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Una terza repubblica impossibile

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 27/07/2011

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3) Certo è che il tramonto del centrodestra e le incertezze di un futuribile governo di
centrosinistra comporteranno probabilmente fasi di ingovernabilità che potranno condurre a
crisi istituzionali dagli esiti non prevedibili. La crisi economica, le direttive penalizzanti della UE,
la disoccupazione diffusa sono fattori che fanno presagire mutamenti istituzionali rilevanti a
medio termine. Non è azzardato affermare che in Italia siamo alla fine della seconda repubblica.
Ma della terza repubblica nessuno riesce a farsene una idea concreta e plausibile. Certo è che la
decadenza del centrodestra trascinerà con sé quella del centrosinistra. Se destra e sinistra sono
entità politico - ideologiche ormai esaurite, anche i loro surrogati virtuali sono destinati a
scomparire. L’incalzare della crisi endemica di un modello economico liberista non può non
coinvolgere i simulacri post - ideologici della politici della politica attuale. La politica italiana è
impreparata ad affrontare una crisi di tale portata, sia dal punto di vista economico che da quello
istituzionale, perché è incapace di immaginare sia modelli economici alternativi che assetti
istituzionali innovativi. L’idea di una terza repubblica significherebbe per gli attuali partiti
mettere in dubbio la loro stessa ragion d’essere, dato che la loro vocazione non è la progettualità
politica o la trasformazione sociale, ma la gestione di un presente non suscettibile di evoluzione,
perché dagli equilibri dei grandi poteri economici e dalle potenze della politica mondiale. Di
nuove forze politiche, non se ne scorge l’ombra. L’unica eccezione sono le invettive di Grillo
nella condanna di destra e sinistra. Non a caso è da tutti avversato con astio. In prospettiva
potrebbe verificarsi lo stesso scenario già emerso alla fine della prima repubblica. Ad una
situazione di stallo e di ingovernabilità potrebbe sopperire un governo tecnico presieduto da un
uomo proveniente dal potere finanziario (vedi Bankitalia) o dalla grande industria (vedi
Confindustria), che avrebbe il compito, su mandato internazionale, di “normalizzare” l’Italia con
un programma di riforme di stampo liberista, con conseguente macelleria sociale, che omologhi
l’Italia ai modelli economici e politici anglosassoni, con la prospettiva del recupero dei consensi
dell’elettorato di centrodestra e della sinistra moderata. Il passaggio alla seconda repubblica fu
infatti realizzato con le privatizzazioni dei governi Ciampi, Amato e Dini. I poteri forti già oggi
sono alla ricerca di un nuovo “uomo della provvidenza”: la terza repubblica dunque sarà quella
del capitalismo compiuto? La storia non ripercorre mai un identico percorso. Nuovi conflitti
sociali potrebbero frapporsi ai disegni delle oligarchie finanziarie. Sull’incertezza e
sull’imprevedibilità del prossimo futuro poggiano le speranze di ogni possibile evoluzione della
storia.


Stiamo veramente andando verso la Terza Repubblica? Difficile rispondere a questa domanda. Le
variabili incognite sono molte. Per fare almeno qualche ipotesi bisogna chiarire prima i termini e
poi gli scenari “strutturali”, dal momento che il gossip politico del TG 7 di Mentana non ci può
aiutare in alcun modo.
Se per Seconda Repubblica si intende il poema satirico intitolato Berlusconeide è possibile
ipotizzare cautamente che essa forse è alla fine, sebbene le dichiarazioni di fine irreversibile di
Berlusconi siano già state fatte in passato almeno tre volte. La Berlusconeide sta per arrivare ad un
ventennio, anche se i suoi oppositori dimenticano che Berlusconi ha già subito due volte una
sconfitta elettorale alle politiche (1996 e 2006), e perciò parlare di “fascismo mediatico” è da
irresponsabili golpisti giudiziari.
