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Ripensare all'economia della delocalizzazione

di Jacon Hickel - 19/07/2011

   
   

La notizia che uno sweatshop (ndt: sono le aziende che utilizzano manodopera a basso costo) rumeno ha cucito uno dei più famosi vestiti di Kate Middleton (che indossa nella foto qui a fianco) ha ispirato un rinnovato interesse popolare per l’etica e l’economia della delocalizzazione del lavoro che utilizza manodopera offrendo salari irrisori. Questo è solo l’ultimo di una serie di casi che evidenziano la proliferazione sbalorditiva degli sweatshop, anche in Europa, negli ultimi decenni. Ma la parte più intrigante della storia è la logica che i difensori di Kate hanno invocato per giustificare questa tendenza, affidandosi agli argomenti sbandierati dagli economisti statunitensi che passano per essere “progressisti”.

Jeffrey Sachs, noto autore di The End of Poverty, una volta ha affermato: "La mia preoccupazione non è che ci sono troppi sweatshop, ma che ce ne sono troppo pochi.” In modo analogo, Paul Krugman ha argomentato che gli sweatshop “muovono centinaia di milioni di persone dalla povertà più abbietta a qualcosa di ancora orribile, ma comunque significativamente migliore… [e così] la crescita del lavoro negli sweatshop è una notizia stupenda per il mondo dei poveri.”

In un articolo del New York Times Magazine dal titolo agghiacciante, “Due brindisi agli sweatshop”, Nicholas Kristof ha fatto propria questa logica spiegando che quando andò per la prima volta in Asia lui, “come la gran parte degli Occidentali”, era totalmente contrario agli sweatshop, ma alla fine ha iniziato ad apprezzarli come “segno evidente della rivoluzione industriale che sta iniziando a riplasmare l’Asia.” Ha evidenziato che “i lavoratori asiatici sarebbero inorriditi dall’idea del consumatore americano che boicotta certi giocattoli o vestiti per protesta. Il modo più semplice per aiutare gli asiatici più poveri sarebbe quello di comprare ancora di più dagli sweatshop, non certo meno.”

Questi argomenti si poggiano su una semplice idea che spesso sconfigge le critiche con la sua apparentemente inattaccabile logica economica, ossia che gli sweatshop esistono perché la gente vuole lavorare negli sweatshop alle paghe degli sweatshop. Le persone possono scegliere dove andare a lavorare, così prosegue la teoria, e gli sweatshop sono spesso la cosa migliore esistente in città, certamente meglio di non avere neppure un impiego. Se gli sweatshop non esistessero, allora milioni di persone patirebbero la fame nelle strade.

Quest’idea si base sulla convinzione che le nazioni che attraggono gli sweatshop siano sempre state popolate da masse di persone disperate con salari da fame, che la povertà è in qualche modo una condizione esistente a priori. In un mondo del genere, gli sweatshop possono solo essere una benedizione.

Ma questa considerazione si perde totalmente un punto cruciale sulla povertà. Le persone, in Thailandia e in Peru ad esempio, scelgono di andare negli sweatshop perché non stati resi disperati e non hanno altre alternative per vivere. Quindi non si tratta assolutamente di una “scelta”. Sono forzate dalle circostanze a svendersi a condizioni subumane. I sociologi la definiscono la “violenza strutturale” della disoccupazione.

Le eredità coloniali e neoliberiste

La disperazione che porta le persone a lavorare negli sweatshop è storicamente un fenomeno recente. Molte delle persone del cosiddetto Terzo Mondo erano agricoltori a livello di sussistenza che erano in grado di sostenersi a sufficienza grazie ai frutti della terra. Tutto questo è cambiato sotto i regimi della fine del XIX secolo. Nella maggior parte dei luoghi in Africa, Asia e in Sud America i colonizzatori all’inizio incontrarono molte difficoltà a portare i nativi al lavoro nelle miniere, nelle fattorie e nelle piantagioni. Per risolvere il problema, o trasferivano con la forza gli agricoltori dalla loro terra oppure pretendevano tasse tanto onerose da costringerli a cercare un lavoro salariato, sempre sotto l’egida di una “missione civilizzatrice”. Tutto questo ha causato il trasferimento di centinaia di migliaia di persone verso le città industrializzate dove, a quel punto, entravano nei ranghi di un esercito di riserva di lavoratori sempre disposti a prendere qualsiasi lavoro fosse a disposizione e ad abbassare il salario richiesto da altri.

Nel contesto coloniale, gli stipendi sotto gli standard minimi non erano il prodotto naturale dell’efficienza del mercato, ma la conseguenza di una strategia pianificata per rendere tanto disperate le persone da assumerle per pochi spiccioli. Ma solo recentemente le cose sono talmente peggiorate da permettere la proliferazione di queste aziende. Già dalla fine degli anni ’70 la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e, in un secondo momento, l’Organizzazione Mondiale del Commercio iniziarono a favorire l’adozione di nuove forme di deregolamentazione del mercato, conosciute come “programmi di aggiustamento strutturale”, nei governi del Terzo Mondo, chiedendo che venissero fermati i sussidi al settore agricolo per consentire l’importazione di grani più economici nei loro mercati. Queste politiche neoliberiste hanno stroncato l’agricoltura in piccola scala fino a farla collassare e hanno creato una seconda ondata di persone costrette a migrare nelle città per sopravvivere.

Questo è avvenuto in contemporanea ad altri due aggiustamenti strutturali di cruciale importanza. Con il primo, i dazi doganali protettive furono drasticamente ridotti, permettendo alle multinazionali occidentali di spostare le proprie operazioni oltre oceano senza dover pagare tasse proibitive per l’importazione. Con il secondo, alcune importanti statuti del lavoro, come i diritti di contrattazione collettiva e i minimi salariali, furono modificati o ridotti al punto di dare alle corporations il potere di impedire che i governi ospitanti emanassero leggi per diminuire i ritorni sugli investimenti. Questo ha creato un ambiente ideale per le aziende come Nike, Walmart e General Motors per spostare le proprie strutture produttive in luoghi dove potevano fuggire per pagare il lavoro molte volte meno di quanto gli fosse permesso nelle economie sviluppate. Questo processo di ricerca dell’ubicazione che dava la possibilità di un maggiore sfruttamento è diventata nota come “la corsa al ribasso”, il ventre molle di quello che gli economisti incoraggiano senza patemi d’animo col nome di “vantaggio comparativo”.

Uno studio del 2002 condotto dall’economista Robert Pollin ha scoperto che i prezzi al dettaglio dei vestiti negli Stati Uniti sarebbero dovuti aumentare solo dell’1,8 per cento per coprire il costo del raddoppio della paga per i lavoratori degli sweatshop nelle industrie tessili messicane. In altre parole, il prezzo del vestito di Kate da 175 sterline verrebbe portato a 178,15 per aumentare del 100 per cento lo stipendio della sarta che lo ha prodotto. Tutto ciò riveste una particolare importanza alla luce di uno studio del 1999 del National Bureau of Economic Research che ha scoperto come i consumatori pagherebbero il 15 per cento in più su un articolo da 100 dollari – e il 28 per cento in più per uno da 10 dollari - se venisse prodotto in “buone condizioni lavorative”.

La cosa da osservare è che le compagnie non hanno la necessità di usare i lavoro degli sweatshop per ottenere profitti, così come i lavoratori nei paesi del Terzo Mondo non devono essere tanto disperati da lavorare in questi posti. Niente di tutto questo è naturale o inevitabile, anche se gli entusiasti degli sweatshop sono così desiderosi di convincerci di questo. Le conclusioni assurde di Sachs e di Krugman secondo cui dovremmo promuovere gli sweatshop come soluzione del problema della povertà globale derivano da una profonda mancanza di prospettiva storica. È una vergogna che i più apprezzati fautori del progressismo economico non hanno nient’altro da offrire che un mondo di sweatshop con la giustificazione del “mercato libero” e del vantaggio comparativo. Che tutto questo sia diventata la visone utopica dei nostri tempi è l’aspetto più tragico.

Una nuova economia

Solo pochi cambiamenti alle regole del commercio globale potrebbero creare un mondo dove gli sweatshop non possono esistere. Se ai paesi sviluppati è consentito di fissare dazi all’importazione per proteggere l’agricoltura non industriale e per dar efficacia alle leggi sul lavoro per assicurare che ogni lavoratore percepisce un salario accettabile, il concetto degli sweatshop diventerebbe completamente inutile. Naturalmente, se i lavoratori che producono scarpe, vestiti e apparecchi elettronici per i consumatori occidentali guadagnassero stipendi decenti, ciò vorrebbe dire che tutti pagheremmo un po’ di più per i nostri acquisti e le compagnie potrebbe incassare un guadagno netto un po’ inferiore. Ma la redistribuzione dei redditi seguendo questa linea difficilmente potrebbe essere considerata una cosa sbagliata, visti i livelli attuali di disuguaglianza sociale senza precedenti nella storia: l’un per cento più ricco della popolazione mondiale controlla il 40 per cento delle ricchezze globali, mentre il 50 per cento meno abbiente ne controlla meno dell’uno per cento.

L’argomento contrario sostiene che, se le condizioni lavorative diventassero troppo umane e gli stipendi troppo decenti in alcune nazioni, le aziende dovrebbero riallocare il lavoro in paesi più accoglienti, riducendo il PIL e lasciando i poveri con minori opportunità. Questo potrebbe essere risolto con una legge internazionale che fissi i minimi di stipendio (mettendo un freno alla corsa al ribasso) e un sistema di quote del commercio che incanali gli investimenti all’estero dove siano necessari per alleviare la povertà e non dove il lavoro è più facilmente sfruttabile. In aggiunta, le nazioni potrebbero contribuire a creare buoni posti di lavoro per i propri cittadini proteggendo le imprese appena fondate e implementando programmi di sostituzione delle importazioni.

Programmi simili sono già stati tentati in precedenza. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e praticamente tutte le maggiori potenze economiche sono state costruite esattamente su questi principi ed erano pratiche usuali per molti paesi in via di sviluppo usciti dal colonialismo negli anni ’60. Se il mondo sviluppato volesse reintrodurre queste politiche, spostando le lancette dell’orologio prima degli aggiustamenti strutturali, sarebbero in grado di promuovere il lavoro locale e di aggiungere altri 480 miliardi di dollari l’anno al PIL del livello attuale. Ma queste riforme dovrebbero confrontarsi con l’avviluppo di interessi delle nazioni e delle multinazionali che controllano le politiche del commercio mondiale per il loro specifico tornaconto.

Gli sweatshop potrebbero anche essere meglio della povertà. Ma invece di pensare che la povertà sia un dato di fatto, ci dovremmo interrogare sui processi che la generano, ossia quelle politiche che portano le persone alla disperazione. Gli sweatshop sono una soluzione semplice ma inconcepibile e avrebbe senso solo se siamo disposti a piegarci ai diktat dell’“efficienza del mercato” e ad accettare lo sfruttamento come un fondamento dell’economia. Quello di cui abbiamo bisogno è un nuovo approccio all’economia, che sia capace di pensare oltre i limiti ristretti dell’ideologia neoliberista di fare degli sforzi per costruire un mondo più umano e democratico. La domanda non è se siamo in grado di farlo, ma se ne abbiamo il coraggio.

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http://www.fpif.org/articles/rethinking_sweatshop_economics


Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE