forza, a chi palesemente non è in grado di capirle, si dà solamente prova di essere ancora più cretini di lui.
Bisogna, a questo punto, introdurre una nuova nozione, ossia quella di attività e non attività: perché se un cervello tardo, ma pigro, è capace di provocare danni considerevoli (ma, in genere, solo quando sia lasciato in balia di se stesso, cioè quando si pretenda da lui più di quanto sia in grado di dare), un cervello tardo e attivo, cioè smanioso di fare, ne produce fatalmente di assai più gravi, fino alle peggiori catastrofi.
Soleva dire il maresciallo von Moltke (è ancora una citazione dall’amico Ruggero) che dagli uomini intelligenti e impegnati si possono ricavare i migliori ufficiali di stato maggiore; da quelli intelligenti, ma non impegnati, si traggono gli uomini che, in determinate circostanze, mostrano di saper compiere l’azione decisiva; perfino dagli uomini stupidi e pigri si può ottenere qualche risultato, purché siano adeguatamente istruiti e guidati: solo dai cretini pieni di buone intenzioni non si ricava mai nulla e, anzi, bisogna guardarsi dai danni che sarebbero capacissimi di provocare, con tutta la loro improvvida solerzia.
Di fatto, questa è anche l’esperienza che la maggior parte di noi, probabilmente, avrà fatto nelle varie circostanze della propria vita: a provocare i guai più seri, a infliggere le ferite più dolorose, a tessere gli imbrogli più inestricabili, non sono tanto le persone intelligenti, ancorché male intenzionate, ma quelle di mediocre intelletto, animate dal sacro fuoco della verità, della bontà, del dovere e di cento altre virtù, che sono convintissime di servire fedelmente.
Non ha fatto, forse, più danni la bontà mal consigliata di Donna Prassede, che non la franca, dichiarata cattiveria dell’Innominato?
Il sottile veleno delle pretese buone intenzioni di talune anime “pie” non agisce forse con maggiore efficacia dell’aperta malvagità di certe anime nere?
E, d’altra parte: non è forse vero che un’anima nera, ma sorretta da una lucida intelligenza, qualora si ravveda, è in grado di fare il bene tanto energicamente e tanto incisivamente, quanto prima essa compiva il male; mentre una fasulla anima pia, dotata di scarsa intelligenza, non potrà mai rimediare al male fatto, perché non lo sa nemmeno riconoscere come tale?
Mysterium iniquitatis: il malvagio intelligente può, talvolta, per calcolo, fare anche del bene; mentre il cretino “buono” non riuscirà mai a fare del bene, ma solo del male o, nel migliore dei casi, dei grossolani pasticci, perché il vero bene non sa neppure cosa sia.
Tutto sta a vedere se le virtù etiche vengano prima oppure dopo le virtù dianoetiche: se, detto, in parole semplici, essere buoni sia più o meno importante che essere intelligenti.
Vediamo.
Secondo Aristotele, le virtù dianoetiche sono cinque: la scienza (epistéme), la sapienza (sophia), l’arte (téchne), la saggezza o prudenza (phronesis) e l’intelligenza (nous); il loro statuto è superiore a quello delle virtù etiche, per il fatto che mentre le prime scaturiscono da un libero atto della volontà, le seconde nascono spesso dalla mera abitudine.
D’istinto, verrebbe da pensare che le virtù etiche siano, invece, superiori a ogni altra forma di virtù: che cosa può esservi di oggettivamente superiore al fatto di essere buoni, retti e rispettosi del prossimo?
E, d’altra parte: che importanza può fare se si è intelligenti oppure no, quando si tratti di agire bene e in conformità con il codice etico della propria società?
Se, però, si riflette con più attenzione e senza trasporto emotivo, non si tarda a comprendere che c’è modo e modo di essere buoni: in fondo, il pecorone che si comporta “bene” solo perché l’etica corrente lo prescrive, è lo stesso volonteroso aguzzino che si comporterà “male”, allorché si verifichi un cambiamento del paradigma morale e la società, o il potere costituito, decidano che è divenuto bene quello che prima era male, e viceversa.
Il che può accadere molto più facilmente e molto più repentinamente di quanto non si creda; non sono necessari anni o secoli, ma, talvolta, una manciata di ore: per esempio, quando lo scoppio di una guerra renda lecito e anzi doveroso l’omicidio di un altro essere umano, cosa che - prima - sarebbe stata considerata come il più grave reato concepibile e sanzionata come tale, sia dalle leggi umane che da quelle religiose.
Arriviamo così alla conclusione, solo in apparenza sorprendente, che essere intelligenti, nel senso di saper pensare con la propria testa e giudicare con la propria coscienza, è più importante che essere genericamente “buoni”: il buono, infatti, può anche mostrarsi inutilmente crudele, allorché creda di interpretare il proprio ruolo di cavaliere della giustizia e della verità; la persona intelligente, saggia, riflessiva e dotata di discernimento, mai.
Alcuni arrivano a spingersi ancora più in là lungo questa linea di ragionamento e giungono ad affermare, sulla scia dell’ottimismo antropologico di Socrate, che gli esseri umani, una volta che siano in grado di vede e riconoscere il bene, non possono fare a meno di praticarlo; sicché, quando essi compiono il male, lo fanno per ignoranza, in quanto non hanno saputo riconoscerlo come male, ma lo hanno scambiato per una forma di bene.
Da qui ad asserire che la persona veramente intelligente non può essere altrimenti che buona, il passo è breve e c’è chi lo compie senz’altro.
Noi rispettiamo questa posizione filosofica, sostenuta da insigni pensatori, anche se non osiamo, da parte nostra, spingerci così avanti.