Ma la Seconda Repubblica (e si veda il mio tentativo di definizione strutturale di essa contenuto
nella mia prima risposta) non può essere in alcun modo identificata con la Berlusconeide. La
Seconda Repubblica inaugura la fine della decisione politica e l’epoca del commissariamento
internazionale forzato, non importa se formalmente con un governo “tecnico” oppure con un
governo partitico-politico. Qui è decisiva la sostanza, non la forma. Certo, i governi “tecnici” sono
preferibili agli occhi del grande capitale finanziario e delle oligarchie economiche, perché possono
colpire più in profondità i diritti acquisiti dai lavoratori nei decenni precedenti, ma ove siano di
difficile costituzione un “commissariamento” è possibile anche per governi ancora formalmente
“politici” (si veda in questo giugno 2011 l’esempio della Grecia e del Portogallo, e fra poco forse
anche della Spagna e dell’Italia). Ma se quanto ipotizzo qui è anche solo parzialmente vero, allora
non solo la Seconda Repubblica non è finita ma deve essere ancora “perfezionata” e portata a
termine. Il processo di omologazione anglosassone del nostro capitalismo è iniziato a metà degli
anni Novanta del Novecento, ma esso può essere veramente “perfezionato” solo sotto la minaccia
del cosiddetto “contagio” da parte di fantomatici “speculatori internazionali”. Del resto il pagliaccio
barese Vendola lo ha già fatto capire in una intervista al “Corriere della Sera”, in cui dichiara che è
impossibile mantenere nelle nuove condizioni economiche e politiche il vecchio welfare state. Chi
pensa che il pagliaccio barese possa essere una alternativa “di sinistra” a Bersani può effettivamente
credere a tutto, anche che la Befana il 6 gennaio porti il carbone dolce ai bambini. Esiste una
costante storica che attraversa il serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD (per ora siamo a quattro,
ma domani chissà), e consiste nella coltivazione di una stampella “di sinistra” che copra nicchie di
elettorato inquieto e confuso. Il retore pugliese non ne è che l’ultima grottesca manifestazione.
Concludiamo allora sinteticamente su questo punto. Possono certo essere mutati i sistemi elettorali
(a questo spinge ad esempio Casini per massimizzare l’importanza del suo fallimentare Terzo Polo),
possono essere mutate le coalizioni di governo, possono essere introdotte normative di costume
maggiormente “laiche” (matrimonio gay, eccetera), eccetera. Ma questo non comporta il passaggio
dalla Seconda alla Terza Repubblica. Finchè abbiamo il commissariamento forzato della politica da
parte dei cosiddetti “mercati”, termine che nasconde pudicamente gli speculatori internazionali, la
seconda repubblica non solo ci sarà ancora, ma dovrà ancora essere perfezionata. In proposito,
assistiamo spesso a dichiarazioni schizofreniche. L’apologeta della globalizzazione capitalistica
Federico Rampini (cfr. “Repubblica”, 27.06.2011) sostiene che viviamo in uno stato di “contagio”
permanente, cui si sottraggono in parte soltanto gli stati (Rampini cita la Cina, l’India ed il Brasile)
che hanno avuto il coraggio di non adottare un regime dei cambi pienamente convertibile, e che
praticano forme di protezionismo palese o occulto. A mia conoscenza, solo Alain de Benoist ha
avuto il coraggio di scrivere apertamente che l’Europa potrà salvarsi soltanto reintroducendo forme
di protezionismo finanziario ed industriale. Sono pienamente d’accordo. Chi pensa che stia
esagerando, e che scriva tutto questo sulla base della mia competenza soltanto storica e filosofica e
della mia peraltro ammessa incompetenza economica lo dica pure, se vuole, ma prima legga
l’ultima opera economica di David Harvey (cfr. L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano 2011), un
vero e proprio capolavoro di chiarezza e di radicalità sulla natura della crisi capitalistica esplosa a
partire dal 2008. Anche in Italia non mancano economisti seri e radicali (cito qui fra gli altri quello
da cui ritengo di avere imparato di più, Vladimiro Giacchè, autore anche di un ottimo manuale di
storia della filosofia), ma molti di loro sembrano soffrire di una certa schizofrenia, perchè da un lato
fanno analisi profonde e radicali alla Harvey, e dall’altra sostengono politicamente gruppi
parassitari del Partito Democratico come quelli di Vendola, Diliberto e Ferrero, e tutto questo
ovviamente in nome della centralità dell’antiberlusconismo. Ma il Partito Democratico è il partito
del commissariamento neoliberale e liberista della normalizzazione italiana interna e soprattutto
esterna (USA e NATO) .
Non serve neppure l’agitazione astratta del cosiddetto “comunismo” (in proposito cfr. AAVV,
L’idea di comunismo, Derive e Approdi, Roma 2011). I marxisti universitari anglofoni e francofoni
che la stanno rilanciando sulla base della recente crisi si limitano in genere a rilanciare il modello di
Toni Negri e Michael Hardt del rovesciamento anarcoide immediato della globalizzazione in
comunismo, come se per giungere al cosiddetto “comune” si potesse “saltare” il momento del
ristabilimento dei diritti del pubblico rispetto al privato. E così la comunità universitaria “marxista”
(anche francese, mi riferisco a Badiou, Rancière, Nancy eccetera) attua una fuga in avanti, una
hegeliana “furia de; dileguare” che lascia del tutto indifesi i diritti attuali dei lavoratori, con il
rischio di consegnarli a posizioni alla Madame Le Pen, che almeno sostiene tesi razionali sul
protezionismo commerciale e sulla sovranità monetaria, ma che personalmente non potrei mai
adottare, perchè non sono disponibile a politiche di guerra di civiltà anti-islamica .
L’omologazione bipolare, caratteristica del commissariamento della politica da parte della sovranità
assoluta dell’economia finanziaria globalizzata, connota una fase di capitalismo assoluto postborghese
e post-proletario e nello stesso tempo produttore di sempre maggiore diseguaglianza fra
continenti, popoli, nazioni ed individui. Sta qui, ovviamente, la fine dell’operatività storica della
dicotomia Destra/Sinistra. Ma allora, se è così, come si spiega che questa dicotomia di fatto sembra
continuare ad orientare l’immaginario politico-identitario, e non solo degli europei? Sarà forse
sbagliata questa ipotesi? In proposito, ci ho pensato spesso, e credo che se ritenessi di aver sbagliato
avrei l’onestà di ammetterlo. Ma non credo proprio. La dicotomia rinascerebbe a nuova vita se
entrassimo in una fase storica in cui la politica potesse di nuovo reincorporare l’economia (nel
senso del termine embedded di Karl Polanyi). Ma così non è. Nello stesso tempo, la polarità virtuale
è continuamente reimposta dalla simulazione mediatica e dalla lunga durata della coscienza politica
degli ultimi due secoli, dal momento che si tratta di una protesi politica ideale di manipolazione.
Chi pensa che si possa giungere facilmente ad un suo superamento simbolico può pensare che la
divulgazione evoluzionistica darwiniana, se insegnata precocemente nelle scuole, potrebbe svuotare
la piazza di San Pietro in occasione dei discorsi del Papa.
Certo, nuovi conflitti sociali potrebbero iniziare a svuotarla. Ma questo non avverrà
automaticamente, e soprattutto non avverrà presto. La dicotomia Destra/Sinistra è continuamente
irrigata dal materiale simbolico sedimentato dalla “lunga durata” degli ultimi due secoli. Il recente
movimento dei cosiddetti “indignati” in Spagna farebbe in proposito ben sperare, perchè sembra che
la presa di coscienza della strutturalità della disoccupazione giovanile e della precarizzazione del
lavoro sia finalmente arrivata alla conclusione che non c’è alcuna differenza fra i governi di centrodestra
e di centro-sinistra. Ma la Spagna della movida decennale è un paese in cui l’analfabetismo
politico delle nuove generazioni ha raggiunto livelli altissimi, e l’ingenua fede nella democrazia
diretta integrale ha portato a Madrid a perdere un’ora di tempo per accertare se convenisse fare un
minuto di silenzio o un minuto di fischi (si è concluso salomonicamente di farli entrambi prima uno
e poi l’altro). In Italia il movimento di Beppe Grillo ha cercato di affermarsi proprio sulla base della
denuncia della dicotomia Destra/Sinistra, ma è bastato agitare un po’ di anti-berlusconismo e di
mito del “buon governo” (Pisapia a Milano, De Magistris a Napoli, eccetera) per svuotarlo
elettoralmente. Il fatto è che Grillo resta pur sempre una variante teatrale della cultura
massimalistica di sinistra, ed è ridicolo pensare che una dicotomia radicata da due secoli
nell’immaginario popolare possa essere “superata” con il motto urlato che “i politici sono tutti eguali”.
Ed infatti non è neppure vero. Pisapia non è eguale alla Moratti. Il fatto è che il cuore del
problema non sta nel fatto che i politici sarebbero tutti eguali, ma nel fatto che nessuno di loro è
sovrano sia rispetto all’economia che rispetto alla politica estera. La via di Grillo e degli “indignati”
è la più facile, e non ho dubbi sul fatto che sarà ancora egemone purtroppo a lungo.


