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Il sole e il ciliegio

di Mario Grossi - 19/07/2011


Nella mia vita, a parte quello che ho letto sui libri e sui giornali e quello che si può vedere in TV e ascoltare da chi ci è stato, i miei unici collegamenti col Giappone sono tre: Endo, Franz e un breve viaggio che risale a due anni fa. E tutti e tre hanno rafforzato in me l’idea che il Giappone, dal richiamo così affascinante per tutti gli occidentali, sia una specie d’incomprensibile coacervo di sentimenti per noi inestricabile.

JunJi Endo è stato per alcuni anni il mio maestro di Ken-do e lo ricordo con affetto per due episodi.

Aveva deciso di insegnare la via della spada a un gruppetto di sei burini, tra cui c’ero anch’io. Così, tre volte a settimana, prendeva il treno la sera e ci faceva lezione e noi a turno lo riportavamo in auto alla fermata della metropolitana visto che dopo le 22,00 non c’erano più corse per la capitale.

La prima volta che lo riaccompagnammo, commettemmo un errore imperdonabile. Per rispetto nei suoi confronti, scesi dall’auto, lo salutammo e lui s’inchinò per salutarci. Noi non volevamo rimontare in macchina e andarcene prima che lui si fosse accomiatato da noi. Così rimanemmo in attesa salutandolo di nuovo e lui s’inchinò nuovamente restando immobile al suo posto senza andarsene. “Ma cosa fa? – pensammo – perde l’ultima metropolitana se non si sbriga”. “Endo san vada, la metropolitana non l’aspetta!”. “Hay” fu la sua risposta seguita da un inchino. Quel giorno Endo perse la metropolitana e noi imparammo ad andarcene subito le sere successive per evitare di fargli perdere l’ultima corsa. Insomma imparammo a che punto si spinge la cortesia (talvolta un po’ malata) dei giapponesi.

Ricordo poi la prima volta che ci invitò a casa per la cerimonia del tè (una cosa molto intima e casalinga, non quel ridondante spettacolo che talvolta si vede in TV). In tutto il pomeriggio di visita noi sedemmo in terra, assistemmo alla preparazione del tè da parte della moglie, lo bevemmo. Null’altro. Endo, impassibile come sempre, non disse una parola. Silenzio assoluto che spense anche le brevi conversazioni tra noi pochi invitati che ci adeguammo.

Franz è uno dei miei migliori amici, anche se lo vedo una volta l’anno quando va bene, visto che vive a Firenze. Oggi, è il curatore della sezione di armi e armature giapponesi del museo Stibbert ed è uno dei maggiori esperti nostrani di tsube (quei dischi di ferro istoriati e bellissimi che sono per la katana l’equivalente dell’elsa per la spada occidentale). Kendoka anche lui, mi ha guidato nel museo più volte nel tentativo di farmi capire come in quelle splendide armi e armature fosse impresso il vero spirito del Giappone e anche le sue infinite contraddizioni.

Del mio breve viaggio in Giappone porto con me un breve frammento stratificato e dissonante, sospeso tra l’ipermodernità del paese e le sue pieghe premoderne che affiorano inaspettate quando meno te le aspetti.

Girovagavo per Ginza, decantata da tutti come la 5th Avenue di Tokyo, tra i grattacieli, con un traffico di sottofondo dove il rombo delle automobili appariva ovattato, compresso. Strano effetto: avevo la sensazione di essere immerso in un robusto rumore di fondo assai omogeneo in cui non spiccava una particolare sirena, una sgasata di un motorino o il suono strombazzante di un clacson. Nulla di tutto ciò, solo un muro sonoro, compatto, omogeneo, monocorde.

Poi da questo muro sonoro è affiorato, come uno zampillo, un tintinnio sommesso. Un “tin”, intervallato da una lunga pausa. Poi ancora un “tin” flebile, impercettibile ma che una volta catturata la mia attenzione mi strappava dal rumore della strada e mi proiettava in una dimensione diversa e completamente avulsa dallo sfrecciare chiassoso delle auto e dei passanti.

