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Biocarburanti: quali i rischi per l'ambiente?

di Andrea Boretti - 21/07/2011


Come rivela l'ultimo rapporto di Greenpeace, il ricorso ai biocarburanti potrebbe avere un'influenza negativa sui cambiamenti climatici incentivando la deforestazione e distruggendo la biodiversità. Quali sono le problematiche connesse ai biocombustibili? Facciamo il punto.


biocarburanti
I biocarburanti o biocombustibili sono propellenti ottenuti in modo indiretto da biomasse, solitamente grano, mais, bietole e canna da zucchero

L'ultimo rapporto di Greenpeace dal titolo evocativo "Metti un tigre, in estinzione, nel motore" fa il punto sui biocarburanti e il paradosso che si sta generando a livello europeo. La normativa comunitaria che obbliga a usare almeno il 10% di biocarburanti rischia infatti di incentivare la deforestazione, distruggere biodiversità e quindi avere un'influenza negativa sui cambiamenti climatici.

Ma andiamo con ordine. Cosa sono i biocarburanti? I biocarburanti o biocombustibili sono propellenti ottenuti in modo indiretto da biomasse, solitamente grano, mais, bietole e canna da zucchero. Vista la virtuale riproduzione all'infinito della materia prima - naturale e tendenzialmente non inquinante - i biocarburanti sono visti con sempre maggiore favore dalla comunità internazionale e dalle case produttrici.

L'economia brasiliana sta letteralmente fiorendo in questi anni anche grazie alla produzione di questo tipo di combustibili. Le critiche maggiori che gli esperti avanzano sono quelle di sottrarre terreni alle colture agricole per la produzione di alimenti e diminuire l'estensione di zone verdi del pianeta oltre che di avere un rapporto tra energia necessaria alla produzione e energia prodotta non sempre favorevole.

pompa biodiesel
In Italia il biodiesel viene prodotto quasi esclusivamente con materia prima di importazione

L'Unione Europea tenendo in considerazione almeno la prima e la seconda di queste obiezioni, ha vietato l'uso di biocarburanti che provengano dal cambio diretto della destinazione d'uso dei terreni. 'Diretto' è la parola chiave. Non è stato infatti difficile trovare il trucco per aggirare questa regola: è sufficiente realizzare un cambio 'indiretto' di destinazione d'uso. Funziona così: si trasforma un terreno coltivato a fini alimentari in terreno per la produzione di colture energetiche (i vari mais, palma da olio e via dicendo...) creando una mancanza che può essere colmata solo destinando altre aree verdi incontaminate (foresta pluviale, boschi o quant'altro) alla produzione di derrate alimentari. Poi il ciclo ricomincia. All'infinito, o quasi.

L'analisi di Greenpeace evidenzia come in Italia il biodiesel venga prodotto quasi esclusivamente con materia prima di importazione, cosa che non permette di controllare il ciclo completo di produzione dei carburanti e quindi l'origine e l'impatto ambientale delle materie prime. Dice Chiara Campione, responsabile della campagna foreste di Greenpeace: “L’obiettivo è giusto, i mezzi sbagliati, serve una legge che renda obbligatorio il calcolo delle emissioni serra prodotte dal ciclo completo di lavorazione dei biocarburanti. Bisogna incentivare il biodiesel a basso impatto ambientale, dunque coltivazioni locali, che non richiedono l’uso di pesticidi e crescono con poca acqua. Solo a queste condizioni si può veramente parlare di biodiesel”.

mais biodiesel
Le critiche maggiori che gli esperti avanzano sono quelle di sottrarre terreni alle colture agricole e aree verdi del pianeta

La sfida però è più facile a dirsi che a farsi se pensiamo che per produrre un litro di biodiesel servono 4000 litri d'acqua oltre a enormi estensioni di terreno. Considerando il volume di biodiesel che può essere prodotto per unità di terreno coltivato, alcune ricerche evidenziano, ad esempio, come gli Stati Uniti d'America - una delle nazioni con richiesta energetica più elevata - non possiedano terreno coltivabile a sufficienza per rifornire ipoteticamente tutti i veicoli dei propri cittadini. Stesso discorso si potrebbe fare per l'Italia dove i 34 milioni di veicoli avrebbero bisogno di ben 5,7 milioni di ettari di suolo coltivato a canna da zucchero su un totale di terreno coltivabile pari a 13 milioni di ettari. Quasi il 50%.

La situazione potrebbe essere migliore in paesi con meno esigenze energetiche e più terreni verdi ma questo ovviamente sarebbe un ragionamento sbagliato in quanto il problema andrebbe affrontato da un punto di vista globale e non regionale. Anche a percentuali di sfruttamento minori, poi, il passaggio a massiccio a quelle che sono sostanzialmente delle monocolture produrrebbe perdita di biodiversità con conseguenze a lungo termine decisamente drammatiche.