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Caro amico che sei in carcere…

di Francesco Lamendola - 25/07/2011





Caro amico che sei in carcere…
Non «caro amico carcerato», ma: «caro amico che sei in carcere, che ORA ti trovi in carcere»; perché l’espressione “carcerato” ha un che di sgradevolmente definitivo.
Si tratta di rendere giustizia sul piano lessicale: come quando si sente dire, di qualcuno, che è un «ladro»; suona troppo reciso, troppo inappellabile; più giusto, invece, dire: «una persona che ha rubato», magari in un momento di debolezza.
Perché c’è ladro e ladro: e una disgraziata romena che ha rubato quattro cartoline in un ufficio postale, è stata arrestata con tanto di manette e sbattuta sulla stampa come un mostro, con la fotografia a colori per soprammercato; mentre certi uomini politici che chiedono sacrifici di lacrime e sangue al popolo italiano, e intanto vivono, «senza saperlo» (!), in appartamenti da 8.500 euro al mese, ovviamente senza pagare un soldo, be’, quelli… meglio non dire altro.
Dunque, caro amico che sei in carcere: non so se leggerai queste righe che sono rivolte a te, come un messaggio affidato al mare dentro una bottiglia; non so nemmeno se i regolamenti carcerari consentano qualche scappata in rete.
Eppure le vie della comunicazione sono impensabili, lo sappiamo un po’ tutti, per esperienza; potrebbe darsi che un tuo parente o un tuo amico le stampi al computer e poi te le porti, così, per farti un po’ di compagnia: sempre che almeno questo sia concesso.
Perché questa è la ragione che mi induce a scriverti, in questo momento, nel mezzo dell’estate, quando le persone sono ancora più sole, già quelle che vivono libere, figuriamoci quelle che si trovano rinchiuse dietro le sbarre di una cella: il desiderio di farti un po’ di compagnia, di alleggerire un poco, se possibile, la tua solitudine.
O forse potresti essere una amica che sta in carcere: perché, anche se le statistiche dicono che tanto in Italia, quanto nel mondo, la popolazione carceraria femminile è molto inferiore a quella maschile, per una persona in carne ed ossa che rientra in una categoria minoritaria non fa alcuna differenza,  le statistiche non vogliono dire un bel nulla.
Dunque, caro amico o cara amica che siete in carcere: ho pensato di scrivervi per tenervi compagnia, per aiutare la vostra mente ad evadere, un quarto d’ora, dai pensieri tristi e monotoni di sempre; per tentare di spalancarvi una finestrella sul cielo azzurro che sta fuori.
Dovete, però, darmi una mano: nessuno può essere aiutato se non lo vuole lui per primo; nessuno può essere portato fuori dai pensieri negativi, verso un’aria più respirabile, se non è disposto a fare alcuno sforzo per rompere il cerchio stregato della rassegnazione e dello scoraggiamento e a muovere almeno qualche passo in direzione della luce.
Questo, del resto, vale per ogni altra situazione umana di difficoltà o di indigenza: nessun malato può essere realmente aiutato dal medico, se egli per primo non desidera fermamente la propria guarigione; così come nessuno studente potrà mai imparare qualcosa per davvero, anche se avesse a disposizione i migliori insegnanti di questo mondo, se non possiede lui stesso una forte motivazione allo studio, al sapere, ad allargare i propri orizzonti.
Questo è il problema numero uno: nessuno può essere aiutato contro la propria volontà; dunque, per aiutare se stessi, bisogna agire innanzitutto sulla propria volontà, combattere contro i fantasmi della stanchezza, del fatalismo, della rinuncia.
Ma tu potresti dire che, per fare questo, bisogna essere già sulla strada giusta, bisogna aver trovato già gli strumenti adatti: mentre sono proprio queste le cose che mancano a chi è solo e abbandonato a se stesso, privo di fiducia e di speranza.
Come si esce da un simile circolo vizioso?
Non lo so, caro amico (o cara amica) che sei in carcere: non sono qui a farti una lezione di filosofia teoretica, ma a parlarti di cose pratiche e concrete.
Quando si è in difficoltà, la cosa migliore che si possa fare è quella di affinare la propria vista interiore e imparare a vedere e riconoscere tutte quelle situazioni, tutte quelle cose, tutte quelle persone che possono esserci d’aiuto; e, naturalmente, nel medesimo tempo, a tenersi alla larga da tutto ciò che potrebbe essere di ulteriore complicazione e sofferenza.
Dunque, se una parola amica ci giunge da una qualsiasi parte, è importante saperla cogliere e saperla utilizzare al massimo; ciò che, del resto, si dovrebbe imparare a fare sempre, nella propria vita, anche quando le cose vanno bene, perché è una sana abitudine esistenziale, che ci aiuta a stare sempre meglio con noi stessi e con il mondo.
Allora, di che cosa parliamo?
Stai tranquillo, non ho intenzione di farti alcuna predica sulle ragioni che ti hanno portato lì, dove ora ti trovi; né, tanto meno, sulla necessità e sulla bellezza di vivere una vita onesta e di evitare tutte le occasioni di violare la legge, se non altro per i rischi che ciò comporta.
Penso tu abbia intuito da solo, del resto, la nuda e cruda verità: che, se non riesci a comprendere i meccanismi che ti hanno portato dove ora ti trovi, rischi di ripetere fatalmente gli stessi errori, quando sarai fuori; e, inoltre, che l’unica maniera di dare un senso alla tua condizione attuale, è quella di riflettere su te stesso e di iniziare la rinascita, attraverso le fasi necessarie del rimorso e del pentimento.
Niente prediche, comunque, ma solo le parole che potrebbe dire un amico sinceramente desideroso del nostro bene; un vero amico, interessato al bene all’altro.
Delle tue presenti angustie materiali e psicologiche - l’affollamento, il caldo, i disagi materiali e soprattutto la mancanza di intimità - non voglio dire niente, perché, se lo facessi, sarei un presuntuoso: non le ho mai provate, e bisogna evitare di parlare di quel che non si conosce, se non altro per una forma di rispetto verso il nostro interlocutore che, invece, quelle cose le sta vivendo sulla propria pelle.
Il massimo del disagio fisico che ho provato è stato quando ho fatto il militare: caporale degli alpini, specialità: artiglieria da montagna; ma, anche se taluni commilitoni vivevano quella esperienza come una vera e propria prigionia e si mettevano ogni giorno a fare il conto alla rovescia, in attesa del figlio di congedo, devo onestamente riconoscere che né il disagio con i muli, né quello con alcuni esseri umani ad essi non troppo superiori in fatto d’intelligenza, si potevano anche solo lontanamente paragonare a quella che deve essere la situazione di un carcerato vero.
Vorrei parlare, semmai, delle tua angustie spirituali: del senso di soffocamento che prova la tua anima, che è fatta per essere libera e che, certo, soffre non poco nella situazione in cui ora si è venuta a trovare, insieme al corpo.
Eppure, è proprio da qui che vorrei partire per aiutarti, se possibile, a intravedere uno spiraglio di luce: dal fatto che, se il tuo corpo è oggettivamente imprigionato, niente e nessuno hanno il potere di incatenare la tua anima, se tu non lo vuoi, se vuoi lasciarla volare liberamente.
Forse già frequenti la biblioteca del carcere: quello è già un inizio; la lettura di buoni libri, di libri che fanno pensare e non soltanto che intrattengono per qualche ora, è già un ottimo trampolino per slanciarsi verso più ampi spazi di libertà.
Anche la conversazione con un vero amico può avere questo effetto; il problema è che, quando ci si trova forzatamente a contatto con altre persone che sono, come noi, frustrate e angustiate, non è facile far spuntare la pianticella dell’amicizia; succede spesso, al contrario, che nasca la mala pianta dell’insofferenza reciproca, dell’aggressività, della rabbia cieca.
Il primo passo, dicevo, è riuscire a ritagliarsi, pur in mezzo alle miserie quotidiane (e un discorso analogo vale, ad esempio, per i malati gravi, che giacciono in un letto di ospedale), questa semplice, ma essenziale consapevolezza: noi non siamo il nostro corpo; la nostra parte più profonda è capace di volare oltre le sbarre di qualsiasi prigione, verso le verità più sublimi.
È possibile anche a te, dunque, caro amico sfortunato, proiettare la tua parte migliore fuori dalla cella stretta e surriscaldata in cui ti trovi, e vedere squarci di cielo azzurro, infinito.
La seconda cosa che vorrei dirti è questa: datti pace; perdonati; perdona coloro che hanno contribuito a farti finire dove sei ora; spegni il fuoco della rabbia: se alimenti la spirale del rancore, fai soltanto del male a te stesso.
È inutile tormentarsi con pensieri distruttivi; è inutili ripetersi continuamente che se, quel giorno, le cose fossero andate diversamente…, se quella certa persona avesse fatto questo e non quest’altro…; è inutile sognare la vendetta contro chi riteniamo responsabile di non averci capiti, di non averci aiutati, di non averci amati o di non averci amati nel nodo giusto: tutto questo è inutile e ancora peggio che inutile, è deleterio.
Forse hai sentito dire, o hai pensato tu stesso, che l’odio e il desiderio di vendetta sono gli unici strumenti per resistere alla frustrazione dei giorni che non passano, all’angoscia del tempo che sembra essersi fermato, mangiandosi inutilmente la tua vita: non è vero, non è così.
L’odio e il desiderio di vendetta non fanno altro che tenere sempre aperta la ferita della tua anima, impedendoti di medicarla e permettendole, così, di rimarginarsi: solo imparando a perdonarsi e a perdonare, si riesce a trovare un equilibrio che non sia ingannevole, ma stabile; una pace che non sia illusoria, ma ben viva e reale.
Belle parole, dirai tu; ma soltanto parole.
Purtroppo, caro amico, non ho nient’altro da offrirti che parole.
Eppure, non è detto che sia poco; non è detto che le parole non valgano nulla e che, al mondo, contino solo i fatti.
Quando una determinata situazione non può essere in alcun modo modificata da noi, come lo sono una detenzione o anche una grave malattia, allora non esistono fatti che possano cambiare di una virgola la nostra sofferenza; e le parole, quando sgorgano dall’anima e non escono semplicemente dalla bocca, come un inutile gioco retorico, possono dire molto, possono fare la differenza tra la disperazione e la speranza.
Vi sono individui che, pur non essendo materialmente in prigione, come lo sei tu adesso, vivono, di fatto, una vita da carcerati, perché hanno chiuso il cuore alla dimensione della speranza e hanno incatenato da se stessi la propria anima, che è naturalmente assetata di infinito.
Ciascuno di noi possiede uno splendido palazzo interiore, ricco di innumerevoli stanze, belle e luminose: ma alcuni hanno deciso di vivere nelle cantine, buie e sporche: senza rendersene conto, inseguendo miraggi di falso bene, hanno rinunciato a vivere nelle stanze superiori, ampie e soleggiate, i cui balconi si affacciano su un meraviglioso giardino.
Non fare come loro, caro amico: sono materialmente liberi, ma è come se fossero ancora più prigionieri di quanto lo sia tu adesso.
Se tu lo vuoi, la tua anima può essere libera come lo è quel passerotto che si è posato or ora sul davanzale della cella di fronte alla tua ed è padrone di aprire le ali e di spiccare nuovamente il volo dove preferisce, senza che nessuno possa impedirglielo.
La terza cosa che voglio dirti è, appunto, questa: che ciascuno di noi è fatto per l’immensità, è fatto per l’eternità: e che non c’è errore che non si possa correggere, non c’è sconfitta che non si possa riscattare, non c’è umiliazione da cui non ci si possa risollevare, più forti e più coraggiosi di prima, resi saggi da ciò che si è sofferto.
Non siamo fatti né per rimuginare l’odio e il dolore, né per tendere lacci agli altri, né per fingere di essere quel che non siamo: siamo fatti per la verità, per la pienezza, per la gioia; e non siano qui per caso, né alcuna cosa avviene a caso, ma tutto ha un significato, tutto ha un senso, tutto è parte di un grande disegno armonioso, cui noi siamo chiamati a collaborare.
Sei caduto? Ebbene, stai già scontando il tuo debito.
Non pensare al passato, che non è più, né al futuro, che non dipende da te; ma al presente. Se tu riesci a far sì che la tua condizione presente ti renda più forte, ti renda migliore, allora questa prova che stai vivendo, non sarà stata inutile; allora questi mesi, questi anni di prigione che stai scontando, non saranno stati inutili.
Certo, quando sarai fuori non sarà tutto rose e fiori, lo sappiamo bene.
Ma la vita è una lotta, sempre, per tutti: l’importante è affrontarla a testa alta, rispettosi di se stessi.