Il mistero dell’intelligenza e della stupidità è quasi altrettanto fitto e profondo di quello del bene e del male e ci sentiamo talmente piccoli di fronte ad esso, che preferiamo lasciare impregiudicata una tale questione, mantenendo aperta più d’una ipotesi di lavoro e riservandoci di verificarla continuamente alla luce dell’esperienza pratica di vita.
Ma, si dirà, non è forse vero che ogni singola anima, ogni singolo essere umano, attraversa continuamente un processo di evoluzione (o magari d’involuzione); che non resta mai uguale a se stesso, ma sempre, ogni giorno, ogni ora, modifica la propria percezione del reale e così, insieme ad essa, anche la propria coscienza?
E tutto ciò che abbiamo detto finora, non dà, viceversa, l’idea di una vita dell’anima che sia immobile, pietrificata; di una struttura coscienziale sempre uguale a se stessa, insensibile ad ogni sollecitazione e ad ogni occasione di chiarificazione e di ripensamento di sé?
La contraddizione, in realtà, è solo apparente.
I «tipi di cervelli», per dirla con Machiavelli, sono sempre gli stessi; così come, per usare una espressione più recente, lo sono i tipi fondamentali della personalità, i caratteri fondamentali della natura umana.
Le teoria più recenti, in particolare, insistono sui tre elementi fondamentali della attività (o non attività), della emotività (o non emotività) e della risonanza (cioè la primari età o la secondarietà), ricavandone gli otto tipi-base descritti dal filosofo René Le Senne: nervoso (E, nA, P), sentimentale (E, nA, S), collerico (E, A, P), passionale (E, A, S), sanguigno (nE, A, P), flemmatico (nE, A, S), amorfo (nE, nA, P), flemmatico del secondo tipo (nE, nA, S).
Da parte sua, la teoria caratteriologica dell’enneagramma, diffusa da G. I. Gurdjeff, ma che è di origini antichissime, distingue nove tipi fondamentali, e cioè il Tipo Uno (il riformatore, il critico, il perfezionista), il Tipo Due (l’aiutante, il generoso, la nutrice), il Tipo Tre (il manager, l’organizzatore), il Tipo Quattro (il romantico, l’individualista, l’artista), il Tipo Cinque (l’osservatore, il pensatore, l’investigatore), il Tipo Sei (l’avvocato del Diavolo, il difensore, il leale), il Tipo Sette (l’entusiasta, l’avventuriero, il materialista), il Tipo Otto (il leader, il protettore, il guappo) e il Tipo Nove (il mediatore, il pacificatore, il conservatore).
Non intendiamo soffermarci qui su tali modelli caratteriologici, quanto piuttosto domandarci se la loro esistenza implichi una impossibilità evolutiva (o involutiva) del singolo individuo.
Se è certo, infatti, che ogni essere umano è, teoricamente - ma solo teoricamente! - suscettibile di realizzare in se stesso una continua e incessante trasformazione, resta da vedere se tale trasformazione implichi una modificazione delle strutture fondamentali del carattere e quindi l’avvento, per così dire, di un nuovo e diverso tipo umano nello stesso soggetto.
Oppure numerosi tipi umani possono coesistere contemporaneamente all’interno della personalità, come riteneva Pirandello?
La nostra opinione è che le manifestazioni fondamentali del carattere possono bensì mutare, via via che si diffonde quell’elemento che Le Senne denominava “ampiezza” e che si potrebbe definire come la progressiva presa di coscienza di sé da parte dell’anima, come il graduale processo di chiarificazione dell’anima a se stessa; ma non già i tratti specifici del carattere.
Una persona collerica può trovare il modo di incanalare o sublimare le proprie energie in eccesso, ma non cesserà di essere collerica; semplicemente, riuscirà a trovare il modo di convivere con tale eccesso energetico e di realizzare il proprio equilibrio, secondo modalità che non siano autodistruttive, ma che la avvicinino alla pace interiore.
Lo stesso dicasi per una persona flemmatica, o passionale, o sanguigna; e anche, naturalmente, per i diversi tipi individuati dal modello teorico dell’enneagranmma.
Questo significa che noi possiamo lavorare sulle manifestazioni del nostro io, non mutare i termini della sua struttura fondamentale, non diventare altro da quello che siamo. Ciascuno può innalzarsi al di sopra di sé, ma senza con questo diventare altro da sé.
Quanto, poi, alla domanda se in noi sia già presente una molteplicità di io, ci siamo già più volte imbattuti in essa, nel corso di precedenti riflessioni, e preferiamo, per ora, lasciarla in sospeso, perché non indispensabile al presente quadro di riferimento.
Quello che è certo, dal punto di vista pratico, è che noi, effettivamente, agiamo, pensiamo e sentiamo come se in noi vi fossero numerose personalità, che non oseremmo chiamare secondarie, perché sarebbe un compito estremamente arduo discernere quali siano realmente secondarie e quali primarie, al di là del fatto che alcune, per ragioni strategiche, sono costrette a tenersi sullo sfondo della nostra coscienza, mentre altre sono costantemente alla ribalta.
Da tutto questo deriva una fondamentale immutabilità della natura umana, per cui, ad esempio, il cretino è destinato a rimanere perennemente tale; oppure la perfettibilità, in cui hanno creduto tanti filosofi e pedagogisti, implica la possibilità di agire su di     quella, sino a modificarla?
Propendiamo per quest’ultima ipotesi, chiarendo però che per “perfettibilità” della natura umana non intendiamo la possibilità, da parte del singolo individuo, di trasformare la propria struttura fondamentale, ma solo quella di conquistare sempre nuovi margini di consapevolezza: come l’alpinista che, salendo verso la vetta, scorge con entusiasmo sempre nuovi elementi del paesaggio.