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La fine del berlusconismo

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 27/07/2011

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1) Dopo la debacle delle amministrative e dei referendum, è opinione generale che si sia giunti
alla fine dell’era del berlusconismo. Berlusconi può essere amato o odiato, ma tuttavia è lui
l’uomo più rappresentativo di un quasi ventennio di “seconda repubblica”. Dopo la demolizione
per via giudiziaria di “mani pulite” dei partiti “istituzionali” della prima repubblica , cioè della
DC, del PSI e dei laici minori, Berlusconi ha colmato il vuoto politico lasciato dal pentapartito, e,
insieme alla Lega, è riuscito a meglio interpretare l’ansia di rinnovamento del quadro politico
italiano. Forza Italia e la Lega erano infatti i due nuovi soggetti politici che emergevano dal
dopo “mani pulite”, in contrapposizione (assieme agli sdoganati ex missini di AN), ai vecchi
partiti ideologici della sinistra ex PCI. Comunque, sia a destra che a sinistra ci fu un generale
riciclaggio di politici “ex prima repubblica” in chiave liberal democratica. La seconda repubblica
ha inaugurato una stagione di rilevanti mutamenti delle fondamentali idee guida della politica
italiana: alla politica vissuta alla luce delle proprie convinzioni ideologiche e morali, è succeduta
una politica pragmatica, concentrata sull’immagine virtuale, sulla manipolazione mediatica della
psicologia di massa, sullo spot ossessivo. Al partito fondato sulla militanza e sulle idee forza
catalizzatrici del consenso popolare, si è sostituito il “partito leggero”, inteso come movimento di
opinione volatile e cangiante a seconda delle situazioni contingenti. Il berlusconismo è
identificabile con il partito inteso come emanazione del leader carismatico - mediatico, senza
stabili strutture interne. Quindi oggi esso decade con l’eclissi del suo leader, la cui successione
appare problematica. Berlusconi perde consensi, perché l’elettorato è deluso da tante promesse
disattese, a partire dalla famosa “rivoluzione liberale”, divenuta oggi l’araba fenice della politica
italiana. Proporre in Italia una rivoluzione liberale è un non senso. La trasformazione
economico sociale attuata dalle privatizzazioni - svendita del patrimonio dello stato (che hanno
inaugurato la seconda repubblica), la progressiva abrogazione della legislazione sociale,
l’emarginazione dello stato nella società civile, sono fenomeni che derivano dall’avanzata del
globalismo economico imposto dagli USA, che non necessitano di rivoluzioni nostrane. Oggi,
tuttavia il berlusconismo crolla perché, paradossalmente, secondo le tesi di Confindustria e dei
poteri finanziari, non è stato sufficientemente liberista, non avendo attuato le liberalizzazioni
necessarie, non ha svincolato il lavoro dai “lacci” della legislazione sociale, non ha effettuato i
“necessari” tagli al welfare. Riforme queste, che la politica italiana non è tuttora in grado di
compiere, e il cui esito fallimentare è dimostrato dalla crisi economica del 2008, ancora senza
soluzioni.


Quando si parla di Seconda Repubblica oppure di Berlusconismo bisogna essere pienamente
consapevoli del fatto che un conto è la costituzione formale ed un conto la costituzione materiale, o
“sostanziale” (ma forse sarebbe meglio dire semplicemente “reale”). La costituzione formale è una
realtà puramente virtuale, ed i soli che vi credono (o meglio, fingono di crederci) sono i professori
universitari di diritto costituzionale. La costituzione formale (in Italia, e soprattutto in Italia data la
lunga durata della tradizione di ipocrisia gesuitica e di divorzio fra parole e fatti) è un mito di
legittimazione o al massimo di mobilitazione, nel preciso senso dato a questo termine da Georges
Sorel. La costituzione materiale è invece l’intreccio di storia e di società, e non ha nulla a che fare
con la finzione formale. Il più noto dei costituzionalisti italiani, Gustavo Zagrebelsky, continua a
dire che Berlusconi viola la costituzione, mentre non dice mai che oggi (giugno 2011), il peggiore
violatore della lettera e dello spirito della costituzionale formale è Giorgio Napolitano, ispiratore e
garante della massima delle violazioni possibili, l’intervento armato nella guerra di aggressione alla
Libia (su questo prego verificare le opinioni autorevoli di Danilo Zolo, Angelo del Boca, Giulietto
Chiesa, eccetera). So bene che questa affermazione può sembrare blasfema ed estremistica, ma mi
sentirei di sostenerla pacatamente con dovizia di argomenti razionali in qualunque dibattito pubblico.
