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Università per professori universitari

di Andrea D'Emilio - 25/07/2011

 





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Andrea D'Emilio, che ha studiato filosofia a Chieti e ha ottenuto recentemente la laurea breve a Roma, ci scrive presentandoci un suo testo in cui critica la filosofia delle odierne accademie, fatta di pubblicazioni, ruoli, esami e voti, e quasi mai di pensiero e di idee. Il testo di seguito riportato è un estratto della sua tesina di laurea, che ha discusso davanti agli esaminatori, lamentandosi di fatto di essere stato tradito nella sua passione. Di questo atto coraggioso non possiamo che essere lieti, anche se sappiamo che ciò non riporterà il fumoso e servile filosofame accademico a ciò che dovrebbe essere, ossia ad atto libero dell'uomo di fronte alla meraviglia e al mistero del mondo.

Entriamo in un’aula. Una persona parla e tutte le altre stanno zitte. C’è chi si distrae e non fa nulla, ma le  mani che scrivono sui loro quaderni le parole del professore stanno davvero facendo qualcosa? Il più delle volte questi appunti non sono nemmeno schematici, il risultato di un tentativo di rielaborazione: trascrivono e basta. Perché mai? Noi studenti veneriamo a tal punto i professori da non voler perdere neanche una loro sillaba?
Abbiamo dimenticato un elemento sempre presente nell’aula, in ogni aula: l’esame. Aleggia implacabile, ed ogni studente lo considera ben più reale della tanto chiacchierata "ricerca della verità". Ma che cos’è un esame? L’esame è, perlopiù, un duplice esercizio di vanità: quella del professore e quella dello studente. La vanità-amor proprio del professore sta nel volersi sentir ripetere le stesse parole da lui pronunciate a lezione; la vanità-vacuità dello studente sta nell’accontentarlo, nel pensare solo al libretto dei voti. Ecco perché i nostri appunti sono soprattutto una trascrizione.
Lo studente non conta niente. E niente fa per contare di più, per esistere effettivamente. I programmi dei corsi li decide il professore, così come i metodi d’insegnamento. La libertà dello studente è fare qualche domanda, possibilmente aderente al discorso del professore e che comunque non necessariamente riceverà risposta. A volte le domande sono false, apparenti: le facciamo per compiacere il docente, riformulando a parole nostre quello che ha appena detto e dimostrargli così che siamo stati attenti.
Ma come sono i programmi d’esame? Il più delle volte riguardano un autore o un certo problema che sta a cuore al professore. Succede anche che anno dopo anno li si ritrovi tali e quali, o quasi. I libri scelti sono spesso del professore medesimo. Il risultato è che lo studente finisce per non avere un’idea complessiva della materia studiata, e i classici della tradizione li legge poco o niente. Inoltre i corsi non vengono vivacizzati dalla trattazione di pensatori opposti tra di loro, così da rendere drammatica l’esposizione e magari emozionare chi ascolta. Senza emozione resta solo l’imparaticcio.
I metodi d’insegnamento sono…il metodo d’insegnamento: monologo dalla cattedra. Ciò costringe gli studenti alla passività, non li coinvolge nel processo vivo del pensare. Si esercita la memoria e non il ragionamento. In questo modo frequentare un corso di filosofia è come andare a medicina o in qualunque altra facoltà. Il linguaggio utilizzato è tecnicistico, ripete gli stessi termini del filosofese senza illustrarli con un lessico chiaro per tutti. A parte la noia, il risultato è che lo studente impara a parlare e a scrivere come una scimmia dei libri che ha letto, e a credere che la filosofia sia mettere strane parole nel vuoto dei propri pensieri.
Un’altra caratteristica della nostra accademia è che gli orologi assurgono a divinità. Finito l’orario della lezione tutto finisce. Gli studenti traggono un sospiro di sollievo e il professore si invola. Ma dove va? Che cosa avrà di così urgente? Possibile che mai una volta nasca spontaneamente una discussione, si organizzi qualche incontro al di fuori delle aule, insomma si superi la dimensione dell’operaio che timbra il cartellino?