4) L’esito fallimentare di questa seconda repubblica, che si avvia ad un mesto tramonto, mi
induce ad alcune considerazioni. Fu veramente seconda repubblica? E’ vero che dopo la fine
della DC tutti i partiti hanno avuto la possibilità di accedere al governo senza veti internazionali
e ideologici, che hanno condannato alcune forze politiche alla perenne e coatta opposizione (cioè
il PCI e il MSI). E’ inoltre vero che si è verificata un alternanza di governo prima impensabile.
Ma la politica ha perso i propri contenuti culturali e ideali con l’accettazione di un unico
modello sociale e politico: la liberaldemocrazia, cui tutti sono omologati. Lo stato è sempre più
limitato nei propri poteri sia esterni (vedi la perdita della sovranità monetaria ed economica
devoluta alla BCE), che interni, con l’accentuarsi dei poteri locali (e con il federalismo la
centralità dello stato unitario sarà solo un ricordo) e del prevalere degli interessi lobbistici dei
poteri finanziari, delle corporazioni delle categorie protette. La debolezza della politica ha
favorito gruppi e istituzioni non elettivi, che sia all’interno che all’esterno del paese,
costituiscono il governo di fatto della società italiana. Il sistema politico della seconda repubblica
è tuttora forte, e la sua forza trae origine proprio dalla sua debolezza: una politica debole
favorisce interessi particolari a scapito del bene comune, e, comunque ha distribuito a piene
mani e senza discriminazioni poteri, privilegi, rendite di posizione, corruzione facile a tutti i
livelli. Quindi il coinvolgimento di una miriade si grandi e piccoli potentati nel potere reale che
domina il nostro paese, ha reso questo sistema impermeabile ad ogni istanza di cambiamento.
Inoltre, per fondare una terza repubblica occorre creare una nuova classe dirigente che, dato
l’immobilismo sociale, generazionale, culturale e politico cui l’Italia sembra condannata, è al
momento al di là da venire. Una nuova classe dirigente può emergere da nuove sintesi politico -
culturali che creino nuove forze politiche con programmi di trasformazione sistemica della
società italiana. Ma è proprio dal fallimento del modello liberista globale può nascere l’humus
favorevole a grandi mutamenti nella prospettiva futura. Noi stessi, con il nostro ormai decennale
impegno, oggi possiamo delineare i presupposti filosofici, culturali ed etici di un mutamento
sistemico della società, ma non siamo in grado di elaborare una sintesi politica che si possa
tradurre nella creazione di un nuovo sistema politico alternativo al capitalismo. Il ruolo che
comunque siamo chiamati a svolgere in questa contingenza storica è quello si elaborarne i
presupposti.


Caro Tedeschi, in questa mia quarta risposta vorrei sviluppare quasi solo quanto dici in chiusura,
dal momento che usi correttamente il termine “noi”. Tu scrivi, ed hai perfettamente ragione, che noi
non ci riteniamo certo in grado di proporre una nuova teoria politica bella e pronta, ma abbiamo la
moderata e cauta presunzione di starne elaborando i presupposti culturali fondamentali. D’ora in
avanti, mi scuserai se userò il pronome “io” anziché “noi” (riprendendo il comico romano Petrolini,
che diceva “parliamo tanto di me”), ma questo non lo faccio certamente per scarso rispetto nei tuoi
confronti. E’ esattamente il contrario. Scrivendo “noi” potrei coinvolgerti in interpretazioni che tu
non ti sentiresti forse di sottoscrivere, e questa è la massima forma di mancanza di rispetto per un
amico. Resta inteso, però, che so bene che tu condividi quasi sempre, se non la lettera, almeno lo
spirito di quanto cerco di esprimere.
Sapere chi siamo, che cosa vogliamo e soprattutto che cosa possiamo realisticamente ottenere è
l’unico modo di sottrarsi ai due estremi patologici della megalomania e della auto-commiserazione.
Per quanto mi concerne, mi sono formato politicamente fra il 1964 ed il 1974 all’interno del profilo
teorico del comunismo eretico di sinistra, sulla base della critica di tipo trotzkista e maoista sia allo
stalinismo ed al post-stalinismo sovietico sia al togliattismo ed al post-togliattismo italiano. In
questo nulla di particolarmente originale, perchè si è trattato della storia di decine di migliaia di
persone, gran parte dei quali oggi “rimuovono” questo loro passato con imbarazzo e vergogna, e
rimuovendolo mostrano così di non averlo affatto “superato”, ma di averne mantenuto in forma
nuova (generalmente post-ideologica, neo-liberale e post-moderna) la vecchia rigidità ed addirittura
la vecchia pulsione al fanatismo ed all’intolleranza. Io ritengo invece (permettimi questa innocua
presunzione) non solo di essermi congedato da questo profilo (che non mi vergogno affatto di aver
praticato per un ventennio), ma di essermi anche congedato dal congedo. E congedarsi dal congedo
è quasi sempre molto più difficile del semplice congedo.