Ma la “costituzione materiale”, basata sull’accesso mediatico e sul politicamente corretto, lo
impedisce.
La costituzione materiale dell’Italia è invece a tutti gli effetti la cosiddetta Seconda Repubblica.
Certo, Berlusconi ne è stata una figura centrale, ma sarebbe fuorviante non capire che egli non ne è
stato che un prodotto, e niente affatto un creatore o un corruttore. Chi parla di populismo o addirittura
di “telefascismo” (lo sciagurato storico politicamente corretto Angelo d’Orsi, araldo
dell’antifascismo in completa e manifesta assenza totale di fascismo, sempre che le parole
connotino concetti determinati, e non deliri paranoici) oscura la comprensione della vera natura
storica e sociale, e quindi materialmente “costituzionale” della Seconda Repubblica stessa. In
superficie, la fine delle ideologie (filosoficamente nobilitate con il nome post-moderno di “grandi
narrazioni”), in profondità la dittatura liberista dei mercati finanziari e la fine della sovranità
monetaria dello stato nazionale con tutti i suoi annessi e connessi (annessi e connessi che si
identificano con l’’’eredità” storica e filosofica degli ultimi tre secoli).
Come tutti sanno, e come i corrotti storici con temporaneisti fingono di non sapere, Berlusconi è un
puro prodotto di Mani Pulite, il cui statuto “formale” si basa sulla cosiddetta “obbligatorietà
dell’azione penale”, laddove il suo statuto “materiale” (e cioè storico) si può riassumere come un
colpo di stato giudiziario extra-parlamentare. E non c’è bisogno di essere studiosi di Tucidide,
Machiavelli e Weber (o addirittura – orrore – di Karl Marx) per sapere che la sua genesi “materiale”
non può essere rintracciata nella onesta volontà pura di un gruppo di magistrati milanesi (e
tantomeno di magistrati “comunisti”, come afferma in modo paranoico il dilettante storiografo
Silvio Berlusconi), ma deve essere ricercata in un maestoso processo di riorientamento politico
complessivo delle oligarchie dominanti, italiane ma soprattutto internazionali. Il “mito” di Mani
Pulite, in senso soreliano, è stato un mito ideologico che ha permesso la riconversione identitaria
del vecchio PCI nel nuovo metamorfico PDS-DS-PD.
Affrontiamo ora sommariamente il tema da te suggerito, cioè l’eventuale (ed ormai fortemente
probabile, e non solo per le accidentali sconfitte nelle recenti amministrative e nei quattro
referendum) fine del berlusconismo, una fine propiziata dalle oligarchie finanziarie e bancarie, non
certo dai “poveri untorelli” irrilevanti Vendola e Di Pietro. Il paradosso della irreversibile
decadenza del berlusconismo non sta nelle puttane di Arcore, nel bunga-bunga, negli
impresentabili cortigiani Emilio Fede e Lele Mora (si tratta di pittoreschi fenomeni da Basso
Impero certo divertenti, ma non decisivi), quanto nel fatto che queste oligarchie vogliono da tempo
una piena omologazione liberista (attenzione, non liberal-democratica, paroletta per creduloni postbobbiani,
ma liberista, e solo liberista), ed appare sempre più evidente che Berlusconi non riesce a
farla, anche se magari vorrebbe farla con tutto il cuore. E non riesce a farla perchè Berlusconi vuole
“piacere”, come tutti i piazzisti ed i venditori, mentre una simile omologazione liberista richiede
lacrime, sangue e peggioramento generalizzato delle condizioni di vita della stragrande
maggioranza del popolo italiano (di tutto il popolo italiano, non solo dei salariati, dei precari e dei
malati da assistere). Qui sta il paradosso Berlusconi, che coincide in larga misura con il paradosso
della Seconda Repubblica. O si parla di questo, e solo di questo, o si ingannano i lettori e li si tratta
come babbioni e pecoroni.