Guardando a destra, e poi a sinistra vedevo solo gente, folla che si affrettava sulla strada allungando il passo. Poi, tra un “tin” replicato da un altro “tin”, vedo spuntare una figurina marrone e gialla immobile. Sta ferma in mezzo al flusso eccitato dei pedoni. Sembra immobile, in realtà si muove con tale lentezza che pare ferma, anzi sembra quasi retrocedere, anche se i suoi passi muovono nella mia direzione. Mentre, con estrema lentezza, si avvicina le mie orecchie e i miei occhi percepiscono che il “tin” scandisce il momento di pausa tra un lentissimo ed enfatizzato passo ed un altro. È un monaco buddista con un kimono marrone, una giacca gialla, un cappello a larghe tese rigide in testa calato in modo da non poter scorgerne il viso. Ha in mano una ciotola per l’elemosina e nell’altra un campanellino che genera i “tin” che tanto mi hanno colpito. La folla passa e non si accorge di lui, nessuno si ferma, nessuno fa un’elemosina. Semplicemente non esiste. Lui avanza drammaticamente nella sua lentezza con il suo campanello, la sua ciotola, i suoi passi marziali senza deflettere dal suo cammino. Due mondi incomunicanti che si sfiorano senza relazione apparente. Mi avvicino faccio la mia offerta, poi mi pento. Magari mi sono messo di traverso tra un mondo e l’altro. Il monaco, come se non avesse percepito nulla, prosegue il suo lento incedere. La folla lo inghiotte. Lo perdo alla vista. La visione svanisce. Mi sento inquieto.

Tutto questo mi è tornato alla memoria leggendo con avidità Il sole e il ciliegio di Francesco Dei, pubblicato per i tipi di Hobby&Work.

Un saggio storico che ci permette di fare un po’ di luce su quella che è la storia del Giappone e tra quelli che sono i sentimenti, sempre mascherati e sempre sospesi, in un equilibrio dinamico ma al tempo stesso immobile, dei giapponesi.

Si narra di un breve scorcio della storia nipponica, quel periodo durato all’incirca un centinaio d’anni, tra il 1500 e il 1600 che prende il nome di “Sengoku jidai” (periodo degli Stati combattenti). Un periodo fosco e luminoso al tempo stesso che sancisce il passaggio dal Giappone feudale alla modernità.

Il passaggio da una terra costellata da 250 feudi e da altrettanti clan in lotta costante tra loro per allargare il loro potere a una nazione riunificata che esce così dal suo caotico Medioevo.

È la storia di una serie continua e ininterrotta di faide, lotte, guerre che hanno come protagonista il clan Tokugawa e il suo capo indiscusso per molti anni, quel Ieyasu che si trovò di fronte altri valorosi ed intelligenti condottieri, che seppe sconfiggere fino alla riunificazione della nazione.

Sono pagine dense di avvenimenti, sanguinosi, carichi di umori guerreschi, infarciti da alleanze, spesso temporanee e spesso disattese, da tradimenti e vendette che Ieyasu si trovò a fronteggiare fin dall’infanzia che si presentò ai suoi occhi subito irta di imprevisti e difficoltà. Infanzia che comincia con il suo rapimento ad opera di un clan rivale e la sua tenuta in ostaggio.

Il saggio è scritto con mirabile sapienza. La copiosa messe di eventi che si accavallano vorticosamente gli uni sugli altri avrebbe potuto indurre una caotica rassegna inutile per il lettore poco attento e inesperto.

Lo stile piano, la scrittura chiara, la narrazione cristallina permettono invece agli eventi di dipanarsi con una consequenzialità fondamentale per seguire le storie che si intrecciano, le battaglie che si susseguono, gli intrighi, i tradimenti che, se non raccontati nella maniera con cui Dei li racconta, sarebbero diventati una poltiglia indigesta.

Sembrerebbe a prima vista il racconto di storie sanguinolente, violente, turpi per certi aspetti e il clima potrebbe apparire a prima vista fosco. I fatti darebbero ragione a questa ipotesi se il tutto non fosse condito da una levità stratificata che sa mettere insieme alle armi anche ciò che è soggiacente.

