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Che cosa sta succedendo all’Europa?

di Francesco Lamendola - 25/07/2011


foto dell'attentato bomba ad Oslo in Norvegia


Il 22 luglio 2011 un duplice, gravissimo attentato terroristico ha scosso la tranquilla atmosfera estiva della capitale norvegese, Oslo: una bomba è esplosa in pieno centro, a pochi passi dagli uffici del primo ministro Jens Stoltenberg; e un raduno di giovanissimi laburisti, tutti di età compresa fra i quattordici e i diciannove anni, sull’isola di Utoya, situata a circa 50 km., è stato attaccato a raffiche di arma da fuoco; il bilancio provvisorio è di un centinaio di morti e un numero imprecisato di feriti.
L’attentato, che in un primissimo tempo era stato attribuito a una matrice islamica, anche per via di una frettolosa rivendicazione jihadista, sembra ora che vada collocato, invece, nell’area dell’estrema destra, anzi, pare attribuibile ad una sola persona (a prescindere dal supporto logistico che può aver ricevuto), un giovane neonazista di trentadue anni, Andres Behrin Breivik, che avrebbe falciato più di ottanta ragazzi con il suo fucile automatico regolarmente acquistato e denunciato.
Certo, attentati terroristici di questo genere, vale a dire maturati nelle pieghe e nelle contraddizioni interne della società, non sono specifici dell’Europa ma colpiscono ormai ovunque, compresi gli Stati Uniti, che li hanno conosciuti ben prima di quelli dell’11 settembre 2011, ad esempio quello di Oklahoma City del 19 aprile 1995, maturato nella pancia dell’America profonda; e tuttavia è difficile sottrarsi all’impressione che abbiamo a che fare con una inquietudine rabbiosa, con un malessere ormai cronico, covato però in silenzio nei recessi del Vecchio continente.
Abituati, da tempo, ad associare la parola “terrorismo” al fondamentalismo islamico, gli Europei sono stati colpiti, ancora una volta, da una direzione che non si aspettavano, come un organismo che si credeva sano e che aveva allestito le proprie difese solo verso l’esterno, mentre un male oscuro lo stava minando, non riconosciuto, dall’interno.
È successo ad Oslo quel che accadde alla fortezza di Panama, crocevia dell’oro e dell’argento peruviani, che, in previsione di un assalto dei corsari britannici, francesi e olandesi, aveva i cannoni puntati verso il mare, ma era pressoché inerme dal lato di terra, perché gli Spagnoli, a torto, ritenevano impossibile che un esercito nemico riuscisse ad attraversare le foreste dell’istmo e giungesse a ridosso della città, senza tradire la sua presenza.
La domanda, dunque, e non solo riguardo all’attentato di Oslo, ma a tante altre forme di violenza, sia politica che individuale (e spesso la prima non è che la facciata della seconda, poiché nasce da un malessere squisitamente individuale che, a posteriori, cerca di nobilitarsi ideologicamente: si pensi al protagonista di «Taxi driver» di Martin Scorse o, ancor meglio, a quello di «Un giorno di ordinaria follia» di Joel Schumacher): che cosa sta succedendo all’Europa?
La prima cosa che verrebbe da pensare è che l’anima dell’Europa sia ammalata: ammalata di troppo e di nulla; di consumismo e di alienazione; di falso benessere e di profonda, amara solitudine esistenziale; che il deserto dei valori, lo sfascio delle famiglie, la scomparsa di un qualunque progetto educativo nei confronti dei giovani, abbiano prodotto questi risultati, che si potrebbero riassumere nella macabra formula del “cupio dissolvi”, ossia della brama dell’autodistruzione.
Però, perché si possa parlare di una malattia dell’anima, occorre bene che un’anima ci sia: e l’Europa del terzo millennio possiede ancora un’anima?
Oppure l’ha perduta interamente, e ormai da parecchio tempo?
E, in tal caso, a che cosa stiamo assistendo: alle convulsioni finali di un corpo senz’anima, agli ultimi spasmi di un organismo agonizzante, originati non da un movimento cosciente e consapevole, ma da un puro automatismo, da un riflesso meccanico?
Proviamo a dare una definizione di anima: non quella aristotelica, secondo la quale essa è la forma del corpo, ma semmai quella tomista, come atto primo di un corpo fisico organico. L’atto di essere dell’individuo è l’atto dell’anima stessa: dunque, l’anima è sempre un composto, sempre, anche dopo la morte: essa è l’essenza attualizzata dell’atto di essere.
San Tommaso parla dell’anima umana; ma noi crediamo che questa definizione si possa estendere all’anima in quanto tale, dunque anche all’anima di una civiltà, di un continente: in questo caso, all’anima dell’Europa.
Dunque, si tratta in primo luogo di vedere se la civiltà europea, oggi, sia caratterizzata dall’atto di essere: se sì, allora essa possiede effettivamente un’anima, forse malata, comunque, teoricamente, medicabile; se no, nulla può essere fatto per essa, perché nessuna cura e nessuna medicina potrebbero mai riportare in vita un cadavere.
E allora, eccoci al punto: è ancora viva, l’Europa?
Viva è una civiltà quando è pervasa da un’ansia di verità, di bontà e di bellezza; quando i genitori scommettono sull’avvenire dei figli e dei nipoti; quando la ricerca di senso conferisce dignità, coerenza e coraggio alle opere della vita quotidiana, illuminandole e trasfigurandole in una dimensione ulteriore, sì che esse non si risolvano nella mera soddisfazione delle necessità primarie o di bisogni puramente artificiali, ossia di inutili e dannosi capricci.
La civiltà europea possiede, oggi, siffatte caratteristiche, come certamente le possedette in passato, ad esempio nell’epoca della grande fioritura monastica e in quella che vide la costruzione spontanea, inesausta delle grandi cattedrali?
Difficile dare una risposta affermativa; difficile anche, però, escluderlo completamente, dal momento che nel regno della qualità non conta quante persone vengano trascinate dalla chiamata verso la verità, la bontà e la bellezza, ma solo e unicamente con quanta forza e profondità esse, per quanto poche, siano chiamate e quanto intensamente rispondano: e non ci sentiremmo di escludere che una piccola minoranza di persone siffatte esista ancora.
L’anima dell’Europa, comunque, posto che - in qualche misura - esista tuttora, è seriamente minacciata di estinzione, tanto da forze interne, quanto da minacce esterne.
La brusca irruzione di masse di milioni e milioni di immigrati extra-europei, unita alle modalità discutibilissime con cui è stata gestita e soprattutto alle finalità, speculative nel senso peggiore della parola, con le quali è stata accolta e favorita, è uno dei fattori - uno soltanto, sia chiaro - di quella progressiva decadenza, di quella perdita di identità, di storia e, in definitiva, di anima, che caratterizza, attualmente, la condizione spirituale della civiltà europea.
Il fatto che il folle Breivik, l’autore della strage di Oslo, si definisse un fondamentalista cristiano e che temesse la prospettiva di un’Europa multietnica e multiculturale, riservando un odio tutto speciale verso quelle forze politiche, come i partiti d’ispirazione laburista, che si pongono favorevolmente nei confronti di una tale prospettiva, sarà certamente sfruttato dai media e da tutto l’establishment della cultura e dell’informazione per criminalizzare qualunque atteggiamento e qualunque ragionamento risultino anche moderatamente critici, o soltanto dubbiosi, verso le «magnifiche sorti e progressive» della futura società globalizzata.
Noi ci aspettiamo fin d’ora una tale speculazione ideologica, perché il Pensiero Unico ormai imperante ha raggiunto un tale livello di sfrontatezza, che non si preoccupa nemmeno di nascondere i suoi sforzi incessanti per addomesticare le intelligenze con sillogismi capziosi e con tutta una serie di insopportabili semplificazioni e stravolgimenti del dissenso, ad esempio presentando come “reazionario” e “nazista” chiunque non si allinei supinamente e incondizionatamente sulle posizioni politiche ed economiche dei grandi poteri occulti che ci manovrano come miseri fantocci, restandosene nell’ombra.
Che si tratti di speculazioni assolutamente disoneste, infatti, appare evidente a chiunque conservi un barlume di pensiero critico individuale: affermare che essere contrari alla tanto decantata società multietnica e multiculturale equivale alla violenza terroristica di un pazzo isolato, ha la stessa dignità intellettuale di sostenere che, essendovi dei mariti che assassinano le mogli, l’istituto matrimoniale in quanto tale andrebbe abolito, per i pericoli fisici che esso comporta.
La prospettiva di un’Europa ridotta a un guazzabuglio di lingue, di fedi, di culture diverse, piace - essenzialmente - a due categorie di persone: i padroni dell’economia e specialmente della finanza speculativa, che vi scorgono un modo per acquisire manodopera a basso costo e, quindi, per abbassare progressivamente il costo del lavoro anche fra i lavoratori europei, senza curarsi minimamente delle ricadute sociali e dell’enorme aumento della spesa pubblica; e i progressisti da strapazzo.
Dei primi è inutile parlare, dal momento che essi si servono dei rituali democratici per far passare la linea da essi voluta per ragioni puramente di profitto privato; quanti ai secondi, si tratta di persone sovente in buona fede, ma totalmente plagiate da una scuola, da una stampa, da una televisione che ripetono instancabilmente gli stessi ritornelli umanitari e buonisti, fino a conseguire il completo lavaggio del cervello del cittadino-spettatore-consumatore.
Comunque, tornando alla strage di Oslo, il vero problema che essa pone alla nostra attenzione non è quello della futura islamizzazione dell’Europa e dei possibili atteggiamenti di fronte ad essa: sarebbe come dire che gli scontri avvenuti in Val di Susa tra forze dell’ordine e manifestanti contro la Tav sono la spia di un fondamentalismo antimoderno, di un rigurgito reazionario e vandeano; sarebbe, cioè, un modo per criminalizzare qualsiasi forma di pensiero non allineato.
Il vero problema, a nostro avviso, è quello di una gioventù allo sbando: psicologicamente, affettivamente, eticamente e spiritualmente; di una gioventù che non ha ricevuto buoni esempi, ma solo regali e facilitazioni; che non ha conosciuto l’azione salutare del sacrificio, ma la pedagogia alla rovescia, iperprotettiva e permissiva, di genitori latitanti in ciò che più conta: la presenza, il dialogo, l’amore autentico (che non va confuso coi giocattoli costosi o con la paghetta a due zeri per andare ogni sabato in discoteca).
Questa gioventù, che è stata abbandonata a se stessa, anche se - in apparenza - colmata di attenzioni e perfino viziata, soffre di solitudine, di insicurezza, di angoscia esistenziale; è fragile davanti alle difficoltà della vita, sgomenta davanti alle sfide e agli imprevisti; si rifugia nei giochi elettronici (magari di tipo militare, come faceva, appunto, il pluriassassino di Oslo) o, peggio ancora, nei giochi di ruolo, inventandosi una identità fittizia e nascondendo così a se stessa la propria frustrazione, la propria rabbia, la propria deprivazione affettiva.
E la paura e la rabbia represse non fanno altro che covare e crescere in silenzio, come una bomba ad orologeria fatalmente destinata a esplodere.
Non tutti i giovani, ovviamente, sono così: questa, però, è la linea di tendenza dominante; e, sebbene i media abbiano ogni interesse ad amplificare i fenomeni negativi a ciò connessi, per vendere meglio quella particolare merce che è la notizia di cronaca nera, sta di fatto che realmente, secondo ogni evidenza, la gioventù odierna sta attraversando una delle più gravi crisi generazionali degli ultimi duemila anni.
Basta accendere a caso un telegiornale, anche di una qualche emittente locale, per sentir parlare di giovani che, al sabato sera, non trovano miglior passatempo che quello di rovesciare le auto in sosta, così, per puro divertimento; che si picchiano o si accoltellano, fuori dai bar o dalle discoteche, per una parola di troppo o per un semplice sguardo; di partite di calcio che servono da pretesto alle opposte tifoserie per scatenare delle vere e proprie spedizioni di guerra; di ragazzini e perfino di bambini che penetrano nelle scuole e aprono i rubinetti, per provocare allagamenti che costeranno alla comunità dei danni per migliaia e migliaia di euro.
Al tempo stesso, la violenza degli altri li spaventa: quei profughi africani che stazionano nella zona della stazione ferroviaria di Padova, spacciando droga alla luce del sole e scatenando risse e accoltellamenti, sono percepiti come l’avanguardia di una invasione non troppo pacifica, la cui posta in gioco è la sopravvivenza della civiltà europea, così come noi oggi la conosciamo e come si è formata nel corso dei secoli.
Ora, questi giovani che non sono stati abituati a gestire le proprie emozioni, a razionalizzare i propri impulsi, ad affrontare pacatamente e responsabilmente le paure e le incertezze, sono le vittime designate di una violenza cieca di cui essi sono, al tempo stesso, lo strumento e il veicolo inconsapevole e, perciò, tanto più imprevedibile e pericoloso.
Due cose, quindi, sono più che mai necessarie, se si vuol trarre una morale da tragedie come quella di Oslo: la prima è che bisogna porre all’ordine del giorno un progetto educativo nei confronti dei giovani; la seconda, che i processi sociopolitici devono essere sottratti alla speculazione finanziaria indiscriminata e restituiti, democraticamente, alla libera facoltà decisionale del cittadino.