E’ del tutto noto, e non lo scopro certo io, che la simulazione mediatica crea una realtà virtuale che
non ha praticamente nessun rapporto con la “realtà reale”. E mentre lo spettatore televisivo
passivizzato e rincoglionito pensa che la realtà reale sia dominata da1la critica sociale di Mentana,
Santoro, Saviano e Benigni (questi nobili successori di Croce, Gentile e Gramsci), la vera realtà
reale sta nelle decisioni di rating di Moody’s. Come dicevano gli antichi, hic Rodhus, hic salta. Ciò
che bisogna capire prima di ogni altra cosa, é che non siamo tanto di fronte ad una omologazione
liberal-democratica, quanto ad una omologazione liberista dell’Europa all’orribile modello del
capitalismo anglosassone ed USA, che è effettivamente il modello di capitalismo più efficiente e
“performativo” dal punto di vista dei mercati finanziari, il nuovo Assoluto che soltanto pensatori del
tutto degenerati come Eugenio Scalfari possono pensare essere meno feroce e cannibalico dei
vecchi Assoluti dispotici e religiosi. Gengis Khan, Nerone, Hitler e Stalin sono semplici dilettanti
rispetto a Moody’s. So bene che questo sarà chiaro fra qualche decennio, mentre oggi non lo è
ancora.
Questa normalizzazione anglosassone implica un governo tecnico (non ha nessuna importanza se di
destra, sinistra, centro, sopra, sotto, di lato, eccetera) che attui un vero e proprio commissariamento
forzato del potere politico in Italia. Del resto, tu stesso lo fai capire nella tua terza domanda. In
questo senso, l’esempio della Grecia deve farci pensare. La Grecia è stata letteralmente
“commissariata”, ed infatti il popolo greco usa il termine “giunta” (termine originariamente
spagnolo, inteso come giunta militare di stato d’eccezione, poi trasportato in greco, con curiosa
traslitterazione in lettere greche, al tempo dei colonnelli 1967-I974) per indicare l’attuale governo
Papandreu, nipote di un liberale e figlio di un socialista. Al di là di questo pittoresco esempio, resta
il cuore della questione: l’omologazione liberista e privatizzatrice, base di una sorta di “mercatismo
assoluto”, implica una integrale espropriazione dell’intero agire politico, non importa se di destra o
di sinistra. Qui sta la radice della fine virtuale della dicotomia Destra/Sinistra, non certo nella
cosiddetta fine delle ideologie e delle grandi narrazioni. Il dominio della crementistica e
dell’omologazione liberista espropria infatti ogni agire politico, e chi si appassiona allo scontro
Berlusconi-Fini-Bersani-Casini si appassiona ad un gioco di ombre, e meglio ad un “gioco di
ruolo”.
La vera domanda da un milione di dollari può forse essere formulata così: per quale ragione Silvio
Berlusconi, che si proclama liberale e liberista, non è ritenuto in grado di portare a termine quella
omologazione liberista richiesta dalle oligarchie? Non è facile rispondere, e non si può farlo se non
con prove ed errori. Trascurando qui altri schemi alternativi di risposta, direi in prima
approssimazione che l’Uomo diventato personificazione della Seconda Repubblica (Silvio
Berlusconi, appunto) è in realtà una figura umana, imprenditoriale e politico-culturale, da Prima
Repubblica, da boom iniziato nel 1958, da tic culturali paleo-borghesi (i comunisti, il maschilismo
ostensivo, ed altri stilemi da commedia all’italiana, alla Sordi ed a film come I Magliari). Per
effettuare un vero commissariamento liberista una simile figura da Anni Cinquanta, politicamente
scorretta, che disprezza i gay e tocca il sedere alle minorenni (ancora una volta, si tratta di stilemi da
commedia all’italiana 1950-1970), è poco adatta, appunto, perché legata a vecchie forme ultraborghesi
di dominio. Ci vogliono figure nuove, che Nietzsche avrebbe definito “Ultimi Uomini”,
gente che sa che Dio è morto (in questo caso, che sono morti sia il Fascismo che il Comunismo), e
che appunto per questo sono nichilisti compiuti, in grado di diventare figure anonime di
“commissari” della normalizzazione liberista. Le figure ideali sono gli ex-fascisti (Fini) e gli ex
comunisti (D’Alema, Bersani). Chi rilutta a tirare queste conclusioni, ritenendole magari
paradossali ed estremistiche, non capisce che queste figure di normalizzatori non devono soltanto
liquidare un passato fascista, socialista, comunista, operaio, proletario, eccetera, ma devono
liquidare soprattutto 1a vecchia forma di egemonia borghese-liberale. Cavour e Giolitti sono
incompatibili con Moody’s e con Standard and Poor’s. Il vecchio puttaniere, costruttore edile e
imprenditore televisivo, è legato ad un mondo in cui i ceti medi non sono ancora pienamente
precarizzati, e per questa ragione non sono ancora disposti a digerire “lenzuolate” di
liberalizzazioni.
Se questa mia ipotesi è anche solo parzialmente credibile (io stesso non ne sono affatto sicuro al
cento per cento), allora 1’enigma-Berlusconi diventa meno oscuro. Ma il rumore di fondo su aspetti
del tutto marginali (telefascismo, Ruby, puttanelle, festini con Lele Mora e Corona, eccetera)
impedisce, ed impedirà ancora a lungo, di comprendere l’enigma Berlusconi con categorie
politiche, storiche e sociali e non solo estetico-giudiziarie.

2) La fine di Berlusconi e del berlusconismo apre nuove fasi nella politica italiana. Al
centrodestra dovrebbe succedere il centrosinistra. Il quadro politico italiano non è dissimile da
quello europeo. Registrano analoghi cali di consenso la Merkel, Zapatero e Sarkosy. I partiti di
governo cioè, indipendentemente dal loro schieramento a destre o a sinistra, vanno incontro a
disastri elettorali a catena. Nell’ultimo ventennio abbiamo assistito periodicamente, ad ogni
scadenza elettorale, a questi ormai consueti travasi di consensi, simili ad una partita di ping
pong. La crisi economica, i tagli alla spesa sociale, la disoccupazione ormai endemica, hanno
prodotto un malcontento generale che puntualmente penalizza i governi. I successi delle
opposizioni non sono dovuti certo alla loro capacità propositiva, ma semmai agli errori e alle
misure impopolari imposte dalla UE ed attuate dai governi. L’opposizione poi diventa e subisce la
stessa sorte: tutto secondo un copione ormai consolidato. L’astensionismo cresce dappertutto a
macchia d’olio: vince le elezioni non chi ottiene più consensi, ma chi perde meno voti. La sinistra
italiana non fa eccezione. Il PD, il maggiore partito di opposizione, non riesce ad imporre un
suo candidato nemmeno alle elezioni primarie interne. Capitalizza semmai le vittorie di
personaggi minori (Vendola, Pisapia, De Magistris), buoni affabulatori di masse, ma leaders di
governo improbabili. Alle elezioni politiche dovrebbe varare una l’ennesima coalizione
eterogenea (da Casini a Vendola), come nei passati governi Prodi, sulla cui unità e durata è
lecito dubitare, tanto più che verrà a mancare il collante antiberlusconiano, che ha rappresentato
finora la stessa ragion d’essere dell’opposizione. Il PD non ha contestato le scelte filoamericane
del governo in politica estera, non ha rappresentato un ostacolo alle politiche antisociali del
governo stesso, anzi, spesso ha rimproverato al centrodestra di non aver attuato le liberalizzazioni
promesse. E’ stato spesso affermato in passato che il PD non ha una linea politica definita: non
ha una visione dei problemi sociali se non quella presa a prestito dalla CGIL, non ha idee sui
problemi della giustizia che non siano la fotocopia di quelle dell’Associazione nazionale
Magistrati, non concepisce un orientamento politico generale che sia dissimile dalla
impostazione della politica / costume del quotidiano “La Repubblica”.


Invitandomi a parlare della “sinistra” (sia pure nella versione oggi di moda che si autodefinisce di
centro-sinistra, in cui in realtà la sinistra è ridotta a coperta ideologica identitaria del centro, e solo
del centro) tu mi inviti a nozze, perchè si tratta di una identità cui sono stato interno dall’età di
diciotto anni (1961), e cui mi sono distaccato solo negli untimi anni. Non mi sono certo distaccato
dai suoi cosiddetti “valori” (ad esempio la bobbiana eguaglianza sociale), ma mi sono distaccato
proprio dal vergognoso tradimento di questi stessi valori da parte della sua vergognosa classe
politica. Ho ritenuto di non dovermi rifugiare in una “sinistra ideale” (anzi, weberianamente ideal
atipica), contrapposta alla sinistra “visibile”. Nel medioevo questa fu la scelta della “chiesa
invisibile” (Occam, eccetera), ma io ho ritenuto (e sempre più me ne convinco) che questo ripiegamento
in una “sinistra ideale” fosse di fatto solo una mezza misura, laddove si trattava invece di
interrogare radicalmente l’esaurimento storico ed ideologico della dicotomia. Ma questo i miei
lettori ed amici lo sanno bene, ed è inutile sprecarvi altra carta preziosa.
La sinistra storicamente esistita (trascuro qui il comunismo marxiano, che a differenza di come
molti pensano era del tutto estraneo alla dicotomia Destra/Sinistra dei suoi tempi, e che diventò di
“sinistra” solo attraverso la normalizzazione social-democratica tedesca nel ventennio 1875-1895)
ha sempre avuto come codice essenziale permanente il raddrizzamento della diseguaglianza
economica (continuamente prodotta e riprodotta dal normale funzionamento del capitalismo)
attraverso la decisione politica sovrana. Era questo il minimo comun denominatore di tutte le
sinistre, mentre al numeratore si possono mettere le varie correnti (anarchici e socialisti, riformisti e
rivoluzionari, eccetera). Se però sparisce questo minimo comun denominatore, e la riproduzione
globalizzata del capitalismo liberista di tipo finanziario lo fa sparire, allora tutto il berciare di
Benigni e di Santoro resta solo virtuale. Tutto fumo e niente arrosto. I tifosi di Ballarò e di RAITRE
possono certo pensare soggettivamente di essere di “sinistra”, ma anche i pazzi pensano di
essere Napoleone senza peraltro esserlo veramente. Il “così è se vi pare” funziona nel teatro di
Pirandello, ma non nella filosofia politica e nella storia sociale.
Si è scritto molto nell’ultimo ventennio a proposito delle insufficienze e della palese strumentalità
dell’anti-berlusconismo della Sinistra, ma raramente si è riusciti a cogliere il vero centro del
problema. In primo luogo, la personalizzazione esasperata nella polemica con l’avversario è
funzionale alla “sparizione” dell’analisi strutturale dei problemi, e questo ovviamente favorisce la
manipolazione dei dirigenti. Il vecchio PCI era in proposito un vero specialista. Ricordo che nei
vecchi festival dell’Unità c’era per la plebe un banchetto per il tiro alle palle ad un faccione di un
social-democratico (PSDI) di cui ora mi scuso di non ricordare il nome. Poi, quando fu il turno di
Craxi la personalizzazione giunse a livelli inauditi. Si era così formata una sorta di “lunga durata”
per cui la spinta alla personalizzazione esasperata dell’anti-berlusconismo è sempre stata una
preziosa risorsa ideologica “dall’alto”, ma in cui la spinta veniva certamente dal basso. Nei recenti
referendum del giugno 2011 l’interesse per l’acqua pubblica e la critica del nucleare veniva
prevalentemente dalla gioventù erroneamente considerata “apolitica” (erroneamente, perché quando
giunge l’ora la politicizzazione si forma in poche settimane travolgendo le vecchie forme abituali),
ma il quorum non sarebbe mai scattato senza il contributo dell’elettorato di mezz’età ed anziano del
vecchio PCI, riciclato in PDS-DS-PD. E questo elettorato si muove quasi esclusivamente sulla base
dell’anti-berlusconismo. E tuttavia non sta ancora qui il centro del problema. L’anti-berlusconismo,
è stata la forma ideologica “strutturale” per poter effettuare la riconversione dalla vecchia forma
della narrazione storicistico-progressistica del vecchio PCI, divenuta obsoleta con la fine del
comunismo storico novecentesco, che bene o male era dipendente dall’esistenza partitica e statuale
degli stati del “socialismo reale” alle nuove esigenze della gestione politica della globalizzazione
finanziaria, che richiedevano due imperativi assoluti, l’omologazione liberista e la sottomissione
integrale agli USA ed alla Nato. Soltanto la fragilità psicologica e culturale del cosiddetto “popolo
di sinistra” può però spiegare la facilità con cui questa riconversione è stata effettuata. Il solo
paragone che mi viene irresistibilmente alla mente è quello dei giocatori delle tre carte che negli
atrii delle stazioni ferroviarie attirano l’attenzione dei “merli” che ci perdono i loro soldi, oppure di
chi perde interi patrimoni per finanziare fattucchiere, cartomanti e lettrici della mano.
Sono d’accordo con la tua osservazione, per cui il Partito Democratico non ha identità (se si
prescinde del senso di appartenenza vecchio-PCI, difficilmente trasmissibile - per fortuna - alle
giovani generazioni), ma delega l’economia al sindacato, la politica giudiziaria alla magistratura e
la linea politico-culturale al giornale-partito “Repubblica”, versione post-moderna e post-ideologica
della vecchia “Unità’”, di cui conserva peraltro gloriosamente l’abitudine alla diffamazione ed al
settarismo manipolativo. Più esattamente, c’ è una delega alla CGIL della Camusso, non certo di
Landini, che sta alla Camusso come Vendola sta a Bersani. La magistratura va bene così com’è
perchè rappresenta la legittimazione “legale” dell’anti-berlusconismo. In quanto al giornale-partito
“Repubblica” bisogna capire, in termini gramsciani, che si tratta del riflesso di una “egemonia”.