I personaggi storici, colti all’interno di queste violenze inaudite, lordi di sangue e alle prese anche con pratiche che potrebbero, a prima vista, essere considerate barbariche o triviali, sono descritti nella loro complessa umanità, cogliendo anche il loro lato artistico e spirituale. Nella loro personalità che, a tutto tondo, incarna lo spirito del samurai.

Guerriero, immerso fino al collo negli orrori dello scontro ma capace di astrarsene coltivando, oltre che la spada e la strategia di guerra, anche la penna e le belle arti, contrappesi inevitabili per un equilibrio messo sempre in discussione dall’incertezza della sua vita.

È il pregio maggiore di questo saggio che mai s’ingolfa nell’incalzante azione dei campi di battaglia ma che, come in un controcanto o in gioco di trasparenze, fa affiorare il livello ideale, filosofico, artistico di questi uomini d’armi.

Tokugawa Ieyasu, nella sua ascesa alla riunificazione, incontra campioni della sua stessa statura. Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi sono fatti della stessa incrollabile pasta, capace di modellarsi su una volontà ferrea e su una sensibilità poco comune e assai lontana dagli stili e dai comportamenti odierni.

Non sono da meno i comprimari, come i generali di Ieyasu, fedelissimi e capaci di atti di un eroismo stoico e folle che nell’immaginario collettivo si trasferisce solo nella pratica del seppuku ma che invece investe ogni loro singola azione.

La cosa più commovente di tutte è la descrizione dell’inabissarsi di un intero mondo, in questo secolo di morti ammazzati, non tanto causato dalle carneficine protratte oltre ogni misura, ma dovuto al tramonto di un’epoca e dei suoi ideali, incarnati dalla figura del samurai e della sua spada.

Con l’introduzione delle armi da fuoco e degli archibugieri, uomini d’armi che non fanno parte della casta dei samurai e che non ne incarnano lo spirito guerriero, un’epoca volge al termine.

Le battaglie si trasformano, le strategie si adeguano, così come faranno i samurai condannati a spegnersi con il loro mondo, inghiottito dai flutti della storia.

È un racconto che si tinge dei colori del tramonto, che stemprano il rosso vivo dei fiumi inondati di sangue e che rende anche le battaglie, degli scontri opachi e sempre più spersonalizzati. C’è quasi un velo di malinconia che in tralice si scorge nello stile assolutamente sobrio dell’autore.

Questo splendore calmo, tenue e dai colori che virano al pastello, conferisce una bellezza quasi poetica alle scene dipinte nei capitoli che si succedono.

 

Ritmo incalzante, scrittura piana e comprensibile, narrazione chiara e di sintesi, inquadramento degli avvenimenti nella loro cornice generale, riferimenti costanti al brodo ideale che li ha generati, fanno di questo saggio un manuale agile, godibile, utile per approfondire non solo i fatti ma anche una temperie che è stata poi sommersa come un’onda dalle scorie dell’età moderna.

Non mancano infine alcune descrizioni velatamente umoristiche, come quando gli assediati privi di acqua, per non arrendersi, si dissetano con tutti gli alcolici rimasti nella fortezza e ubriachi si accingono a difenderla.

Il saggio è impreziosito da una bella introduzione e da un apparato iconografico in appendice che offre alla vista, in un elegante bianco e nero, ciò che il testo ci aveva fatto immaginare.

Il titolo è poi un cammeo che sintetizza, indirizzando il lettore come non succede quasi mai, in maniera fulminante l’intero testo. Il sole, il sol levante della riunificazione, che sorse proprio grazie al samurai, il migliore tra gli uomini proprio come il ciliegio lo è tra i fiori.

Ho un solo appunto da fare, assolutamente marginale, ed è la traduzione non impeccabile del distico Hana wa sakuragi, hito wa bushi: «Come il fiore del ciliegio è il migliore tra i fiori, così il guerriero è il migliore tra gli uomini».

Io preferisco la sua estrema e più efficace sintesi che suona così: “Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero” che rappresenta meglio lo spirito del samurai sobrio nell’atteggiamento, misurato e preciso nel maneggiare la spada, laconico nelle parole.