L’allievo di Adorno Krahl usò nei confronti del suo maestro l’espressione di “non avere saputo
congedarsi dal proprio congedo”, in questo caso dal suo congedo da una borghesia idealizzata
contrapposta alla decadenza capitalistica dei suoi tempi. Al di là della pertinenza o meno di questa
accusa (a mio avviso ingenerosa, perchè Adorno ebbe tutte le ragioni del mondo nel contrapporre la
buona vecchia coscienza infelice vetero-borghese al nuovo spappolamento del capitalismo
manipolato ed amministrato), l’espressione di Krahl mi sembra acuta ed intelligente. Non voglio
parlare di te, anche se conosco bene la tua storia, il tuo passato ed il tuo presente. Mi limiterò a
quanto mi pare di sapere di me stesso, seguendo l’esempio autobiografico di Montaigne e Rousseau.
Se per “comunismo” si intende un anticapitalismo radicale (è il significato datogli da David Harvey,
L’Enigma del capitale, citato, pp. 159-160) io non mi sono affatto congedato da esso, ma gli sono
rimasto fedele. Il congedo è avvenuto nei confronti del profilo del “marxismo critico” trotzkista e
maoista, ma non perché esso fosse troppo radicale, ma al contrario perché non lo era abbastanza,
perchè restava interno, sia pure in forma protestataria e subalterna, ai limiti classisti, sociologici ed
economicisti del vecchio comunismo, gli stessi limiti che lo hanno portato alla fine. Avvenuto
questo congedo, ho corso il rischio di non riuscire a congedarmi da questo congedo, continuando a
perseguire una “sinistra ideale”, del tutto inesistente, in cui gravitazionalmente non si poteva che
continuare a cadere nel mondo virtuale degli Ingrao, della Rossanda, dei Bertinotti, e di tutta
l’Armata Brancaleone e la Corte dei Miracoli dei cosiddetti “intellettuali di sinistra”. Il congedo
presupponeva quindi, per essere effettivo, anche il congedo dal proprio congedo. In questo senso,
l’incontro con persone come de Benoist e come te, caro Tedeschi, è stato per me liberatorio.
Questo, ovviamente, non mi ha affatto fatto diventare di “destra”. A parte il ricorso al gossip
(diffamatorio, tipico di una cultura marginale, settaria e violenta, il passaggio a destra “era
impossibile, per il fatto che, insieme alla sinistra, anche la vecchia destra non c’è più, perchè non
possono più esistere sinistra e destra sotto il commissariamento integrale della politica da parte
dell’economia. Si entra in una terra di nessuno, in una terra incognita, le cui mappe non sono ancora
state tracciate. E qui appunto si incontra il problema dei “presupposti” di cui tu parli, che è bene
cercare sia pure sommariamente di chiarire.
Nella tradizione occidentale, che come è noto è greca e niente affatto ebraico-cristiana, come si
ripete sempre a pappagallo, l’idea che si possa elaborare un programma politico “a tavolino”, sulla
base di presupposti puramente filosofici (di una filosofia geometrizzata), risale a Pitagora, e quindi
a Platone, che fu prima di ogni altra cosa un pitagorico ateniese, in quanto un esclusivo allievo di
Socrate non avrebbe mai sostenuto la centralità della geometria. Lo studioso francese Maxime
Rodinson, in uno studio fondamentale mai tradotto in italiano (cfr. De Pythagore à Lénine, Fayard,
Paris 1993) fa correttamente risalire l’attivismo ideologico di Lenin non tanto a Marx (e quindi alla
filosofia classica tedesca di Fichte e di Hegel), quanto al modello pitagorico-platonico, e questo è
addirittura stato ripreso in un recente seminario di Alain Badiou, e viene anche valorizzato con
simpatia dallo studioso italiano Luca Grecchi. E tuttavia io penso che una teoria politica non possa
nascere a tavolino sulla base di presupposti astratti, ma soltanto sulla base dell’esperienza concreta
di milioni di persone. A tavolino possono essere elaborati soltanto dei presupposti culturali di una
linea politica (ad esempio, il concetto di sostanza in Spinoza, indubbiamente elaborato a tavolino, è
a mio avviso il presupposto dell’idea di comunità politica solidale, in opposizione all’empirismo di
Locke, presupposto di un individualismo radicale).