L’egemonia del capitale finanziario sulla classe dei lavoratori dipendenti, sconfitta globalmente
dagli esiti storici del Novecento. E’ chiaro che nel passaggio da Antonio Gramsci a Woody Allen si
passa anche dal Moderno Principe a Zelig. La forza del PD sta proprio nella sua adattabilità
darwiniana ai due parametri della globalizzazione neo-liberista e della canina sottomissione
all’impero USA ed alla NATO. Giorgio Napolitano è il vero eroe eponimo di questa sottomissione,
ed è il Cavour, il Giolitti, il Mussolini di questa canina sottomissione. Ancora una volta, chi non
vuole tirare le conclusioni dall’aggressione anti-costituzionale alla Libia dovrebbe smettere di
occuparsi di politica e ripiegare sulla filatelia e sulla pesca con la lenza.
Lo scenario prossimo futuro della politica priva di sovranità è il pendolarismo dei vasi comunicanti
fra partiti egualmente omologati ed impotenti, e la crescita di un astensionismo da “disperazione”,
frutto di una secessione silenziosa incapace però di cambiare le cose. Le cose cambieranno soltanto,
a mio avviso, con qualcosa di simile ad una “insurrezione”, di cui sarebbe ridicolo però prefigurare
le forme. Se viene a mancare il collante anti-berlusconiano il popolo italiano sarà finalmente posto
di fronte a se stesso, come Dorian Gray di fronte al suo specchio. Non ci saranno più scuse, non si
potranno più trovare capri espiatori, i comunisti, i fascisti, il Nano di Arcore, eccetera. Arriverà il
momento della verità. Purtroppo, non credo che arriverà presto.
Un’ultima questione, non solo terminologica, ma concettuale. E’ possibile parlare di Fini e di
Alemanno come di ‘’traditori” del fascismo, e di D’Alema e Fassino come di “traditori” del
comunismo? Dipende ovviamente dal significato che si da a questo termine. Il termine traditores
proviene dal basso latino, e con esso si connotavano durante la persecuzione dell’imperatore Decio i
capi delle comunità cristiane che “consegnarono” (questo è il significato del verbo latino tradere) i
nomi dei cristiani alle autorità Imperiali romane. E’ indubbio che Fini e D’Alema “tradirono” gli
ideali di Mussolini e di Gramsci. Ma se li si intende non come filosofi politici “gratuiti”, ma come
amministratori delegati di imprese di mercato, essi si trovarono di fronte ad una crisi di
sovraproduzione (di ideologie) e di sottoconsumo (di spendibilità nel nuovo mercato politico
globalizzato post-comunista), e dovettero salvare la loro baracca con una radicale riconversione
produttiva. Se prima avevano prodotto scarpe, ora le scarpe erano invendibili per l’arrivo di una
alluvione, e bisognava quindi produrre non più scarpe ma pinne. E’ traditore chi riconverte la catena
produttiva dalle scarpe alle pinne?
Dipende chiaramente dal significato di “tradimento”. In proposito è interessante che in una
intervista Alemanno avesse dichiarato di non essere mai stato fascista (per sua fortuna solo nelle
favole di Pinocchio spunta il naso lungo per chi dice bugie!), ma che comunque qualcosa di buono
il fascismo lo aveva pur sempre fatto. Invece sia D’Alema che Fassino, interrogati sul comunismo,
sostennero che si era trattato di una “ideologia aberrante” (sic!). E Veltroni rincarò la dose,
sostenendo che solo un folle poteva ancora parlare di lotta di classe. In caso di necessità, sono
disposto anche a fornire le fonti.
E’ questo, dunque “tradimento?” Sì, se ci si mette dal punto di vista dello studioso onesto di
filosofia politica e di storia. No, se questi individui vengono interpellati come semplici
amministratori delegati di una impresa che, dopo una alluvione devono riconvertire la catena
produttiva dalla produzione di scarpe alla produzione di pinne. Non sto dicendo nulla di
assolutamente nuovo. Si leggano gli studi sulla burocrazia di partito di Roberto Michels, che
risalgono ai primi anni del Novecento. Si rileggano 1e considerazioni già citate di Nietzsche sul
nichilismo e sull’Ultimo Uomo. E si concluderà che questi ben pagati fantocci sono meritevoli più
di pena che di disprezzo.