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Un mondo alla fame: l'Africa della disuguaglianza e dei cambiamenti climatici

di Paul Rogers - 25/07/2011


La dura siccità in gran parte dell’ Africa orientale è un’emergenza che richiede attenzione immediata. Segnala una crisi globale: la convergenza della disuguaglianza, dell’insicurezza alimentare e dei cambiamenti climatici.

La siccità in gran parte dell’Africa orientale nella metà del 2011 sta causando profondi disagi ai popoli in difficoltà, quando molti erano già schiacciati dalla povertà e dall’insicurezza. L’arco delle zone colpite è molto esteso: i due distretti della Somalia che sono stati individuati come zone di carestia sono la parte più estrema del più vasto disastro che si stende dalla Somalia verso l’Etiopia e il Kenya settentrionale, ad occidente fino al Sudan e al distretto di Karamoja nel nord-est dell’ Uganda.

I numeri che sono in ballo, nella peggiore siccità nella regione dagli anni ’50, sono enormi. Almeno 11 milioni di persone sono colpite dal disastro. Nel distretto di Turkana nel Kenya settentrionale, 385.000 bambini (su un totale di circa 850.000) stanno soffrendo di una forte malnutrizione (vedi Miriam Gathigah, “L’Africa dell’Est: Milioni alla fame di fronte alla brutale siccità”, TerraViva / IPS, 18 luglio 2011). In Somalia il conflitto tra il movimento islamico Shabaab e il governo effettivo hanno resi le condizioni ancora più disperate per le persone coinvolte.

Il più grande campo di rifugiati al mondo, a nel nord del Kenya, offre una dimostrazione lampante delle conseguenze della siccità. La popolazione di Dadaab, che era stato progettato per ospitare 90.000 persone, è arrivata ultimamente a 380.000 – e più di 1.300 altri ne arrivano quotidianamente (vedi Denis Foynes, “Undici milioni a rischio nel Corno d’Africa”, TerraViva / IPS, 19 luglio 2011).

Le lezioni della crisi

Ma è sconvolgente il fatto che questo fa parte di un fenomeno ricorrente. Segni evidenti di malnutrizione e di carestia erano già visibili ad aprile del 2008; tra questi c’erano i fattori climatici, i rapidi incrementi del prezzo del petrolio, l’aumento della domanda per diete a base di carne per le comunità più ricche e gli investimenti nei terreni per la coltivazione dei raccolti per i biocarburanti (vedi “L’insicurezza alimentare mondiale”, 24 aprile 2008).

Quello che reso questi ingredienti ancora più devastanti è il fatto, molto frequente, che agiscono sinergicamente. Il più chiaro esempio fu dato dalla prolungata crisi alimentare del 1973-74, quando (al suo picco) circa 40 milioni di persone in trenta paesi furono a rischio. La gravità della situazione era causata da una combinazione di vari fattori, due a lungo termine e cinque più immediati.

Gli aspetti a lungo termine era la relativa mancanza di sviluppo agricolo dagli anni ’50 e il fatto che molti paesi stessero appena iniziando a registrare la transizioni demografiche (per il fatto che avevano il 40% o più della popolazione sotto l’età di 14 anni). Questi fattori furono intensificati dai problemi a breve termine: la simultaneità di cattive condizioni atmosferiche (comprese la siccità settennale nel Sahel e le alluvioni nell’Asia meridionale), un’enorme incremento dei prezzi del petrolio e dei fertilizzanti, l’aumento della domanda di carne nelle nazioni del nord, il fallimento della rivoluzione verde per ottenere varietà sufficientemente robuste di raccolti e la speculazione rampante sul mercato delle commodity che ha forzato in alto in prezzi.

Alla fine la crisi del 1973-74 non si è trasformata in un verso disastro. La carestia internazionale fu evitata, anche perché nuovi stati (principalmente i nuovi produttori di petrolio del Medio Oriente) hanno fornito, pur tardivamente, abbastanza aiuti. Ma l’aspetto più significativo era che comunque le riserve mondiali dei grani erano notevoli; giunsero alla metà delle scorte usuali, ma anche al picco della crisi potevano soddisfare 100 giorni di rifornimento. Il problema rivelato dalla crisi era che troppi paesi non riuscivano a produrre abbastanza cibo e non si potevano permettere i prezzi inflazionati nei mercati locali e nazionali. Il nocciolo di questa emergenza risiedeva nella povertà e nella marginalizzazione economica.