In questa critica a Pitagora ed a Platone mi rifaccio non solo a Rodinson, ma ancor prima ad
Aristotele, che criticava nell’utopia politica di Platone la prevalenza della cosiddetta “causa
formale” (cioè geometrico-ideale) sulle altre tre cause (materiale, efficiente e finale, con
l’avvertenza che il termine greco di causa, aitia, non ha un significato fisico-galileiano, ma ha un
significato di principio, archè). In conclusione, io non penso che sia possibile proporre
credibilmente una teoria politica prima che si siano formate le condizioni storiche e sociali che la
rendano possibile, e possibile perché “visibile” a milioni di persone.
E’ invece possibile, e legittimo, discutere i presupposti di una futura passibile teoria politica. Su
questo ci siamo incontrati, ed il nostro incontro è stato indubbiamente fecondo. Fecondo in quanto
fecondo di idee ed ipotesi originali. Certo, ci si scoraggia assai presto se si aspetta che quanto diciamo
abbia un visibile riscontro in tempi brevi. Qui parlo solo per me, ed ancora una volta non
voglio coinvolgerti a farti dire cose che magari non diresti. Io ho preso coscienza soltanto negli
ultimi anni della vischiosità e della terribile forza di inerzia dei punti di vista consolidati, e della
loro funzione non solo manipolativa ed identitaria, ma del fatto che questi punti di vista tradizionali
hanno pur sempre la funzione psicologica, e quindi assicurativa e riassicurativa, di “mettere ordine
nel caos”. La stragrande maggioranza della gente si sentirebbe perduta se decidesse di staccarsi dai
profili acquisiti nella giovinezza o nella prima maturità, e preferisce quindi aderire a delle “teorie di
media portata” (middle-range theories) che non la gettano nella agorafobia dei grandi spazi teorici
incogniti. La claustrofobia è così preferita alla agorafobia. Fuor di metafora, le riassicuranti teorie di
“nuova sinistra” (speculari in questo alle teorie di “nuova destra”) sono preferite a presupposti
teorici radicali che possono dare l’impressione del salto nel vuoto.
Eppure, i tempi nuovi richiedono interpretazioni politiche, storiche e sociali nuove.
Paradossalmente, si tratta del solo modo di essere realmente fedeli ad una tradizione.
Personalmente, non mi offenderei affatto ad essere considerato un pensatore “tradizionale’”.
Dipende, ovviamente, a quale tradizione ci si richiama. Io mi richiamo (prima ancora che a Spinoza,
Hegel e Marx) alla tradizione dei presocratici greci, che interpreto (sia pure in modo non
“tradizionale”) come filosofi, comunitari, impegnati a salvare le loro città dalla dissoluzione dovuta
alla dismisura (apeiron) legata alla schiavitù per debiti. Sul piano del “progressismo”, il turbocapitalismo
attuale è invincibile. Accettando il terreno del “progressismo”, e facendone anche la sua
bandiera, il comunismo storico novecentesco ne è uscito distrutto. Se avesse letto di più Georges
Sorel, avrebbe forse potuto accorgersene. Se la Cina oggi resiste ancora alla omologazione USA (e
speriamo possa ancora farlo a lungo, per ragioni non solo geopolitiche, ma di filosofia della storia),
non lo fa certo in nome del “comunismo”, ma sulla base di un mandarinato tradizionalista
confuciano basato sul primato, almeno formale, della politica e della macro-economia statuale
sull’attuale “contagio” finanziario. Questo non può ovviamente che essere “provvisorio”, ma a volte
queste provvisorietà sono utili nella logica riproduttiva della storia universale.
Non è questa la sede per elencare ancora una volta i “presupposti” da noi elaborati nel corso di un
decennio. I nostri dialoghi ne sono testimoni. E senza soverchie illusioni, ma anche con tranquilla
soddisfazione, possiamo essere ragionevolmente contenti del nostro percorso, e considerare anche
positivo l’interesse che esso ha già suscitato in lettori ed amici pensosi e privi di pregiudizi
identitari.