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Usa: la dottrina Fiat

di Michele Paris - 27/07/2011

 





Nella giornata di lunedì, la Chrysler e il principale sindacato americano del settore automobilistico (UAW) hanno aperto ufficialmente le trattative per il rinnovo del contratto di lavoro in scadenza a metà settembre. I negoziati, che giungono a pochi giorni dall’acquisizione della maggioranza della compagnia statunitense da parte di FIAT, richiederanno con ogni probabilità ulteriori concessioni ai dipendenti, dopo che i precedenti accordi e la bancarotta controllata del 2009 avevano già segnato un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro e di retribuzione.

All’apertura delle trattative nella sede di Auburn Hills tra Chrysler e “United Auto Workers”, che rappresenta circa 23 mila lavoratori di questa azienda, faranno seguito quelle tra lo stesso sindacato, General Motors e Ford nel corso della settimana. Le cosiddette “Big Three” occupano oggi complessivamente poco più di 400 mila dipendenti e, in seguito ai fallimenti pilotati di GM e Chrysler, i loro profitti negli ultimi mesi sono tornati a far segnare numeri importanti.

Per salvare Chrysler, l’amministrazione Obama due anni fa sborsò qualcosa come 12,5 miliardi di dollari dei contribuenti. Una cifra oggi quasi tutta rimborsata, dopo che la settimana scorsa FIAT, con 560 milioni di dollari, ha rilevato la rimanente quota in mano al Tesoro USA. Grazie a questa recentissima operazione, la compagnia torinese controlla ora il 53 per cento di Chrysler.

L’obiettivo principale della dirigenza Chrysler nelle trattative con il sindacato è quello di non far aumentare in nessun modo i costi di produzione, così da mantenere l’attuale livello di competitività nei confronti dei produttori esteri. Nelle parole del vice-presidente per le relazioni con il personale, Al Iacobelli, Chrysler “ha la responsabilità di evitare un ritorno alle vecchie formule”, dove per vecchie formule s’intende il mero adeguamento degli stipendi dei lavoratori al costo della vita.

Grazie alle ristrutturazioni e agli accordi siglati a partire dal 2007, tutte e tre le compagnie di Detroit sono riuscite a ridurre notevolmente il costo della loro manodopera. Secondo stime interne, quattro anni fa un dipendente Chrysler costava mediamente 76 dollari l’ora tra stipendio e benefit, mentre oggi si è scesi a 49 dollari (56 per GM e 58 per Ford). Questa riduzione è stata favorita non solo dalla politica dell’amministrazione Obama, il cui obiettivo è l’aumento delle esportazioni americane tramite il ridimensionamento del costo della forza lavoro nel paese, ma anche dalla strategia della UAW (che controlla una fetta di Chrysler), più interessata al mantenimento dei profitti e delle posizioni privilegiate dei suoi dirigenti che all’impoverimento dei lavoratori.

Tramite il presidente Bob King, la UAW ha infatti già fatto sapere di essere sulla stessa lunghezza d’onda dei vertici di Chrysler. La preoccupazione principale di King sembra essere quella di mantenere l’azienda competitiva, per questo ha promesso che non verranno ripetuti gli errori del passato. In sostanza, la UAW non intende chiedere alcun ritocco verso l’alto della paga oraria dei lavoratori, puntando piuttosto sul diritto di ricevere una parte dei profitti, impennatisi nei primi mesi del 2011. Le retribuzioni, in definitiva, dovranno essere legate alla produttività e agli utili della compagnia, la quale potrà così trasferire le eventuali perdite agli stessi lavoratori nei periodi negativi.

Che quelle avviate lunedì non siano precisamente trattative tra due parti con interessi contrastanti è risultato d’altra parte evidente dal clima più che cordiale che ha caratterizzato la cerimonia di Auburn Hills. Le già deboli resistenze manifestate dalla UAW nel 2007, quando vennero indetti alcuni scioperi, difficilmente si ripresenteranno in questa occasione, anche perché le condizioni del salvataggio di Chrysler e GM da parte dell’amministrazione Obama nel 2009 prevedevano, tra l’altro, la rinuncia al diritto di scioperare.

L’erosione dei diritti dei lavoratori delle Big Three aveva subito un’accelerazione con i contratti sottoscritti nel 2007. In quell’occasione erano state fissate alcune condizioni la cui portata difficilmente può essere sottovalutata. Le compagnie automobilistiche, ad esempio, erano state esentate dall’obbligo di contribuire all’assistenza sanitaria dei lavoratori in pensione e, soprattutto, gli accordi ora in scadenza avevano creato un doppio sistema di trattamento economico per i dipendenti, con gli stipendi dei neo-assunti di fatto dimezzati (circa 14 dollari l’ora) rispetto a quelli assicurati a coloro che già facevano parte della forza lavoro.

La crisi economica del 2008 e la bancarotta forzata del 2009 portarono poi ad ulteriori concessioni, come la già ricordata clausola che proibisce gli scioperi e il ricorso obbligatorio ad un arbitrato in caso di questioni irrisolte tra azienda e sindacati. Quest’ultima condizione pare sia stata inserita negli accordi su insistenza di Sergio Marchionne, oggi CEO di Chrysler. Non è un caso perciò che Chrysler abbia annunciato di essere pronta a ricorrere proprio all’arbitrato nel caso di un improbabile stallo sulla questione dell’adeguamento degli stipendi all’inflazione.

Secondo quanto pubblicato dalla stampa di Detroit, quando in grado di produrre utili, Chrysler offrirebbe ai propri dipendenti bonus nell’ordine di 4 / 5 mila dollari l’anno. In cambio, tuttavia, verranno richiesti nuovi sacrifici ai lavoratori: maggiore flessibilità, soppressione di alcune festività pagate e aumento della quota riservata alla copertura sanitaria proveniente dagli stipendi (attualmente il 7 per cento), così da mantenere appunto la competitività con i produttori rivali in territorio americano.

Il pacchetto proposto da Chrysler, su cui convergerà senza troppi problemi il sindacato, sarà da modello anche per le trattative con GM e Ford e servirà a non far lievitare il costo del lavoro nei prossimi anni. Tutte e tre le compagnie di Detroit hanno ormai raggiunto il misero livello di paga oraria dei loro competitori tedeschi, giapponesi e coreani che operano svariati impianti non sindacalizzati soprattutto nel sud degli Stati Uniti.

Il ridimensionamento del costo del lavoro è il fattore principale che ha contribuito al ritorno agli utili delle Big Three nell’ultimo anno e mezzo. Le tre aziende nel 2010 hanno fatto segnare profitti per un totale di 10,65 miliardi di dollari. Nel primo trimestre di quest’anno, inoltre, GM ha incassato 3,2 miliardi di utili, Ford 2,6 miliardi e Chrysler 116 milioni. Come confermano i dati ufficiali, l’aumento del fatturato e degli utili derivano in gran parte dalle performance in Nord America dove, secondo un recente articolo del Detroit Free Press, tra luglio e settembre Ford prevede di aumentare la propria produzione di 44 mila veicoli rispetto all’anno scorso.

Nella retorica dei vertici delle case automobilistiche e dei sindacati, insomma, il punto centrale delle trattative in corso è identico a quello sostenuto da trent’anni a questa parte, ovvero da quando è iniziato l’assalto ai diritti conquistati con fatica dai lavoratori nei decenni precedenti. Solo con le concessioni e i sacrifici, cioè, si potranno conservare i posti di lavoro, nonostante l’industria americana abbia visto svanire oltre un milione di posti nel settore automobilistico negli ultimi tre decenni.

In questa corsa verso la creazione di una forza lavoro a basso costo negli USA, il sindacato automobilistico americano ha giocato un ruolo di spicco. Assecondando sempre più il volere dei vertici aziendali, la UAW ha così voltato progressivamente le spalle agli interessi dei propri iscritti - scesi significativamente da 1,5 milioni nel 1979 a 390 mila nel 2010 - contribuendo ad affermare il “modello Detroit” nelle relazioni aziendali. Un modello che la stessa FIAT nei mesi scorsi ha imposto negli impianti italiani con il sostanziale accordo anche dei sindacati nostrani.