Le lezioni di una catastrofe sfiorata non sono state ben apprese. Il progetto della Nazioni Unite per un maggior incremento della ricerca e sviluppo nell’agricoltura tropicale cosò l’equivalente del 2% della spesa militare mondiale annuale, mettendo a disposizione meno di un terzo delle somme necessarie.

Da quel momento ci sono stati quattro decenni di “sviluppo”, con risultati contrastanti: la ricchezza mondiale è cresciuta molto, ma la torta più grossa ha beneficiato 1,5 miliardi di persone più ricche nella popolazione globale che le Nazioni Unite stimano raggiunga i sette miliardi nell’ottobre del 2011. Un mondo molto più facoltoso è sempre più diviso, e ha oggi quasi il doppio di persone malnutrite di quante ce ne fossero nei primi anni ‘70. Questi fatti sono una critica severa al modo in cui si è evoluto il sistema economico mondiale, e in particolare della trascuratezza per la sicurezza alimentare per decine di milioni delle persone più povere e vulnerabili.

Il fattore climatico

Quello che rende la situazione ancora più pressante sono gli aggravi dovuti ai cambiamenti climatici esistenti e a quelli probabili (vedi “Il pericolo climatico: una corsa contro il tempo”, 13 novembre 2009).

Ci sono prove diffuse che il tasso di incremento della temperatura nei prossimi decenni sarà ancora più rapido nelle fasce tropicali e sub-tropicali, tre volte di più rispetto alla media di molte altre regioni. Gli effetti immediati comprenderanno un declino marcato in quelle che Lester Brown ha definito “i serbatoi nel cielo”: le regioni glaciali delle Ande superiori e gli ancora più grandi bacini ghiacciati presenti nell’Himalaya e nel Karakoram (talvolta definiti “il terzo polo”) (vedi Lester R Brown, “L’aumento delle temperature scioglie la sicurezza alimentare”, TerraViva / IPS, 6 luglio 2011).

Le aree costiere asciutte del Peru e di altre parti del America sud-occidentale dipendono dai ghiacciai andini. Ma il valore dei ghiacciai asiatici è enormemente maggiore dato che alimentano il Gange, l’Indo, il Brahmaputra e altri sistemi fluviali dai quali centinaia di milioni di persone dipendono per l’approvvigionamento del cibo. Quando i “serbatoi” si seccano e la temperatura aumenta, il risultato è un aumento della calura estiva e lo stress per le coltivazioni, provocando la caduta delle rese e quindi carenze alimentari. Queste carenze esistono già ora, come dimostra la crisi africana; con il passo attuale diventeranno molto peggiori nei prossimi decenni (vedi "Un secolo in bilico: 1945-2045", 29 dicembre 2008).

Un grado di adattamento è teoricamente possibile, non senza miglioramenti tecnologici e cambi politici: migliorando la conservazione dell’acqua e la produzione di raccolti resistenti alla siccità, oltre a riformare l’economia mondiale per assicurare una maggiore equità e l’emancipazione economica (vedi Amartya Sen, Sviluppo come Libertà [Oxford University Press, 1999]). Queste innovazioni da sole sarebbero quasi rivoluzionarie, ma non sarebbero ancora sufficienti a risolvere i problemi. Tutto ciò richiede che il cambiamento climatico sia posto sotto controllo attraverso una “grande transizione” verso economie a basso utilizzo di carbone.

La crisi odierna nell’Africa orientale richiede un’azione coordinata e immediata per alleviare la sofferenza generalizzata. È anche un favoloso promemoria degli sforzi ben più ingenti necessari qui e altrove, che sono stati amplificati dalle precedenti decadi di abbandono e sprechi. La capacità di raggiungere la grande transizione – con tutto quello che concerne gli standard di vita sostenibili e l’organizzazione sociale – determinerà se le prossime generazioni del pianeta avranno una garanzia sul cibo e sulle altre risorse che li potranno far sopravvivere e costruire esistenze appaganti.

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Fonte: http://www.opendemocracy.net/paul-rogers/world-in-hunger-east-africa-and-beyond


Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE